Post-human performance (was Aidoru)

Hatsune MikuQuando ho scritto questo post, nel 2010 con il titolo di Aidoru (Idol nella translitterazione inglese → giapponese), pensavo che Hatsune Miko sarebbe durata solo qualche anno, sostituita da qualche altro idolo in ologramma, invece è ancora lì, alive & kicking, e soprattutto per niente invecchiata 😛

Qui lo ripropongo e aggiungo qualche considerazione.


Canta, danza (o perlomeno si muove a tempo), è il più recente idolo dei teenager giapponesi ed è virtuale. Hatsune Miko (初音ミク) ha un vero pubblico, una vera band, ma è, apparentemente, un ologramma. In realtà si tratta di una proiezione 2D su uno schermo trasparente.

La sua voce è sintetizzata tramite il software Vocaloid Yamaha. In effetti Hatsune Miko è il secondo personaggio vocale completo messo a punto per Vocaloid (il primo rilasciato in Giappone) nel 2007 e il suo nome unisce primo (初, hatsu), suono (音, ne) e futuro (Miku ミク). La voce è quella dell’attrice Fujita Saki (藤田 咲) che si è prestata a registrare centinaia di fonemi giapponesi con una intonazione controllata.

Il fenomeno di Hatsune Miko non è il primo di questo genere. Segue la grande notorietà di Kyoko Date (DK-96) che è stato il primo net-idol, nel 1997. Il fenomeno delle star in Giappone risale ai primi anni ’70 e riflette il boom giapponese della cantante francese Sylvie Vartan con il film Cherchez l’idole (1963, in Giappone nel 1964).

Lo sviluppo degli idoli giapponesi è molto interessante.

Negli anni ’70 gli idoli avevano un’aura quasi mistica. Soltanto la parte pubblica della loro vita era nota ed era sempre perfetta e sapientemente orchestrata e la loro personalità visibile era falsa e accuratamente costruita. Nulla si sapeva della loro vita privata, se non alcune notizie essenziali (tipo, un matrimonio) e quello che traspariva del loro privato era altrettanto costruito. Le loro condizioni di lavoro erano pessime: erano strettamente controllati e guadagnavano decisamente poco, perché la maggior parte del denaro andava nelle tasche dei loro produttori, ossia quelli che li creavano.

Negli anni ’80 la condizione degli idoli cominciò ad avvicinarsi a quella della gente comune, in parte perché le condizioni di vita in Giappone erano notevolmente migliorate, ma anche perché il controllo si era leggermente allentato e si permetteva loro di mostrare un po’ della loro personalità. Le major, infatti, iniziavano a sperimentare la competizione fra varie star e quindi alcune differenze dovevano emergere. Un po’ come Beatles e Rolling Stones: questi ultimi apparivano un po’ più selvaggi dei primi e probabilmente lo erano davvero.
Iniziarono anche a guadagnare un po’ di più, ma sempre poco, se paragonato al giro d’affari che creavano.

Gli anni ’90 videro molti cambiamenti. Invece di essere dipinti come delle persone superiori, gli idoli divennero gente comune che aveva solo qualcosa in più (un X-Factor?). In qualche situazione potevano anche essere tristi, un po’ fuori forma e ammettere di aspettare i saldi per comprare i vestiti. Nello stesso tempo, il loro ciclo di vita come idoli divenne più rapido.

Ma il grande salto avvenne quando, vedendo il grande successo dei personaggi di anime e videogames (es. Lara Croft), le major iniziarono a lavorare su personaggi virtuali. L’idea nacque dalla constatazione che il contatto fra i fans e le star era sempre mediato da qualcosa (internet, TV, film, stampa). Non si incontra una star della musica o del cinema per caso in un centro commerciale o al ristorante. E in realtà lo star system non vende una persona, bensì una immagine totalmente idealizzata. La maggior parte dei fans non ha mai visto il proprio idolo in carne ed ossa, ma solo attraverso i media. Una parte riesce a vederlo, da lontano, in qualche concerto o mentre entra in un hotel ed è tutto. Una sparuta minoranza riesce a toccarlo facendosi fare un autografo dopo un lungo appostamento davanti alla sua casa, ma è una quantità trascurabile.

