Incipit: A Tale of Two Cities

A Tale of Two CitiesIt was the best of times, it was the worst of times, it was the age of wisdom, it was the age of foolishness, it was the epoch of belief, it was the epoch of incredulity, it was the season of Light, it was the season of Darkness, it was the spring of hope, it was the winter of despair, we had everything before us, we had nothing before us, we were all going direct to Heaven, we were all going direct the other way—in short, the period was so far like the present period, that some of its noisiest authorities insisted on its being received, for good or for evil, in the superlative degree of comparison only.

[Charles Dickens, A Tale of Two Cities, 1859]

 

Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità; il periodo della luce, e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell’altra parte – a farla breve, gli anni erano così simili ai nostri, che alcuni che li conoscevano profondamente sostenevano che, in bene o in male, se ne potesse parlare soltanto al superlativo.

[Trad. di Silvio Spaventa Filippi]

Retromania

Sto leggendo Retromania, di Simon Reynolds (Isbn Edizioni, Milano, 2011, 506 pagg., € 26.90). Non l’ho ancora finito (sono circa a metà), quindi questa è una recensione parziale, comunque fin qui mi sembra un libro decisamente ben scritto e argomentato, ricco di fatti, quasi troppo e questo è il suo unico limite: avrebbe potuto risparmiarci un po’ di queste 433 (506 con bibliografia e indici) pagine. Però non mi lamento: avercene di critici con questa profondità di analisi e documentazione. Ottima anche la traduzione di Michele Piumini.

Qui Reynolds esamina la tendenza al remake che ha colpito la scena pop/rock a partire dal nuovo millennio, simboleggiata dall’apertura, nell’Aprile 2000, del Memphis Rock’n’Soul Museum presso lo Smithsonian Institution.

Questa faccenda, in effetti, è una delle cose che mi colpiscono maggiormente nella musica attuale, raramente in senso positivo, più spesso negativamente. Come recita l’introduzione,

un tempo il pop ribolliva di energia vitale … i duemila sembrano invece irrimediabilmente malati di passato …

Perché non sappiamo più essere originali? Cosa succederà quando esauriremo il passato a cui attingere? Riusciremo ad emanciparci dalla nostalgia e a produrre qualcosa di nuovo?

Ma mi rendo conto che il significato negativo che io attribuisco alla retromania può dipendere anche dal fatto che io ho vissuto quel passato e quell’energia vitale, perciò non riesco ad accettare facilmente i rifacimenti proposti dalla musica attuale che finiscono spesso per sembrarmi delle brutte copie prive della forza e del significato dell’originale.

Comunque, fra le domande che l’autore si pone, la prima e l’ultima mi sembrano le più stringenti. La seconda, a mio avviso, è inutile: il passato, infatti, non si esaurisce mai. Come le mode insegnano, c’è sempre qualcosa da rifare o qualche modo diverso di rifarlo.

Stiamo, infatti, assistendo ad una celebrazione del passato che interessa tutti i settori, nessuno escluso: dal più comune, quello dell’abbigliamento, fino all’arredamento, alla televisione, al cinema, a giocattoli e videogiochi, all’alimentazione, per arrivare al retro-porno (tipo il vintage hairy, il porno prima dell’avvento della depilazione totale).

Nel tentativo di dare una spiegazione, il testo di Reynolds si apre con una impressionante e un po’ angosciante retrologia: una lista di date e fatti che copre il decennio 2000/2009 e va dai musei celebrativi come il già citato Memphis Rock’n’Soul Museum o l’Experience Music Project di Paul Allen, passa per le reunion (più di 30, forse 40 in 10 anni: in molti casi una funerea parata di individui attempati e acciaccati, spesso ancora in grado di suonare bene, ma che si atteggiano squallidamente a ventenni), e arriva ai concerti delle tribute band e alle riedizioni/rifacimenti di dischi e perfino di avvenimenti storici (come l’attraversamento in massa di Abbey Road l’8 Agosto 2009, 40 anni dopo quello dei Beatles per la copertina dell’album omonimo).

