Ivor Darreg (vero nome Kenneth Vincent Gerard O’Hara; 1917 – 1994, contemporaneo di Harry Partch) è stato uno dei pionieri della musica microtonale, nonché inventore di appositi strumenti.
Ecco due dei suoi brani tratti dalla sua, a mia conoscenza, unica incisione: Detwelvulate!
Daphne of the Dunes, by Harry Partch, is here recorded for the first time live. Originally the sound track for Madeline Tourtelot’s film Windsong, Partch recorded it alone, by the process of overdubbing. The film, a modern rendering of the ancient myth of Daphne and Apollo, is a classic of the integration between visuals and sound. Partch explains his approach to the score:
“The music, in effect, is a collage of sounds. The film technique of fairly fast cuts is here translated into musical terms. The sudden shifts represent nature symbols of the film, as used for a dramatic purpose: dead tree, driftwood, falling sand, blowing tumbleweed, flying gulls, wriggling snakes, waving grasses.”
Melodic material is short, haunting, and reoccurs motivically. Arpeggiated harmonic texture contrasts melodic sections. Meter is ever changing, almost measure for measure, with pulse sub-divisions of five, seven, and nine common. A trio of the Bass Marimba, Boo. and Diamond Marimba written in 31/16 meter is structured with 5 unequal beats per measure, the beats sub-divided into sixteenths of 5-5-7-9-5. A duet of the Boo and Harmonic Canon is written in a polymeter of 4/4-7/4 over 4/8-7/8. – Notes by Danlee Mitchell
The instruments heard in this recording:
DAPHNE OF THE DUNES
Adapted Viola
Spoils of War
Kithara II
Gourd Tree
Surrogate Kithara
Diamond Marimba
Harmonic Canons II and III
Boo (Bamboo Marimba)
Chromelodeon I
Bass Marimba
Cloud-Chamber Bowls
Pre-recorded Tape
(Note: No more than four instruments are used simultaneously.)
Questo, che a prima vista sembra un pianoforte normale (cliccare l’immagine per ingrandire), è in realtà accordato a 16mi di tono.
Sì. Al posto dei normali 2 semitoni, ci sono 16 suddivisioni. Di conseguenza, fra un Do e un Do#, che di solito sono contigui, qui troviamo ben 7 tasti.
La cosa è evidente ingrandendo (click) l’immagine a destra, in cui si vede chiaramente l’intervallo fra un fa (f) e un fa# (fis).
Questo strumento microtonale è costruito dalla Sauter rifacendosi alle teorie del messicano Julian Carrillo (1875 – 1965) che, nel 1895, iniziò a occuparsi di accordature microtonali. Nel 1925 ideò un sistema di notazione e fondò un ensemble che eseguiva brani microtonali insieme a Stokowski, con il quale andò in tour negli anni ’30.
Nel 1940, dopo aver depositato i brevetti di almeno 15 pianoforti microtonali, contattò la Sauter che gli costruì alcuni prototipi presentati, nel 1958, all’Expo di Bruxelles. Oggi due suoi pianoforti, accordati risp. a 1/3 e 1/16 di tono, si trovano al Conservatorio di Parigi. Altri sono a Nizza e a Mexico City.
Il piano a 1/16 di tono è accordato in modo che l’intervallo di quinta corrisponda a un semitono. Di conseguenza, l’intera tastiera copre circa una ottava, il che è sicuramente un limite. Sarebbe interessante pensare a un gruppo di 6/8 strumenti di questo tipo accordati su ottave diverse (ma mi viene un brivido immaginando la fattura dell’accordatore).
Il suono si può ascoltare in un disco da cui vi presento due estratti. Nel primo è subito evidente la peculiarità dello strumento. Val la pena di raccontare che, quando l’ho ascoltato senza sapere niente, ho subito pensato a un pianoforte elaborato digitalmente e mi sembrava interessante dal punto di vista sonoro. Solo quando ho avuto il disco mi sono reso conto che in realtà era uno strumento naturale. Il secondo, invece, non punta immediatamente sull’effetto sonoro. Alla prima nota, sembra un pianoforte normale, ma, dopo pochi accordi, chi ha un orecchio musicale si chiede cosa diavolo stia accadendo (è un po’ spiazzante, in effetti).