Quello che lo star system giapponese ha capito è che, se le cose stanno così, non è necessario che la star sia una persona vera. Può essere benissimo un personaggio virtuale. Per i fans non cambia proprio niente. E, si noti, alla base di questa idea non ci sono considerazioni economiche. Se è vero che le star virtuali non devono essere pagate, è anche vero che, al loro posto, bisogna pagare dei team di design e animazione che possono costare anche di più. Il punto è che un personaggio virtuale è totalmente controllabile e non pone problemi. Non ha comportamenti censurabili, a meno che non lo si voglia. Non è mai di pessimo umore, non si monta la testa, può lavorare sempre ed essere in TV anche la mattina dopo un concerto, fresco come una rosa.

Considerate, infine, che le star virtuali che sono state create non sono certo attori di teatro avvezzi a confrontarsi con le tragedie shakespeariane e nemmeno musicisti classici, ma, tipicamente, si tratta di cantanti con target adolescenziale. Hanno, al massimo, la profondità concettuale di un Justin Bieber.

Qui vediamo Hatsune Miku insieme a Megurine Luka (ルカ 巡音). Il cognome di quest’ultima combina la parola “Meguri” (巡, “intorno”) e “Ne” (音, “suono”), mentre il nome Luka evoca le omofone parole giapponesi “nagare” (流, “flusso”) e “ka” (歌, “canzone”) o “ka” (香, “profumo”. Il risultato dell’unione di queste parole può quindi essere “flusso di canzoni che si diffondono come profumo”) [da wikipedia con correzioni mie].

Megurine Luka è un passo avanti rispetto a Hatsune Miku. Infatti altro non è che l’incarnazione del terzo applicativo di Vocaloid, lanciato nel 2009 insieme al personaggio che lo rappresenta.

Questa tendenza giapponese ad “incarnare” i software fin dal momento del lancio è unica nel panorama mondiale. In occidente, infatti, l’eventuale incarnazione arriva dopo, quando il software, tipicamente un gioco, ha già raggiunto un successo planetario e allora il personaggio diventa vero, impersonato da un attore/attrice, non virtuale (il caso più emblematico è proprio quello di Lara Croft).

David Lee Myers

Questo post è la revisione di uno del 2006. Mi sembra che, essendo Myers non molto noto, sia il caso di parlarne ancora.

David Lee Myers è un compositore che si trova nella scomoda situazione di essere sconosciuto al grande pubblico perché non fa “pop” e sconosciuto agli accademici perché i suoi lavori non si inseriscono nella tradizione “colta”. Però è conosciuto dagli sperimentatori a oltranza, da quelli che non si accontentano di ri-elaborare delle idee maturate nell’ambito di una corrente, quelli un po’ scontenti e un po’ solitari che regolarmente disfano quello che hanno appena fatto per il gusto di ricominciare da capo.

Nel 1988 affermava che

True electronic music does not imitate the classical orchestra or lend well worn melodies the cloak of unexpected timbres – it exists to evoke the hitherto unknown. And it comes from circuits and wires, though I do not believe that electronic sound is “unnatural”, as some people might.

La vera musica elettronica non imita l’orchestra classica e non presta un mantello di timbri inattesi a melodie ben formate – essa esiste per evocare ciò che fino ad ora è sconosciuto. E nasce da circuiti e cavi, ciò nonostante io non credo che il suono elettronico sia così “innaturale” come qualcuno pensa.

DiaagProprio queste considerazioni hanno condotto D. L. Myers alla pratica di una musica estrema, quasi totalmente priva di input: niente partitura, nessuna tastiera, nessun suono da elaborare, nessun sistema di sintesi propriamente detto. Una musica in cui sia i suoni che le strutture non nascono dalla pressione di un tasto o dal fatto che qualcuno mette giù un accordo, ma dall’interazione spontanea di una serie di circuiti collegati fra loro in retroazione che l’essere umano si limita a controllare.
Al massimo l’input viene utilizzato solo come sorgente di eccitazione per il circuito di feedback.