Per quel che riguarda la musica pop, l’ipotesi centrale è che uno degli elementi scatenanti di questa tendenza sia l’accumulo reso possibile da internet. Sulla rete si mette ormai tutto e c’è posto per tutto. Fotografie, canzoni, video, spezzoni televisivi, libri, vecchie riviste, grafica e chi più ne ha, più ne metta. Con l’apparizione dei cellulari multifunzione, tutti girano con una videocamera, una macchina fotografica e un registratore. Documentare il presente e metterlo in rete è facilissimo, ma il presente diventa rapidamente passato. Inoltre, la gente, ormai, mette in internet non solo l’attualità, ma anche i propri ricordi e generalmente quello che ama o che reputa importante: cimeli sotto forma di immagini fisse, video e suono stanno saturando lo spazio disponibile in rete, spazio che, però, continua ad allargarsi grazie alla riduzione del costo delle memorie di massa.

La condivisione di tutto questo materiale, poi, è imposta da coloro che offrono lo spazio. Entità come You Tube guadagnano solo grazie alla pubblicità e quest’ultima è attirata solo dalla quantità dei contatti. Ne consegue che il materiale disponibile deve essere condiviso e deve essere molto (sia la qualità che i contenuti non hanno grande importanza; quello che conta è che generino contatti).

A questo punto, secondo Reynolds,

il puro e semplice volume del passato musicale accumulato ha cominciato ad esercitare una sorta di attrazione gravitazionale.
[…]
I musicisti divenuti maggiorenni in questo periodo sono cresciuti in un clima caratterizzato da un grado di accessibilità del passato travolgente e senza precedenti

Inoltre, aggiungo io, per ragioni anagrafiche, non hanno vissuto il passato e quindi ne sono affascinati.

Di conseguenza

l’esigenza di movimento, di arrivare da qualche parte, poteva essere soddisfatta altrettanto facilmente (anzi, più facilmente) volgendosi a questo immenso passato e non guardando avanti.

In effetti, un paragone fra la disponibilità attuale e quella mia o di Reynolds (io sono del ’54, lui del ’63) è improponibile. Ai nostri tempi, il passato spariva. Gli album andavano rapidamente fuori catalogo e se non si acquistavano nei primi anni erano facilmente perduti. Per di più, il file sharing dei tempi andati si limitava alle audio-cassette e l’accesso ai dischi dipendeva dalla disponibilità economica.

Oggi, nell’oceano di internet si può pescare quasi tutto al solo costo della connessione (peraltro necessaria anche per altre cose) ed è quindi normale andare ad ascoltarlo, così come è facile crogiolarvisi dentro. La situazione della creatività attuale è resa difficile proprio dal fatto che, a differenza di quanto avveniva prima di internet, il passato non scompare mai. Io, per esempio, avevo 12/13 anni quando ho iniziato ad ascoltare seriamente il rock e ho conosciuto prima i gruppi miei contemporanei (ex: Beatles, Stones e gli altri) e solo qualche anno dopo ho ascoltato quelle che erano le radici di queste band, cioè il blues e il rock’n roll. Attualmente, invece, tutto è contemporaneamente disponibile.

Nello stesso modo, io vedevo dei dischi e delle band diventare vecchi, mentre altri generi e band nascevano. Avevo, cioè, una percezione del tempo lineare e orientata da un passato verso un futuro. Attualmente, invece, il movimento è stato sostituito dall’accumulo: non si va da un passato, con delle cose che invecchiano e scompaiono, a un futuro che propone delle novità, ma si aggiungono altre cose che si stratificano in un immenso deposito che tende ad annullare il tempo e a produrre quello Reynolds chiama stallo temporale il cui effetto finale è di bloccare qualsiasi tendenza al progresso (inteso come semplice movimento, senza un giudizio di valore) e produrre un continuo rimescolamento di ciò che esiste o è esistito.

