Nella bolgia dei libri d’autunno, la mia bolgia, perché l’autunno è un momento in cui compro molti libri, soltanto adesso sono riuscito a leggere questo Cell di Stephen King.
King ha immaginazione. E non costringendosi entro le mura della realtà, la sua immaginazione può creare paesaggi affascinanti e/o terrorizzanti.
In Cell, un segnale trasmesso simultaneamente su tutta la rete dei cellulari spazza via in un istante qualsiasi substrato culturale dal cervello di chi fa una chiamata, riducendolo agli istinti primordiali: uccidere e sopravvivere. Una colossale formattazione gobale.
Naturalmente, data la diffusione di questi malefici oggetti, l’umanità rimasta tale è in minoranza e costretta a nascondersi e a spostarsi di notte per sfuggire all’aggressività dei “phoners”, i quali, però, non rimangono a lungo a questo livello neanderthaliano. Si scopre in breve che quello che hanno subito è stato un reboot, una ripartenza con un programma nuovo. Comunicano per via telepatica, si riuniscono in stormi, come gli uccelli che si muovono in gruppi sincronizzati, apparentemente senza comunicazione alcuna.
In questo caos, si muove il protagonista, come al solito, in King, un alter ego dell’autore (stavolta non è un romanziere del Maine, ma un fumettista del Maine) il cui scopo è attraversare il paese per raggiungere e sperabilmente salvare il figlio, un ragazzino di 10 anni, probabilmente ormai un phoner integrale, mentre quel che resta dell’umanità normale viene indirizzata verso una zona in cui non c’è campo.
Ma il cuore del romanzo non è la resistenza al cambiamento e nemmeno la ricerca della salvezza. Sono loro, i phoners. Una nuova umanità creata per via tecnologica, una nuova razza.
Un romanzo simpatico, facile e a tratti affascinante, di cui si possono dare innumerevoli interpretazioni, dall’apocalittico all’integrato.
Ma anche se non viaggia sulla rete dei cellulari, non possiamo fare a meno di notare che un segnale capace di riformattare il cervello esiste già e si chiama televisione.