Quello che Myers faceva, già nel 1987 con apparecchiature analogiche, era feedback music.

Il feedback positivo in una catena elettroacustica è stato sperimentato, con fastidio, da chiunque abbia usato un microfono e lo abbia inavvertitamente puntato verso gli altoparlanti. In breve si produce un fischio lancinante, mentre i tecnici si lanciano verso il mixer per abbassare il volume.

Questo problema, più conosciuto come Effetto Larsen, si verifica perché il microfono capta dei suoni che vengono amplificati e inviati all’altoparlante. Se gli stessi suoni, in uscita dall’altoparlante, vengono nuovamente captati dal microfono, amplificati e ri-inviati all’altoparlante, si crea una retroazione positiva tale per cui entrano in un circolo chiuso in cui vengono continuamente amplificati fino ad innescare un segnale continuo a forte volume.

Come si può immaginare, il feedback è un po’ il terrore di tutti i tecnici del suono, ma in determinate circostanze può essere controllato e se può essere controllato, può anche diventare uno stimolo per uno sperimentatore.

Bisogna puntualizzare che non si tratta di una idea di Myers. Ai tempi della musica elettronica analogica questo effetto è stato utilizzato in parecchi contesti. Anch’io ne ho fatto uso in una installazione del 1981 (si chiamava “Feedback Driver”, appunto), ma credo che negli anni ’80 l’abbiano provato un po’ tutti, con alterni risultati. I miei primi ricordi relativi a questa tecnica risalgono al lavoro di Tod Dockstader, un ricercatore e musicista americano relativamente poco noto, anche se alcune sue musiche sono finite nel Satyricon di Fellini.

Quello che distingue Myers dagli altri, però, è l’averne fatto una vera e propria poetica. Lui non sfrutta il feedback per elaborare qualcosa, non parte da algoritmi di sintesi, ma collega in retroazione una serie di dispositivi (principalmente mixer e multi-effetti) e variando i volumi sul mixer (che a questo punto diventa la sua “tastiera”) e cambiando tipo e profondità degli effetti ne trae una serie di sonorità suggestive, sempre in bilico fra il fascino di una musica che si muove in modo quasi biologico e il totale disastro delle macchine fuori controllo.

Senza dubbio, Myers è un virtuoso, ma, a differenza del virtuoso tradizionalmente inteso, lui non domina il proprio strumento. Piuttosto lo asseconda, cercando di spingerlo in una direzione. Qui la composizione consiste nel definire una rete di collegamenti fra i dispositivi e la tecnica si fa estetica.

Inoltre, come si vede in questo breve video, Myers si fa anche artista visuale elaborando una serie di tracce create dalla sua stessa musica.

Sito di riferimento: pulsewidth.

David Wessel

WesselPer ricordare David Wessel, scomparso il 13 Ottobre a 73 anni, mettiamo alcune testimonianze.

Per primo, il suo brano del 1977, Anthony.

In realtà Wessel è sempre stato un ricercatore più che un compositore, difatti la sua produzione musicale è rara. Anthony è un tipico brano costruito con fasce sonore in dissolvenza incrociata ed è stato uno dei primi pezzi realizzati con le macchine per la sintesi in tempo reale costruite da Peppino Di Giugno all’IRCAM.

Quella utilizzata qui è la 4A del 1975, uno dei primi modelli, il primo ad andare oltre lo stadio di prototipo. Si trattava di un processore capace di generare in tempo reale fino a 256 oscillatori digitali in wavetable (cioè con forma d’onda memorizzata e quindi con contenuto armonico definito dall’utente) con relativo inviluppo di ampiezza. Nonostante il fatto che gli oscillatori non si potessero connettere fra loro, era un passo avanti notevole per quegli anni perché, con i sistemi analogici dell’epoca, era già difficile arrivare a 10 oscillatori (per maggiori particolari vedi le voci 4A e Giuseppe Di Giugno sul blog di Alex Di Nunzio).