Tanto per restare in tema di Harry Partch, l’Avantgarde Project (AGP), che si occupa di diffondere vecchie registrazioni non ristampate in CD. ha rilasciato il numero 57 che contiene tre brani del nostro.
Questo archivio era stato proposto anni fa, poi ritirato perché questi pezzi erano distribuiti in una nuova esecuzione, ma oggi viene nuovamente distribuito in considerazione del suo valore storico.
Il formato è FLAC (compressione senza perdita). Lo trovate qui.
Di Harry Partch abbiamo già parlato su queste pagine. Artista personalissimo, a cavallo fra il ‘900 storico e il contemporaneo (1901-1974), capace di ideare e costruire una propria strumentazione che non si basa sul temperamento equabile e per questo isolato, ma ciò nonostante sempre presente a sé stesso e consapevole del suo essere compositore (ricordiamo che durante la grande depressione vagava come un senzatetto e tuttavia era in grado di pubblicare un giornaletto dal titolo Bitter Music – Musica Amara), Partch ha sempre portato avanti la sua sfida all’estetica corrente, quale essa fosse.
Con la sua musica, non tonale, non atonale, ma anzi completamente esterna a questo dualismo, (sviluppando quell’atteggiamento prettamente americano che già troviamo in Ives e altri), Harry Partch raggiunge livelli di grande potenza, come in questa ultima opera del 1965-66, eseguita una sola volta mentre era ancora in vita.
Delusion of the Fury: A Ritual Of Dream And Delusion, per 25 strumenti (mai utilizzati tutti insieme), 4 cantanti e 6 attori/ballerini/mimi, accosta un dramma giapponese nel primo atto a una farsa africana nel secondo, realizzando quel concetto di teatro totale che integra musica, danza, arte scenica e rituale da sempre caro all’autore.
L’opera non ha un vero e proprio libretto, nel senso narrativo dell’opera europea. Tutta l’azione è danzata e/o mimata.
Nelle parole di Partch, il primo atto è sostanzialmente un’uscita dall’eterno ciclo di nascita e morte rappresentato dal pellegrinaggio di un guerriero in cerca di un luogo sacro in cui scontare la penitenza per un omicidio, mentre l’ucciso appare nel dramma come spettro, dapprima a rivivere e far rivivere al suo assassino il tormento dell’omicidio, trovando infine una riconciliazione con la morte nelle parole “Prega per me!”.
Il secondo atto è invece una riconciliazione con la vita che passa attraverso la disputa, nata per un equivoco, fra un hobo sordo e una vecchia che cerca il figlio perduto. Alla fine, i due vengono trascinati di fronte a un confuso giudice di pace sordo e quasi cieco che, equivocando a sua volta, li scambia per marito e moglie e intima loro di tornare a casa, mentre il coro intona all’unisono un ironico inno (“come potremmo andare avanti senza giustizia?”) e la disputa si stempera nell’assurdità della situazione.
L’opera si conclude con stessa invocazione del finale del primo atto (“Pray for me, again”), lanciata da fuori scena.
Dai quarti di tono incidentali di Van Halen, passiamo ai quarti di tono intenzionali di Charles Ives (1874–1954) con questi Three Quarter-Tone Pieces for Two Pianos del 1924 (sono gli anni in cui, in Europa, i Viennesi formalizzano le regole della dodecafonia).
È interessante e anche divertente sapere qualcosa di più sul rapporto tra Ives e la microtonalità e sul modo in cui quest’ultima viene ottenuta in questi pezzi.
