Ecco come si fa a vendere la dodecafonia…
How to sell twelve tone music…
Ecco come si fa a vendere la dodecafonia…
How to sell twelve tone music…
Vi segnalo un dettagliato lavoro di analisi dell’op. 11 di Schoenberg (sono i Drei Klavierstücke), con tanto di partitura e ascolto in linea.
L’opera d’arte è principalmente genesi
scriveva Paul Klee, per il quale l’arte era una metafora della creazione. Egli concepiva l’opera come ‘formazione della forma’, non come risultato. Analogamente, Boulez parlerà dell’opera che “genera ogni volta la sua propria gerarchia”.
Proprio a liberare le possibilità di una generazione funzionale tende Boulez quando individua la serie come il suo nucleo: “Predecessore principalmente prescelto: Webern; oggetto essenziale delle investigazioni nei suoi riguardi: l’organizzazione del materiale sonoro”.
Non sembra dimenticare, ma nemmeno lo ricorda esplicitamente, che fu proprio Webern a parlare di una musica tale per cui “si ha la sensazione di non essere più di fronte a un lavoro dell’uomo, ma della natura”.
Nota bene: Webern, non Schoenberg. Soltanto un anno dopo la morte, infatti, Boulez seppellirà definitivamente Schoenberg denunciando ogni aspetto della sua estetica come retrivo, contraddittorio e contrario alla nuova organizzazione del mondo sonoro da lui stesso ideata:
Dalla penna di Schoenberg abbondano, in effetti, – non senza provocare l’irritazione – , i clichés di scrittura temibilmente stereotipi, rappresentativi, anche qui, del romanticismo più ostentato e più desueto.
Si tratta del famoso articolo, apparso sulla rivista “The Score” nel 1952, pieno del dogmatismo ingenuo che solo un 27nne può esibire, che termina con l’enunciato in lettere maiuscole: SCHOENBERG È MORTO. [da noi è pubblicato in Note di Apprendistato, Einaudi, 1968]. È l’atto finale di condanna dell’incapacità di Schoenberg di adeguare interamente il suo linguaggio compositivo alla novità del metodo dodecafonico e l’indicazione di Webern come l’esempio da seguire.
A dimostrare quanto sopra dichiarato a grandi lettere, Boulez scrive il primo libro delle Strutture per 2 pianoforti che costituisce, in pratica, un manifesto dell’estensione del principio seriale a tutti i parametri in uno strutturalismo tanto raffinato quanto totalitario.
Mostreremo, ora, alcune tracce analitiche della prima sezione (Structure I/a), basandoci sullo storico articolo che György Ligeti pubblicò sulla rivista «Die Reihe» (trad: La Serie) nel 1958.
Tutto, in quest’opera, è predeterminato. L’intera composizione è totalmente dedotta da un’unica formula originaria: una serie che, in omaggio a Messiaen, è tratta dalla prima linea del Mode de valeurs.
NB: per ingrandire le immagini, cliccarle.
Alla serie vengono applicate le trasformazioni di rito (inversione, retrogrado e inversione del retrogrado) e a ognuna di esse, le 11 trasposizioni, ottenendo, così, le classiche 48 serie.
A partire dalle trasposizioni della serie originale (O) e della sua inversione (I), Boulez genera poi due tabelle numeriche ottenute sostituendo alle note i numeri che le note stesse hanno nella serie originaria (questo è ciò che Boulez chiama “cifratura” della serie).
Queste due matrici, lette sia in moto retto che retrogrado, sono poi impiegate per determinare le durate, le dinamiche, i modi di attacco e l’ordine in cui sono introdotte le 48 serie di altezze e di durate nell’intera composizione, come segue:
Altezze
Tutte le 48 serie canoniche appaiono nel pezzo ma, si badi bene, una e una sola volta ciascuna, equamente suddivise fra i 2 pianoforti (24 ciascuno).