Se da punto di vista quantitativo la 4A era un grande passo avanti, la qualità del suono era limitata dal fatto che non si potevano realizzare dei metodi di sintesi a spettro sonoro variabile (per es. con filtri o modulazione di frequenza), se non ricorrendo all’additiva. In Anthony, Wessel aggira questo limite evitando una caratterizzazione melodica del materiale sonoro, affidandosi, invece, a grandi cluster in lenta mutazione armonica.

Att.ne: il brano inizia molto piano. Inoltre con gli altoparlantini del computer ne sentite metà.

Un secondo contributo video riguarda l’attività di David Wessel come ricercatore interessato principalmente all’interazione uomo – macchina, tanto che nel 1985 aveva fondato all’IRCAM un dipartimento di ricerca dedicato allo sviluppo di software musicale interattivo.

Qui viene mostrato lo SLAB, uno dispositivo di controllo composto da una serie di touch pad sensibili alla posizione e alla pressione. Ogni pad trasmette al computer informazioni relative alla posizione xy del dito che lo preme e alla pressione esercitata. Il flusso di dati è ethernet, non MIDI, per cui le misure sono accurate e la risposta è veloce (questa storia del superamento del MIDI ce la porteremo dietro per la vita; per citare Philip Dick, la cavalletta ci opprime). Maggiori dati tecnici sullo SLAB, qui. Per gli impazienti, nel video la performance inizia a 2:40.

Contesti culturali e tecnologici

Vi passo un articolo di Nicola Bernardini e Alvise Vidolin  scritto in occasione del XVII Colloquio di Informatica Musicale tenutosi nell’Ottobre 2008 a Venezia.

Si tratta, a mio avviso, di una riflessione – ahimé – molto lucida sulla situazione attuale della computer music e della musica contemporanea nel nostro paese. Lucida perché non si limita alle lamentazioni, ma cerca di risalire alle cause che determinano un contesto culturale che, secondo me, è fra i più depressi d’Europa (e non solo).

Se a qualcuno di voi interessa, poi ne parliamo. Per scaricarlo, basta cliccare il link con il tasto destro. Distribuito in CC.

Stella Rossa su internet

Lo scorso weekend potrebbe essere ricordato come un momento storico per internet.

Per la prima volta, infatti, gli USA non sono più il paese con il maggior numero di navigatori, essendo stati superati dalla Cina. Come, infatti, riporta puntualmente il sempre attento Punto Informatico, citando varie agenzie, gli utenti cinesi hanno superato gli americani 220 contro 217 milioni.

Ma la crescita cinese non si fermerà qui. L’aumento rispetto allo scorso anno è stato del 30% e questo sembra essere anche il trend dell’anno in corso. Considerata la popolazione cinese e il fatto che soltanto adesso una gran parte dei cinesi comincia a guadagnare abbastanza da permettersi una connessione domestica, si può prevedere che il distacco sia destinato ad aumentare e consolidarsi.

Il fatto che tutto ciò avvenga nonostante l’altissimo tasso di controllo e di restrizione operata sulla rete da parte del governo cinese non è un buon indicatore. Altri governi potrebbero pensare che crescita e controllo possano convivere. In questi ultimi anni, infatti, gli stessi paesi occidentali hanno imparato molto dalla Cina in materia di controllo. Ricordiamo, per esempio. che in Italia non vengono oscurati soltanto siti coinvolti in reati penali, ma anche quelli che ospitano alcuni casinò online e gestori di scommesse con sede all’estero, onde impedire agli italiani di sfuggire al monopolio statale e alle tasse connesse.

Quello che si spera, ovviamente, è che l’aumento esponenziale del numero dei navigatori renda la vita sempre più difficile ai controllori e che il fenomeno internet si traduca in una maggiore libertà di informazione anche in Cina.