Rendere microtonale un pianoforte, in effetti, è un problema. A prima vista, sembra che ci siano solo due modi: o si riaccorda interamente il pianoforte, perdendo, però, metà dell’estensione, oppure si ricorre a uno strumento appositamente costruito.
C’è, però, una terza via ed è quella utilizzata da Ives in questi pezzi: usare due pianoforti uno dei quali è accordato 1/4 di tono più alto dell’altro. Ovviamente i due strumenti devono essere uguali e i due pianisti devono essere molto accurati sia come tempo che come tocco e dinamiche perché il tutto deve suonare come un unico strumento e vi sono accordi e frasi in cui l’uno esegue note complementari all’altro.
I rapporti fra Ives e la microtonalità sono curiosi e risalgono all’infanzia in una famiglia di musicisti. Il padre, però, era anche un appassionato di bricolage. Aveva costruito una specie di arpa fra cui aveva teso 24 o più corde per sperimentare con i quarti di tono. In seguito, come racconta lo stesso Ives, aveva composto alcune canzoni in quarti di tono e cercava di convincere la famiglia a cantarle, tentativo rapidamente abbandonato per essere ripreso solo come forma di punizione.
Ciò nonostante, al piccolo Charles, alcune di queste canzoni, quelle che erano temperate e usavano i microtoni solo come note di passaggio, piacevano.
Ives ricorda anche il padre aveva l’orecchio assoluto, ma lo considerava una cosa disturbante e quasi vergognosa, affermando che “tutto è relativo; solo i pazzi e le tasse sono assoluti”. E ad un amico, diplomato al conservatorio di Boston, che gli chiedeva come mai, nonostante il suo orecchio, insistesse nel produrre dissonanze al piano, rispose “Io avrò anche l’orecchio assoluto, ma, grazie a Dio, il piano non ce l’ha”.
L’influenza del padre spiega anche l’atteggiamento di Charles Ives nei confronti della tonalità: “Non vedo perché la tonalità, come tale, debba essere eliminata, così come non vedo perché debba sempre essere presente”.
Così, mentre in Europa si preparava un conflitto ideologico atonale contro tonale, in America si assestavano i fondamenti di quell’atteggiamento neutrale che avrebbe prodotto gente come Cage, Feldman, Wolff e molti altri, estendendo la sua influenza fino al presente.
In questo brano, il primo e il terzo movimento erano stati concepiti per un unico pianoforte con due tastiere. Un ordigno del genere era stato effettivamente costruito in via sperimentale e in pratica, era costituito da due arpe, due meccaniche e due tastiere sovrapposte, incluse nello stesso box. Questi due movimenti sono basati su una serie di accordi, quasi nello stile di un inno, che all’inizio lasciano all’orecchio il tempo di assorbire le stranezze prodotte dai quarti di tono. Si nota in modo particolare nel I° mov. che presenta all’ascoltatore il materiale sonoro in modo graduale, quasi didattico. Ciò non toglie che, alle nostre orecchie educate al sistema temperato, l’insieme dia spesso l’impressione di un pianoforte scordato.
Su questo tessuto, si dispiega poi una linea cantabile che, nel III° mov., riprende e distorce una canzone popolare (America, my country ‘tis of thee), sottolineando il verso “land where my fathers died!”.
L’allegro, invece, è vigoroso e vivace, diviso ritmicamente fra i due pianoforti.
Ecco anche una tesi di Myles Skinner in inglese che discute l’utilizzo della microtonalità nella musica occidentale moderna.
Charles Ives – Three Quarter-Tone Pieces for Two Pianos (1924)
Elizabeth Dorman and Michael Smith, piano
Castor & Pollux (1952) è un balletto strutturato in due grandi sezioni, la prima intitolata Castor e la seconda Pollux (i due dioscuri, figli di Zeus e di Leda, identificati con la costellazione dei Gemelli).