Durate
Vengono costruite 4 tabelle di durate formate di 12 serie ciascuna (totale 48 serie, come le altezze), con il seguente metodo: nelle matrici di cui sopra, ogni numero rappresenta una durata ottenuta moltiplicandolo per una unità base pari a una biscroma. Così
1 = 1 biscroma,
2 = 2 biscrome = 1 semicroma,
…
12 = 12 biscrome = semiminima puntata.
Le 12 durate (da 1 biscroma a 12 biscrome), quindi, sono
Di conseguenza la durata più breve nella sezione 1/a è la biscroma e la più lunga è la semiminima puntata.
Dinamiche
Boulez costruisce una corrispondenza fra numeri e dinamiche secondo questo schema
A differenza delle durate, però, qui non si creano 48 serie, ma solo 2 utilizzando le diagonali delle 2 tabelle già viste
La tabella ‘O’ è utilizzata dal Piano I e la ‘I’ dal Piano II. Per esempio, la serie del Piano I è la seguente:
12 | 7 | 7 | 11 | 11 | 5 | 5 | 11 | 11 | 7 | 7 | 12 |
ffff | mf | mf | fff | fff | quasi p | quasi p | fff | fff | mf | mf | ffff |
2 | 3 | 1 | 6 | 9 | 7 | 7 | 9 | 6 | 1 | 3 | 2 |
ppp | pp | pppp | mp | f | mf | mf | f | mp | pppp | pp | ppp |
Si tratta di 24 dinamiche cioè lo stesso numero delle serie usate da ogni pianoforte. Di conseguenza, ognuna delle 24 serie sarà eseguita con una di queste dinamiche nella sua interezza.
Notare che in questa serie alcune le dinamiche si ripetono. Notare anche che non tutte sono presenti (es. 4, 8 e 10 non appaiono nella serie O). E’ un effetto delle scelte organizzative che darà adito a varie critiche.
Modi di attacco
Esistono 10 modi di attacco (i numeri vanno da 1 a 12, ma ci sono dei buchi)
In modo analogo alle durate, la serie dei modi di attacco è determinata dalle altre diagonali delle tabelle
Anche qui la ‘O’ è assegnata al Piano I e la ‘I’ al Piano II e anche qui si ha una serie di 24 per cui ogni modo di attacco è utilizzato per una serie intera. Sono solo 10 grazie al fatto che, come per le dinamiche, le serie derivate dalle diagonali non contengono tutti i 12 valori.
Ordine delle serie di altezze
Le due matrici sono utilizzate anche per determinare l’ordine con cui vengono usate le serie. La Structure 1/a è divisa in 2 sezioni principali in ognuna delle quali ogni pianoforte usa 12 serie, come segue
Pianoforte | Serie nella Sezione A | Serie nella Sezione B |
---|---|---|
1 | Tutte le serie di O nell’ordine I1 | Tutte le serie di RI nell’ordine RI1 |
2 | Tutte le serie di I nell’ordine O1 | Tutte le serie di R nell’ordine R1 |
Ordine delle serie di durate
Come per le altezze, come segue
Pianoforte | Serie nella Sezione A | Serie nella Sezione B |
---|---|---|
1 | Tutte le serie di RI nell’ordine RI1 | Tutte le serie di I nell’ordine R1 |
2 | Tutte le serie di R nell’ordine R1 | Tutte le serie di O nell’ordine RI1 |
Forma Globale
Come già visto, ogni pianoforte suona 12 delle 24 serie in ciascuna delle 2 sezioni. Dato che ogni serie di altezze è accompagnata anche da una serie di durate che comprende tutti e solo i 12 valori, ogni serie ha anche la stessa durata metrica, cioè 1+2+3+…+12 = 78 biscrome. Il brano, quindi, può essere visto come un insieme di sotto-sezioni, ognuna delle quali dura come una serie.
Questo, però, non significa che ognuna delle due sezioni dura 12 volte la serie perché, essendo il pianoforte polifonico, è anche possibile l’esecuzione di più serie contemporaneamente. Inoltre, in almeno in 2 punti, ogni piano esegue una serie come solista.