Forse quello di cui abbiamo bisogno davvero è un bel jolly roger:

Cominciate a preoccuparvi

Mi spiace dirvelo, ma è possibile, anzi probabile, che l’avvento del digitale nelle telecomunicazioni e nel multimedia equivalga a una ennesima fregata (leggi: limitazione dei diritti) per l’utente/consumatore.
Quello che segue è un esempio molto ma molto limitato rispetto a quello che si può fare e si sta già facendo.

Dunque, state guardando un film sulla vostra nuova TV ad alta definizione con schermo al plasma, quando parte l’inserto pubblicitario. Lanciando qualche maledizione ai pubblicitari e alle aziende che li pagano, annaspate alla ricerca del telecomando con l’idea di approfittarne per dare un’occhiate alle prove del gran premio di formula 1 sull’altro canale.
Impugnando l’oggetto del potere, premete un tasto… e il canale non cambia.
Inoltre, nella parte bassa dello schermo appare in sovraimpressione un messaggio il cui contenuto è, in sintesi, il seguente:
“Tranquilli, il vostro telecomando non è rotto. In base alla nuova politica di questa emittente, la funzione di zapping viene disabilitata durante gli spazi pubblicitari. Dovete capire che questa emittente vive solo grazie alla pubblicità e solo così sarà in grado di offrirvi nuovi e più entusiasmanti programmi. Il vostro telecomando riprenderà pienamente la propria funzionalità al termine dello spazio pubblicitario. Vi ringraziamo per la collaborazione”
Il bello è che la cosa non coinvolge solo chi sta guardando in diretta il programma. Il vostro amico che ha pensato bene di vedersi le prove del gran premio e registrare il film sul nuovo DVD recorder, non si salverà. Negli spazi pubblicitari, infatti, sarà disabilitata la funzione di avanti-veloce.

Non è fantasia e nemmeno pessimismo. È un nuovo brevetto Philips che sta facendo proseliti (vedi Punto Informatico).
Ora considerate che questo è un esempio molto limitato di quello che si sta facendo nel campo del controllo. Quello a cui si vuole arrivare è:

  • musica, film e altri contenuti multimediali blindati, non copiabili e possibilmente nemmeno prestabili (e questo è il DRM: digital rights management)
  • computer blindati mediante tecnologia TC (trusted computer) che possono consentire soltanto l’accesso o l’esecuzione di software specificamente autorizzato.

Cominciate a preoccuparvi un po’. Date un’occhiata a NO1984.

I’m sorry, but the digital revolution in telecommunication and multimedia is very likely to have a dangerous effect (i.e. right limitations) on users/consumers.
This is a simple and limited example:

Well, suppose you are looking to a movie on your new digital HD TV. The commercial starts and you search for the remote controller to switch to another channel.
You push the button… and the channel don’t change. Moreover, a message appears on the screen:
“Be cool, your controller is good, but following the new policy of this TV station, your remote controller is disabled during the commercials broadcasting. Please, consider that this TV station needs the commercials incomes to offer new and beautiful channels. Your controller will become fully functional after the commercials space. TYVM for your cooperation”
This thing is not limited to the people looking at the movie in real time. Even if you record the movie with your new DVD recorder you will be affected. The Fast Forward function will be disabled during the advertisement’s broadcasting.

It’s not science fiction and it’s not pessimist attitude. It’s a new Philips patent which prevents a user from changing the channel during commercials. According to Ars Technica, ABC is very interested in.
Now, consider that this is a little example of exploiting the digital technologies to control the users. It seem that the aim of the major is:

  • music, movies and multimedia contents completely blocked. No copy (even for personal use) and no loan between friends (this is the DRM)
  • computers totally under control by the so called Trusted Computing technologies. Only allowed software can run and only allowed (so called “safe“) platforms can go on line.