La strumentazione è quella tipica dei lavori di Partch, progettata e costruita da lui stesso e accordata sulla scala naturale. Qui abbiamo: kithara, surrogate kithara, harmonic canon, diamond marimba, cloud chamber bowls & bass marimba. Tutti gli strumenti si possono vedere e ascoltare qui.
Proprio la strumentazione caratterizza le due sezioni. Ognuna di esse, infatti, è divisa in quattro parti: tre duetti e un tutti. In entrambe le sezioni, i duetti sono intitolati:
Leda and the Swan (insemination)
Conception
Incubation
Il tutti finale si intitola Chorus of Delivery From the Egg.
Gli strumenti utilizzati in ogni sotto-sezione sono:
CASTOR
1. Leda and the Swan (Kithara II, Surrogate Kithara, and Cloud-Chamber Bowls)
2. Conception (Harmonic Canon II and High Bass Marimba)
3. lncubation (Diamond Marimba and Low Bass Marimba)
4. Chorus of Delivery From the Egg (All the foregoing instruments)
POLLUX
1. Leda and the Swan (Kithara II. Surrogate Kithara, and Low Bass Marimba)
2. Conception (Harmonic Canon II and Cloud-Chamber Bowls)
3. lncubation (Diamond Marimba and High Bass Marimba)
4. Chorus of Delivery From,the Egg (All the foregoing instruments)
CASTOR & POLLUX is a dance-theater work with a beguiling program. It is structured in two large sections, each section comprised of three duets and a tutti. The first section is entitled CASTOR, the second, POLLUX. The first duet of each section is titled Leda and the Swan (insemination); the second, Conception; the third, Incubation; and the tutti. Chorus of Delivery From the Egg. By its contrapuntal texture. CASTOR & POLLUX shows well the melodic capabilities of the instruments, and the two tutti section grand finales to the glory of birth.
Sono praticamente sicuro che nessuno di voi ha mai sentito, in concerto, musiche di Harry Partch.
Eppure Harry Partch (1901-1974), compositore americano, è uno dei più innovativi, iconoclasti e individualisti musicisti di tutti i tempi. Per far capire la cosa anche ai cultori del pop, la sua posizione nella musica classica è, in un certo senso, simile a quella di Frank Zappa nel pop. Gli aggettivi utilizzati per definirli sono gli stessi e anche la carica ironica.
A tratti geniale, ma isolato perché la sua musica è impossibile da eseguire con una orchestra tradizionale. Partch, infatti, non utilizza il sistema temperato, ma la scala naturale, strettamente basata sulla serie degli armonici (mentre il sistema temperato fa una serie di aggiustamenti). Per scrivere con questo sistema, Partch, oltre ad utilizzare spesso una notazione non tradizionale, ha costruito da solo i propri strumenti. Ne ha realizzato decine, tali da organizzare una intera orchestra. Le sue creazioni, originali e/o ricostruite, comprendono strumenti a percussione, a corde e vari tipi di organi a canne o ad ancia. Oggi formano la Harry Partch Instrument Collection e vengono utilizzate per le incisioni e per i concerti.
Così, nei suoi pezzi non è raro vedere un ensemble come questo:
E proprio questo ensemble strumentale è relativo alla sua opera in due atti “Delusion of the Fury – A Ritual of Dream and Delusion” (1965-66), che potete ascoltare cliccando sui “Related Posts” qui sotto.
Anche la sua vita non è stata molto convenzionale. Musicista precoce (suonava clarinetto, harmonium, viola, piano, chitarra già da bambino e componeva prima dei 20 anni vincendo borse di studio), attraversò un periodo molto duro durante la grande depressione, riducendosi a vivere come un hobo (musicista vagabondo, senza fissa dimora), viaggiando a sbafo sui treni e sopravvivendo con lavori casuali in luoghi diversi.
In tutto questo periodo, durato 10 anni, continuò a scrivere le sue esperienze su un giornale chiamato Bitter Music (musica amara), spesso sotto forma di frammenti di conversazioni udite per caso, notate su pentagramma in base all’altezza delle varie voci.