Il 2012 profetizzato dagli scrittori di fantascienza

Nel 1987, il sito Writers of The Future, legato al discusso Ron Hubbard, invitò vari scrittori di fantascienza a fare una predizione cercando di immaginare il mondo a 25 anni distanza. Una capsula del tempo da aprire dopo 25 anni e vedere quante delle predizioni fatte da persone abituate a immaginare il futuro si sono avverate. Ora, 1987 + 25 = 2012, cioè oggi, per cui è il momento di verificare.

In realtà, nella media, anche qui vale la legge della predizione: più è precisa, meno è azzeccata.

Alcuni fra i più famosi hanno toppato clamorosamente. Per esempio, Zelazny che prevede una società trasformata dalla robotica e dall’automazione, con spese militari diminuite, rallentamento della crescita della popolazione, medicina trasformata dalle biotecnologie e un mondo un po’ più conservatore, ma mediamente più sano, con più tempo libero e una più ampia gamma di opzioni educative e ricreative di cui godere.

Fra quelli che hanno più o meno indovinato spiccano i pessimisti:

Jack Williamson

Vi preghiamo di perdonarci. Vi abbiamo gravato di debiti impossibili, sprecato e inquinato il pianeta che avrebbe dovuto essere il vostro ricco patrimonio, lasciandovi invece una terribile eredità di ignoranza, povertà, e guerra.

Orson Scott Card

Dobbiamo ritenerci fortunati se qualcuno avrà abbastanza tempo libero nel 2012 per aprire questa capsula del tempo e preoccuparsi di ciò che contiene. Nel 2012 gli americani vedranno il crollo dell’Impero Americano, la Pax Americana, perché abbiamo chiuso con la nostra perdita di volontà nazionale e altruismo nel 1970. Il collasso economico mondiale costerà all’America il suo ruolo dominante, ma non si tradurrà in egemonia russa

Un nuovo ordine mondiale emergerà da carestie, malattie, e dislocazione sociale: la ri-tribalizzazione d’Africa, la distruzione dell’illusione di unità islamica, la lotta tra aristocrazia e proletariato in America Latina, senza il sostegno finanziario dei paesi industrializzati, il vecchio ordine finirà.
I cambiamenti saranno grandi come quelli che emersero dalla caduta di Roma

L’omogeneità di Israele probabilmente gli permetterà di sopravvivere, Messico e Giappone potranno cambiare governanti, ma saranno ancora forti.

Si fa notare per lucidità Sheldon Lee Glashow, forse proprio perché non è uno scrittore, ma un fisico, premio Nobel nel 1979 insieme a Steven Weinberg e Abdus Salam per aver teorizzato il quarto quark (charm) che ha permesso di completare la costruzione della teoria unificata delle interazioni elettromagnetiche e deboli (teoria elettrodebole).

Non ci sarà alcuna guerra nucleare.

Il Giappone sarà la principale potenza economica del mondo, in possesso o in controllo di una parte significativa delle industrie europee e americane. Questa “dittatura economica” sarà utile agli stati clienti del Giappone, dal momento che lo stesso Giappone ricava benefici dal mantenere i propri clienti sani e ricchi.

Molte malattie saranno curabili: il diabete e la gotta, per esempio, saranno trattati con tecniche di ‘ingegneria genetica’. La sclerosi multipla e il morbo di Parkinson saranno effettivamente curabili. Tuttavia, l’AIDS non sarà ancora sotto controllo.

L’economia americana registrerà un calo graduale ma implacabile. I nostri figli non vivranno una vita così comoda come noi. Il differenziale tra ricchi e poveri crescerà e la criminalità si diffonderà al punto da minacciare il tessuto sociale. I ricchi e i poveri formeranno 2 campi armati. La maggior parte delle automobili e dei mezzi di trasporto saranno prodotti in enclaves di proprietà giapponese situate in America. Tuttavia, l’agricoltura e l’istruzione superiore saranno le nostre esportazioni di maggior successo. Non ci saranno treni veloci che collegano le città americane, ma una rete di treni levitati superconduttori sarà in costruzione in Europa occidentale e in Giappone.