 

Il futuro del mercato musicale (2)

È il 2015, ti svegli al al suono di una melodia familiare diffusa dolcemente, che ti tira fuori dal letto e ti fa sentire bene. Quando entri in bagno, il tuo Personal Media Minder attiva lo schermo incorporato nello specchio e puoi guardarti una selezione di notizie mentre ti prepari per la giornata. Appena ti infili nella doccia, il tuo programma musicale personalizzato ti accoglie con una nuova versione dal vivo della canzone che hai scaricato ieri, ed è ancora meglio dell’originale, così, mentre ti vesti, dici al programma TasteMate di aggiungerla in rotazione nella tua scaletta musicale. Infili i nuovi occhiali con cuffia incorporata e collegamento in rete continuo, li accendi sistemando gli auricolari e inizi subito ad ascoltare il mix che un amico ha preparato per te. La musica fluisce nella tua coscienza, diventa parte di te. Dopo la colazione con il resto della famiglia, ti dirigi al lavoro, e il Personal Media Minder ti chiede se vuoi finire di ascoltare l’audiolibro iniziato ieri mattina. Data la conferma, parte la registrazione, che ti accompagna nella camminata verso il treno che ti porta in ufficio. Durante il giorno, gli occhiali e altri dispositivi wireless ti aiutano a comunicare attraverso la rete con amici, soci, compagni di rete e “pari digitali”. La cuffia ti tiene in contatto anche con quella raccolta hard rock che ti piace tanto e, nel frattempo, continuano ad arrivare una serie di nuove canzoni, nuove versioni e remix di brani che ti interessano, insieme ai tuoi vecchi pezzi preferiti. Con TasteMate accedi alle tue scalette musicali e le condividi, consigli a un amico a Seattle un paio di canzoni, che vengono automaticamente inserite nella sua collezione. La musica ti dà la carica per tutto il giorno. Tornando verso casa, scegli la solita miscela di notizie di cronaca, sport, meteo e pettegolezzi sui tuoi musicisti e attori preferiti.
La cuffia si sincronizza con i monitor tridimensionali attivi, che proiettano le immagini proprio davanti a tuoi occhi, oppure con gli schermi comuni disponibili sul treno e a casa: puoi decidere cosa ascoltare e cosa guardare e chi può condividere l’esperienza. Il Media Minder armonizza e trasmette la programmazione selezionata e qualsiasi nuovo tipo di musica tu abbia deciso di esplorare, definendo anche come sceglierla, con l’aiuto del programma TasteMate.
Rientrato a casa, trascorri la serata accompagnato dal morbido jazz diffuso dall’impianto domestico attraverso casse disposte in ogni stanza, mentre porti in tavola una delle tue specialità culinarie, poi paghi le bollette. Una di queste è l’abbonamento per informazione e intrattenimento, che comprende i costi mensili per musica, video, connessione e comunicazione, ma è sempre più economica della bolletta del riscaldamento o dell’acqua. Le chiamate in arrivo dagli amici si inseriscono armoniosamente nella programmazione con cui ti circondi, in accordo alle tue indicazioni. Dopo cena metti in ordine e magari giochi un paio di partite con alcuni amici attraverso la tua rete virtuale, mentre ti rilassi con alcuni brani New Age ispirati alle composizioni originali di Mozart, che hai scoperto a tarda notte mentre navigavi tra i canali di musica condivisa…

David Kusek, Gerd Leonhard
Il futuro della musica

Questo è l’incipit del libro di cui sopra, di recente pubblicazione in Italia (il libro è del 2005; trovate la versione originale qui e quella italiana qui; potete scaricare la prefazione e il primo capitolo in pdf, il resto lo dovete comprare).

Secondo voi quanto descritto sopra è un paradiso o un incubo?