Le 2 sezioni, quindi, sono divise in sotto-sezioni in ognuna delle quali ogni piano esegue contemporaneamente da 0 (tacet) a 3 serie (voci), secondo la seguente tabella
Sezione A | Sezione B |
---|
Sotto-sezione | 1 | 2a | 2b | 2c | 3 | 4a | 4b | 5 | 6 | 7 | 8 | 9 | 10 | 11 |
---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|
Serie Piano 1 | 1 | 2 | 2 | 0 | 3 | 1 | 2 | 1 | 3 | 1 | 2 | 2 | 1 | 3 |
Serie Piano 2 | 1 | 2 | 1 | 1 | 3 | 1 | 3 | 0 | 2 | 2 | 2 | 2 | 1 | 3 |
Totale |
2 |
4 |
3 |
1 |
6 |
2 |
5 |
1 |
5 |
3 |
4 |
4 |
2 |
6 |
Totale 24 |
Totale 24 |
---|
La densità del pezzo quindi, varia secondo quanto riportato nella linea ‘Totale’, in modo non seriale né simmetrico.
Metronomo
L’indicazione metronomica delle varie sezioni è ‘lento’, ‘molto moderato’ o ‘moderato, quasi vivo’. Se, per brevità, li indichiamo con L, M e V e scriviamo i tempi della Structure 1/a, notiamo la seguente simmetria (che comunque non ha a che fare con il principio seriale):
M:V:L:V:M
Ottave
La distribuzione delle note sulle ottave è generalmente arbitraria. Si possono desumere solo due principi:
Pause
L’uso delle pause è ristretto ai casi in cui delle note sono suonate in staccato. In questi casi, a volte, la loro durata è abbreviata e la rimanenza è riempita con pause. In generale, comunque, le pause sono usate solo per chiarire la scrittura.
Sembra che Boulez abbia voluto deliberatamente evitare di interrompere l’esposizione delle serie inserendo pause non giustificate.
Tempi
I cambiamenti di metro sono frequenti, ma non sembrano conformarsi a un piano e sembrano avere la sola funzione di aiuto all’esecuzione. In ogni caso, una sensazione ritmica è generalmente assente in queste pagine. A volte sorge per qualche secondo, ma viene immediatamente annullata.
Così si presenta la prima pagina della partitura che si può ascoltare qui:
L’Arnold Schönberg Center e gli eredi del compositore, di cui abbiamo già parlato elogiandone la politica di apertura, hanno recentemente piazzato su YouTube vari spezzoni video con esecuzioni, testimonianze storiche, interviste e altro materiale tratto dall’archivio.
Si trovano facilmente cercando in base al nome dell’utente che è ascvideo (Arnold Schönberg Center video). In ogni caso, cliccate qui.
Una delle cose belle è che i video storici hanno spesso come sottofondo la sua musica. Guardandoli pensavo che ormai mi sembra quasi melodica e mi è tornata in mente una citazione di Cage a proposito della sua Winter Music:
We’ve played ‘Winter Music’ quite a number of times now: I haven’t kept count.
When we first played it the silences seemed very long and the sounds seemed really separated in space, not obstructing one another. In Stockholm, however, when we played it at the opera as an interlude in the dance programme given by Merce Cunningham and Carolyn Brown early one October, I noticed that it had become melodic.
Tutto è destinato a diventare melodico, prima o poi….
Via Alex Ross
Schönberg – Pierrot Lunaire op. 21 (1912)
per voce, pianoforte, flauto (ottavino), clarinetto (clarinetto basso), violino (viola), violoncello.
Composta nel 1912 è forse l’opera più famosa di Schoenberg, per la novità degli impasti timbrici, per la sua carica espressiva, per la sua particolare tecnica vocale.
Basandosi su 21 poesie del simbolista belga Albert Giraud (1884), nella traduzione tedesca di Otto Eric Hartleben, divise in 3 gruppi di 7, l’immagine romantica di Pierrot, eroe malinconico e triste, è deformata in smorfie, proiettata in immagini ora grottesche, ora ironiche, in visioni allucinate, grazie alla vocalità estraniata dello sprechgesang e alle straordinarie invenzioni strumentali che lo accompagnano.