Tutto sommato, non male, se allarghiamo il Giappone alle tigri asiatiche (la Corea del Sud soprattutto) che comunque stanno nella stessa area geografica. La sclerosi multipla e il morbo di Parkinson non sono attualmente curabili, ma in molti casi possono essere tenuti sotto controllo. L’AIDS è effettivamente ancora fuori controllo in gran parte del pianeta.

Quasi tutta l’ultima parte è sostanzialmente corretta. Qui in Europa non stiamo costruendo una rete di treni levitati superconduttori, ma una più tradizionale alta velocità.

Colpisce, invece, l’assenza della Cina, che, fra tutti, è citata una sola volta e marginalmente. Sembra che, nel 1987, nessuno potesse pensare che la Cina sarebbe stata in grado di cambiare il proprio sistema al punto da poter entrare fra le grandi potenze economiche mondiali. Eppure già numerosi studi dell’epoca ne avevano parlato.

Frederick Pohl, infine, dà un saggio di sarcasmo, ma in fondo ha toppato anche lui. Il suo intervento inizia dicendo:

Voi vivete in un mondo in pace. Qualcosa di simile a una Corte di Giustizia Mondiale, emanazione delle Nazioni Unite, dirime le controversie internazionali e ha il potere di applicare le proprie decisioni anche con la forza. Per questa ragione vivete in un mondo praticamente senza armi e proprio grazie al fatto che i singoli paesi non hanno bisogno di spendere per mantenere eserciti, voi avete un tenore di vita paragonabile a quello dei miliardari odierni.

E continua prevedendo esplorazione dello spazio, fine della deforestazione, inquinamento sotto controllo, in una parola, Utopia.

Ma poi aggiunge:

Come so tutto questo? Non perché ho fatto una valutazione probabilistica delle attuali tendenze. Anzi, al contrario. Tutto ciò che sta accadendo nel mondo di oggi porta a concludere che nessuna di queste buone cose sta per accadere, perché il nostro paese, la nazione più ricca e potente della storia del mondo (e, ho sempre pensato, la migliore) si sta mandando in rovina per reclutare e addestrare i terroristi in America Latina, dare armi ai terroristi in tutto il mondo, sviluppare ed impiegare eserciti, flotte e sistemi d’arma che non hanno scopo se non di sconfiggere qualsiasi paese che non sia disposto a sottomettersi. Dal momento che, purtroppo per noi, le persone che sono in disaccordo con noi hanno terroristi, flotte, eserciti e propri armamenti, lo scenario futuro più plausibile è una guerra nucleare.

E conclude (riassumo)

Di conseguenza, se potete leggermi, significa che avete risolto i problemi di cui sopra e vivete nella prima ipotesi. In caso contrario, non ci sarà nessuno in grado di leggermi. Quindi ho vinto in ogni caso.

No, Frederick. Non ci sono solo le alternative estreme. L’umanità ha sviluppato la capacità di camminare verso il baratro spingendo l’orlo sempre più in là, sopravvivendo anche alle proprie teorie. Il problema è che questa sopravvivenza ha un costo.

Citando scherzosamente Douglas Adams

La storia di tutte le maggiori civiltà galattiche tende ad attraversare tre fasi distinte ben riconoscibili, ovvero le fasi della Sopravvivenza, della Riflessione e della Decadenza, altrimenti dette fasi del Come, del Perché e del Dove. La prima fase, per esempio, è caratterizzata dalla domanda ‘Come facciamo a procurarci da mangiare?’, la seconda dalla domanda ‘Perché mangiamo?’ e la terza dalla domanda ‘In quale ristorante pranziamo oggi?’

Spesso il prezzo della sopravvivenza è il ritorno a una fase precedente.

Se volete leggere tutte le profezie, le trovate qui.

Steve Jobs by Walter Isaacson

Steve_Jobs_by_Walter_IsaacsonSe a qualcuno piacciono la tecnologia e le biografie, quella di Steve Jobs scritta da Walter Isaacson è un’ottima lettura. L’ho trovata in un supermarket e mi sono deciso a comprarla perché, leggendo le note di copertina, mi è sembrata abbastanza obiettiva, cioè anche critica e non solo osannante (non è che non ami Jobs; quello che non mi piace è l’atteggiamento di adorazione acritica che molti manifestano nei suoi confronti).

Walter Isaacson è un ex caporedattore di Time, CEO di CNN, oggi direttore dell’Aspen Institute. Ha scritto biografie di Kissinger, Benjamin Franklin ed Einstein. È una persona con le spalle abbastanza larghe da non farsi condizionare da chicchessia e va a merito di Jobs l’averlo invitato a scrivere la sua biografia autorizzata senza interferire nella stesura.

Il libro si legge facilmente ed è privo di strafalcioni tecnologici significativi.

Isaacson tratteggia senza sconti la personalità complessa di Jobs: un genio per quanto riguarda la definizione degli aspetti estetico/funzionali dei prodotti Apple e sufficientemente carismatico da spingere i suoi collaboratori a realizzare cose fino a quel momento ritenute impossibili, ma anche un egocentrico che divideva il mondo soltanto in due categorie, fantastico e merda, spesso brutale con chi gli stava intorno, capace anche di appropriarsi delle idee altrui e riproporle come proprie.

La sua ricerca estrema e quasi furiosa della semplicità sia nel design che nella funzionalità dell’oggetto, lo avvicina al Bauhaus, con la differenza che, per Jobs, il detto “form follows function” si rovescia nel suo esatto opposto. Spesso, infatti, alcune caratteristiche funzionali dei sistemi Apple sono state determinate dall’estetica scelta da Jobs per qualche dispositivo. In tal modo si rovescia il normale processo di progettazione. Di solito, infatti, prima vengono gli ingegneri che decidono quali componenti devono far parte della macchina e poi arrivano i designer che hanno il compito di rinchiuderli in un involucro accattivante (e spesso, nel caso del computer, si limitano a un involucro qualsiasi).

L’approccio di Jobs, invece, ha posto ai progettisti delle sfide che li hanno costretti a innovare. In genere, non si ha la percezione di quanto sia difficile cambiare la forma di un computer. Per esempio, il solo fatto di volere gli spigoli molto arrotondati provoca un bel problema di progettazione perché i produttori di schede e chip lavorano solo con elementi rettangolari. In teoria un chip rotondo si potrebbe fare, a patto, però, di cambiare l’intera catena di produzione, dal software che sistema i collegamenti fino ai robot che saldano i chip sulla piastra. In pratica è impossibile.

Di conseguenza, l’arrotondamento degli involucri con il taglio degli angoli produce spazio sprecato, a meno di inventare una disposizione diversa degli elementi all’interno dell’involucro, cosa che risulta più semplice se si usano elementi più piccoli, che, però, hanno un costo maggiore, il che spiega, in parte, il prezzo eccessivo rispetto alle prestazioni delle macchine Apple.

Gli effetti di questo modo di procedere sono risultati a volte decisamente innovativi, ma, in altre occasioni, si sono rivelati tali da compromettere alcune funzionalità.

Un esempio del primo tipo è lo sfondo bianco dell’interfaccia del Macintosh, conseguenza del fatto che Jobs voleva che fosse WYSIWYG: what you see is what you get (quello che vedi è quello che ottieni), quindi, se il documento in stampa sarebbe risultato nero su bianco, anche sullo schermo doveva essere così. Questa idea aveva fatto imbestialire non poco i tecnici perché il tradizionale sfondo nero (a fosfori spenti) era più semplice da progettare ed evitava che il tremolio dei fosfori fosse visibile. Lo sfondo bianco, invece, costringeva a ricorrere a monitor di qualità superiore, più costosi. Oggi tutti siamo abituati a questa situazione ed anche i display hanno fatto un salto di qualità non da poco.