In quest’opera, la voce utilizza per la prima volta la tecnica dello Sprechgesang (o Sprechstimme), che non è né canto intonato, né “recitar cantando”. Nella prefazione alla partitura, che farà testo, il compositore fissa rigorosamente le norme dell’interpretazione. La voce deve osservare rigorosamente la notazione ritmica portando la parola a toccare la nota, ma mai a fissarla, facendo oscillare l’intonazione in un continuo crescendo e diminuendo e collegandosi con un sensibile portamento alla sillaba seguente
L’orchestrazione è la più varia e rutilante di invenzioni. Soltanto in 6 dei 21 brani il gruppo strumentale entra al completo a creare un complesso tessuto polifonico intorno alla voce, mentre negli altri gli strumenti intervengono a gruppi di 2, 3 o 4 e nel settimo pezzo, La luna malata, è un flauto solo che contrappunta la voce.
Dal punto di vista compositivo, Schoenberg sperimenta con grande libertà e varietà. Alcuni pezzi (per es. il No 13) hanno una continuità amorfa, quasi un stream of consciousness. Altri, come il No 8, si basano su piccole cellule generative. Altri ancora impiegano ostinati, altri, canoni.
Il brano No 18, Der Mondfleck, esibisce una polifonia incredibilmente intricata. E’ quasi una fuga a tre voci, la cui forma è a tratti oscurata dall’incrociarsi di altre parti e da occasionali note supplementari. Il clarinetto e l’ottavino formano canoni in diminuzione rispetto alle prime due voci. Un terzo canone, indipendente dagli altri è creato da violino e violoncello. A metà del brano, l’ottavino e il clarinetto, che procedono a velocità doppia rispetto alla voce principale, arrivano alla fine del canone e quindi invertono il loro moto formando canoni retrogradi in diminuzione.
Il disegno polifonico, caratterizzato soprattutto da intervalli di 7a e 9a, dà vita a complessi e sottili rapporti cromatici creando un’atmosfera tagliente che ben si lega alle immagini allucinate del testo tedesco di Hartleben, ben superiore all’originale un po’ dolciastro ed estetizzante di Giraud.
Clicca l’immagine per ingrandire.
Ascolta Der Mondfleck
Schönberg – 6 Kleine Klavierstücke op. 19 (1911)
In questi 6 brevissimi pezzi (da 26 a 80 secondi), Schoenberg accoglie la propensione aforistica del suo allievo Webern, riducendo lo schema compositivo al frammento melodico e armonico.
La pagina più significativa e densa di futuro di questa op. 19 è il sesto pezzo, parallelo, come ricerca, al terzo dell’op. 16 (Farben) di cui abbiamo già parlato, ma ancora più problematico perché, se Farben segue un percorso tutto sommato decifrabile, questo brano approda a un livello di astrazione tale da paragonarlo alle opere astratte di Kandinsky e Klee.
Così anche Schoenberg, dopo l’atonalità, perviene all’astrattismo sonoro. In queste 9 battute, scritte probabilmente in ricordo di Gustav Mahler, la pausa e il silenzio nascono da una nuova coscienza ritmica e il suono si frantuma in timbro e in intensità.
Lo ascoltate qui. Cliccate sull’immagine per ingrandire.
Qui trovate un bell’articolo di Susanna Pasticci che commenta le analisi di questo brano effettuate con diverse metodologie.
Ogni tanto, nella storia della musica, saltano fuori delle composizioni che vanno oltre il loro tempo. E questo non nel senso che sono delle grandi opere, punti di partenza per le generazioni future, ma proprio perché, per qualche strana e indefinibile ragione, il loro linguaggio travalica la contemporaneità dando vita a qualcosa di difficilmente databile. Qualcosa che, agli occhi di qualcuno che pure conosca bene la storia della musica occidentale, appare come un oggetto difficilmente inseribile in un periodo storico, un pezzo al quale viene assegnata una data di molto posteriore alla sua nascita, un brano quasi sfuggito di mano allo stesso compositore perché nemmeno lui, probabilmente, è in grado di comprendere completamente ciò che ha fatto.