Un esempio del secondo caso è il maledetto lettore CD dell’iMac. Jobs si arrabbiò moltissimo quando vide che il progettista aveva inserito nella macchina un lettore a cassettino invece che uno a fessura come era suo desiderio e gli impose di cambiarlo. Il punto è che a quell’epoca, i CD player non erano ancora in grado di masterizzare, ma solo di leggere. Il progettista, però, sapeva che a breve sarebbero stati disponibili anche i primi masterizzatori e che, per alcuni anni, sarebbero stati prodotti solo in versione a cassettino e avvisò Jobs che non volle scostarsi dalla sua idea. Per questa ragione gli acquirenti dell’iMac non hanno potuto beneficiare di un salto tecnologico e per vari anni sono stati costretti ad acquistare un masterizzatore a parte, mentre tutte le altre macchine nascevano dotate di masterizzatore di serie.

Un altro esempio molto più recente è l’antenna-gate dell’iPhone 4. Sebbene la volontà ferrea di Jobs fosse in grado di spingere i tecnici a fare miracoli, non c’è alcuna possibilità di contrastare il fatto che il metallo non è un materiale ideale da piazzare vicino ad una antenna: a dispetto dei desideri di Jobs e del suo designer di fiducia, le onde elettromagnetiche si ostinano a fluire sul metallo piuttosto che attraverso di esso con la conseguenza che un involucro metallico attorno a un telefono scherma sia la ricezione che la trasmissione (è la cosiddetta gabbia di Faraday). In origine, l’iPhone avrebbe dovuto avere una corona di plastica per permettere al segnale di fluire, ma la visione estetica di Jobs richiedeva una corona metallica. I tecnici fecero l’impossibile per utilizzare il metallo come estensione dell’antenna creando una discontinuità nella corona di acciaio che circondava l’apparecchio, ma come risultò chiaro da subito, se un dito sudato interrompeva tale fessura, la linea crollava.

È giusto rilevare, però, che i successi del metodo Jobs sono stati di gran lunga maggiori rispetto agli insuccessi e che la sua capacità innovativa ha realmente cambiato il modo in cui la massa percepisce la tecnologia. Dico “la massa” perché le creazioni Apple sono rivolte principalmente a coloro che utilizzano i sistemi digitali per l’ordinaria amministrazione, non a coloro che fanno un uso spinto della tecnologia. Prova ne è il fatto che le macchine high-end disegnate da Jobs sia in Apple che fuori, non hanno mai avuto grande successo. Non l’ha avuto il Lisa, non l’ha avuto il NeXT e non l’ha avuto il Power Mac G4 Cube che, nonostante sia finito esposto al Museum of Modern Art di New York, non ha impressionato i professionisti, poco disposti a spendere il doppio del normale per avere una scultura sulla loro scrivania. La presenza massiccia di Apple in alcuni centri di ricerca, come, nel mio campo, l’IRCAM, dipende più che altro da oculate politiche di vendita e sponsorizzazione che altro (leggi: sconti e regali).

Ma il problema maggiore di Apple, quello che ne ha frenato la diffusione fra gli addetti ai lavori, in realtà non è il prezzo, ma l’estrema chiusura dei loro sistemi. Nonostante la pubblicità tenti sempre di accreditare un’immagine creativa, i sistemi di Jobs sono sempre stati più diretti alla fruizione di contenuti che alla loro creazione e per volontà espressa dell’azienda, non esiste una pluralità di fornitori, il che significa che, sia che si abbia bisogno di un particolare componente hardware, di una certa applicazione o solo di una riparazione, bisogna sempre rivolgersi a una e una sola azienda e accettare le sue condizioni. A partire dal primo Mac, questa è stata la politica aziendale propugnata da Jobs. Quando in Apple si sono accorti che erano nati dei servizi di riparazione dell’iPhone gestiti da terze parti, l’azienda ha persino modificato le viti per impedire che qualcun altro fosse in grado di aprirlo.

Entrare in Apple, in pratica, significa consegnare la propria attività e i propri dati a una singola azienda senza potersi rivolgere a qualcun altro nel caso di disaccordi con la politica aziendale. È un po’ come acquistare una bellissima automobile di marca ZZZ (che proprio per questo costa il doppio di un auto normale) e scoprire, però, che gli unici che possono ripararla sono i centri ZZZ (che la tengono via 20 giorni e ti fanno pagare un occhio), che puoi fare benzina solo nei distributori approvati da ZZZ e che rende il massimo solo sulle strade consigliate da ZZZ.

Detto così, sembra solo un fatto economico, ma non lo è. È una di quelle cose che riguarda la libertà di tutti, anche se pochi ne sono toccati direttamente. Il fatto è che, sul mio computer, voglio mettere il sistema che voglio, farci girare i programmi che voglio e anche scriverne qualcuno, visto che so come fare, e magari venderlo o regalarlo e questo, in Apple, non è semplicemente possibile.

Ray Bradbury

Cronache MarzianeIl 5 Giugno è morto Ray Bradbury.

Veramente sono un po’ stufo di scrivere necrologi, però non posso dimenticare che il suo “Cronache Marziane” (1950; trad. it. 1954) è uno dei libri di fantascienza che più mi hanno colpito quando ero ragazzo, al punto che  rileggendo qui i titoli dei racconti che ne fanno parte, mi sono reso conto che, a circa 40 anni di distanza, me li ricordo tutti.

C’è un racconto in particolare, Night Meeting (Incontro di notte nella trad. italiana), in cui, durante uno spostamento notturno, uno strano (e non spiegato) salto temporale fa incontrare un giovane colonizzatore terrestre e un marziano di un altro tempo, quando ancora la civiltà marziana esisteva, prima dell’arrivo dei terrestri.

Ognuno dei due vede l’altro come una persona semitrasparente, dalle apparenze di un fantasma e ognuno dei due vede Marte come è abituato a vederlo: dove il terrestre vede rovine, il marziano vede una città brulicante di vita, dove l’uno vede un oceano l’altro vede un recente insediamento. I due, evidentemente, non si capiscono e se ne vanno ognuno per la propria strada, ciascuno nel proprio tempo, entrambi chiedendosi se quell’incontro era realtà o allucinazione. Ma nessuno dei due sa spiegare quella strana malinconia che si sente dentro…

Per Bradbury, la poesia era più importante di una trama razionale. Per esempio, non si è sforzato di spiegare quel salto temporale. Semplicemente lo fa accadere. Le emozioni, i sentimenti dei protagonisti sono molto più importanti della spiegazione razionale di un fenomeno che, peraltro, è centrale in quel racconto.

Tutto Cronache Marziane è così. I marziani vengono nuovamente fatti fuori dai batteri dei terrestri, prendendo di peso l’idea dalla Guerra dei Mondi di Wells. Una trama banale dal punto di vista della science-fiction. Ma per l’autore è un sistema per mettere nelle mani dei nuovi arrivati un mondo vuoto, ma non da millenni; da poco. Due civiltà si sono incrociate per un breve periodo e ora la seconda si trova a ripartire camminando letteralmente sugli scheletri ancora freschi della prima, come nel racconto The Musicians. È una situazione quasi unica nel mondo della speculazione letteraria e anche della stessa fantascienza.

Nell’opera di Bradbury il focus è sull’essere umano, sui suoi problemi e passioni, piuttosto che sulla tecnologia tout-court. Ciò nonostante la sua forza inventiva è straordinaria, testimoniata da molti libri, anche se tutti si limitano a ricordare Fahrenheit 451 divenuto un’icona anche grazie al film di Truffaut.