Proprio per questo, di solito si tratta di composizioni che non sono così apprezzate al momento della loro presentazione, perché hanno qualcosa di inusuale o comunque suonano “strane”. Spesso sono difficili da capire perché il loro linguaggio non è ancora completamente codificato, ma il perché e il come, in quel momento sono inspiegabili. Soltanto la storia può dirlo.
È il caso di Farben di Arnold Schoenberg. Il terzo dei 5 pezzi per orchestra op. 16, composti nel 1909.
In questi pezzi l’ambientazione espressionista e il linguaggio atonale che la sostiene raggiungono i livelli più alti.
Melodia, armonia e perfino il ritmo (l’elemento più criticato e meno innovativo in Schoenberg) sono sentiti in un unico spazio polifonico nel quale il totale cromatico viene utilizzato pienamente in modo libero, innovativo e indipendente.
È il periodo atonale di questa seconda scuola di Vienna, che va dal 1909 al 1923 (anno di definizione della teoria dodecafonica). A mio avviso si tratta di uno dei periodi più fecondi per Schoenberg. La libertà di sperimentare e la ricchezza inventiva che si respirano nelle composizioni di quest’epoca saranno difficilmente eguagliate, anche negli anni seguenti.
“Farben”, posto dall’autore come sottotitolo a questo brano, significa “colori”, ma in tedesco, questa parola, unita a Klang (suono), assume il significato di timbro musicale (Klangfarben) ed è proprio il timbro l’elemento portante di questo pezzo in cui Schoenberg fa un passo decisivo verso quella Klangfarbenmelodie (melodia di timbri) che è sempre stato uno dei suoi sogni.
La leggenda, infatti, narra di Farben come nato da una discussione fra Schoenberg e Malher (suo estimatore e protettore), sull’idea di creare un brano basato non su una successione di altezze (note), ma su una successione di timbri.
Qui Schoenberg ci prova e in parte ci riesce.
Farben inizia con un accordo di cinque note (do, sol#, si, mi, la) lungamente tenuto che si alterna fra 2 gruppi strumentali: 2 flauti, clarinetto, fagotto, viola, l’uno e corno inglese, tromba (sordina) fagotto corno (sordina), viola, l’altro, con il contrabbasso a fungere da legame.
Però è quasi impossibile rinunciare all’articolazione delle altezze nella nostra musica. Farlo, significa approdare a qualcosa di radicalmente diverso ed era decisamente impossibile farlo nel 1909.
Così dentro a Farben c’è anche un canone a 5 voci quasi impercettibile perché le melodie passano da uno strumento all’altro e la sua identificazione è resa anche più complessa da gruppetti di suono puntuali (quasi polvere) di densità crescente.
Sembra che Schoenberg abbia voluto utilizzare il canone per dare un’unità formale all’insieme, nascondendolo, però, alla percezione conscia, un po’ come certe strutture bachiane che sostengono alcuni brani dell’Arte della Fuga o delle Variazioni Goldberg, risultando visibili solo a un esame della partitura. Qui la percezione è di una apparente staticità iniziale che si frammenta, via via, in una molteplicità di voci fino al ricongiungimentol finale in un cangiante tessuto sonoro.
Grazie a questa impostazione sperimentale, Farben assume all’ascolto una forma assolutamente inusuale per quei tempi, ma proiettata verso un futuro possibile. È un brano breve: soltanto 44 battute che, inserite nel bel mezzo del furore espressionista dell’op. 16, suonano come un intermezzo meditativo. Una delle immagini citate a proposito di questo pezzo da Schoenberg pittore, parla dei riflessi di luce sulle acque di un lago. Però, isolato, potrebbe benissimo apparire come un pezzo pre-ligeti degli anni ’60 o come qualcosa dello Xenakis di fine ’50, ma anche se qualcuno lo scrivesse oggi, non lo riterrei un pezzo datato.
Ascolto: Farben
Qui invece avete un tentativo di analisi in video (meglio andare su youtube per poter ingrandire a tutto schermo)