Con questa impostazione, Bradbury ha portato la fantascienza nel mainstream letterario e proprio per questo il suo lavoro ha ispirato altre categorie artistiche, oltre al cinema, lasciando un’enorme quantità di tracce e connessioni storiche. Un esempio fra tanti: “I Sing the Body Electric“, il titolo di un suo racconto e di una antologia del 1969 è preso da un poema di Whitman ed è poi diventato anche il titolo del secondo album dei Weather Report, del 1972.

Joyce 130 anni

130 anni dalla nascita di James Joyce.

Un’intervista con Carmelo Bene in cui legge Joyce mi sembra appropriata.

L’audio è un po’ basso. Quello che segue, da You Tube, è circa una metà del programma Una sera, un libro da cui è tratta l’intervista. A questo indirizzo, sul sito RAI, trovate l’intero programma (però dovete installare il plugin Microsoft Silverlight; se non va su Firefox, usate Google Chrome).

A proposito, vorrei sapere perché la RAI, che è servizio pubblico, usa dei codec proprietari.

Sidney’s Siberia

Fra le molte meraviglie del sito Secret Technology di Jason Nelson spicca questa Sidney’s Siberia.

Un’immagine che contiene una breve poesia e un quadrato, mosso dal mouse, per ingrandirne una parte. Quest’azione rivela che l’immagine di partenza è composta da molte piccole immagini, una modalità già ben nota nel web (esistono dei software per farlo).

Ma presto ci si accorge che ogni piccola immagine, ingrandita, contiene un’altra breve poesia e che il procedimento può continuare all’infinito…

Cliccare le immagini per ingrandire.

Haiku sonori

Ho appena letto un articolo di Murray Shafer, Orecchie aperte riportato in Paesaggi sonori, a cura di M. Bull e L. Back, Il Saggiatore, 2008 (NB: titolo originale The auditory culture reader, 2003; non ci sono i titoli originali dei singoli articoli, maledizione).

A un certo punto, in un capitolo intitolato L’orecchio dell’immaginazione, Shafer riporta vari haiku che spingono ad immaginare un suono a volte in modo sorprendente.

Il primo è il famoso haiku della rana di Bashō (1644 – 1694), che ho trovato anche in lingua originale

古池や
蛙飛びこむ
水の音
(furu ike ya
kawazu tobikomu
mizu no oto)

Questo haiku è stato tradotto in molti modi, ma la traduzione più realistica, anche se non è quella riportata nell’articolo, mi sembra essere:

antico stagno
una rana si tuffa
il suono dell’acqua

Nota: la traduzione degli haiku, come di molta poesia, non è univoca, ma è spesso una questione di sfumature. Qui, a volte, ho scelto di riportare la mia traduzione preferita anche se non è quella utilizzata nell’articolo che, oltretutto, è una doppia traduzione (giapponese → inglese → italiano).

Lo stesso Bashō offre anche altri esempi di attenzione al suono

il canto del cuculo
si adagia
sulla superficie dell’acqua

*****

il canto del cuculo
si perde lontano
verso un’isola sola

*****

mentre canta l’allodola
le grida del fagiano
battono il tempo

*****

silenzio:
la voce delle cicale
graffia la pietra

Un esempio fantastico è di Yamei

hark! la voce di un fagiano
ha ingoiato il grande campo
in un sorso

Ci sono, poi, alcuni haiku sul movimento del suono (autori Issa e Gyotai)

grillo
anche se era all’altra porta che cantavi
ti ho sentito qui

*****

il suono di una ghianda
che cade da un tetto di assi
freddo nella notte

ed esistono anche fusioni sinestetiche di fenomeni sonori e visivi (ancora Bashō)

il mare si scurisce
e il richiamo di un’oca selvatica
è pallidamente bianco

Infine, sempre da Bashō, un bellissimo esempio dell’immanenza del suono negli oggetti silenziosi

la campana del tempio tace,
ma il suono continua
ad uscire dai fiori