Devo dire che mentre lo leggevo pensavo “…bello…”, ma quando ho cominciato a fare qualche elucubrazione chiedendomi quante probabilità di avverarsi ha una situazione del genere, il tutto ha cominciato a girare inesorabilmente verso l’incubo.
Intendiamoci, io sono sicuro che il mercato musicale sta evolvendo verso una situazione del genere: come scrivo nel post precedente, la musica sarà distribuita in rete, i costi caleranno, esisteranno servizi di abbonamento, ci saranno software in grado di selezionare i generi, etc.
Però nel testo di cui sopra manca qualcosa: tanto per cominciare, la pubblicità.
Mi sembra impossibile che l’advertisement non infili i suoi tentacoli (io odio la pubblicità) in un servizio di musica in abbonamento. È vero che chi offre il servizio può contare sul canone di abbonamento, ma voi pensate che saprà resistere alla possibilità di abbassare un po’ il prezzo e infilarci qualche advertisement? Oltretutto personalizzato. Magari, peggio ancora, in forma secondo loro non disturbante. Così, mentre ascolti la tua selezione di hard rock preferita, “continuano ad arrivare una serie di nuove canzoni, nuove versioni e remix di brani che ti interessano” e ogni tanto ti arriva un pezzo che assomiglia agli altri, ma decisamente non fa parte della tua scelta. E tu stai lì a chiederti se è il software di selezione che ha toppato o se qualcuno ha pagato i fornitori del servizio per mandare almeno una volta al giorno quelle canzoni… In fondo, nei tempi andati, le major hanno sempre pagato le radio perché trasmettessero certi pezzi.
Poi, “gli occhiali e altri dispositivi wireless ti aiutano a comunicare attraverso la rete con amici, soci…” sono una disgrazia perché se tu puoi vedere qualsiasi rete, tutte le reti vedono te e ti trovano. Così, in mezzo all’audiolibro, arrivano le comunicazioni concitate di quelli del tuo ufficio che ti fanno sapere che il boss ha indetto una riunione per le 10 e vuole la tua opinione su un nuovo progetto. Di conseguenza, sempre insieme all’audiolibro, cominciano ad arrivare grafici, reports e voci… (il che, nota bene, succede già adesso grazie a quella potente invenzione che è il cellulare).
Nel frattempo il tuo programma di messenger è partito da solo (fa parte del servizio) e arrivano squillini da 50 deficienti che, non avendo niente da fare, vorrebbero messaggiare con te. Come se non bastasse c’è una chiamata voip da quel/quella cretino/a che ti sta tarmando da un mese solo perché ci sei andato/a a letto una sera che eri depresso/a.
Ok, potrei continuare. Potrei riscrivere la situazione citata in modo secondo me un po’ più realistico (magari lo farò). Ma quello che mi sembra allucinante di questa situazione immaginaria, ma in fondo non troppo, è l’idea di delegare le scelte.
È vero che con l’attuale quantità di informazione, oltretutto sempre crescente, selezionare è difficile, ma quando io scelgo di leggere le news dal sito di Repubblica piuttosto che da qualcun altro, io opero una scelta in prima persona. Se io, invece, mi affido a un servizio tipo GoogleNews, per quanto possa personalizzarlo, è sempre nelle mani qualcuno/qualcosa altro.
Gli autori del saggio dicono che la musica fluirà come l’acqua e nello stesso modo è facile immaginare che le notizie fluiranno come l’acqua, le immagini fluiranno, le storie fluiranno etc. Ma chi controlla il flusso?

Il futuro del mercato musicale (1)

Dal punto di vista degli autori – Con spirito relativamente ottimistico

La musica non viene più distribuita su un supporto ma solo come flusso di dati. La vendita avviene via rete, non necessariamente solo tramite un computer, ma attraverso un qualsiasi terminale multimediale.
Le major discografiche non esistono più. Esattamente come una qualsiasi azienda che fabbrica e vende un qualsiasi prodotto, o come uno studio professionale, sono gli autori (la band costituita come società) a vendere i risultati del proprio lavoro, coadiuvati da una serie di agenzie di servizi e di consulenza.
In altre parole, l’autore e l’esecutore sono tornati ad essere il centro del proprio lavoro, a controllare il prodotto, a investire e rischiare in proprio, esattamente come qualsiasi altra entità economica. E naturalmente controllano anche tutti gli incassi, con i quali devono pagare le spese, le consulenze e anche viverci. Esattamente come qualsiasi altra entità economica.
I prodotti sono privi di protezione. Ormai si è visto che, a meno di militarizzare la rete, le protezioni non tengono. Il calo del prezzo della musica dovuto all’assenza di supporto, stampa, distribuzione e ruberie varie e una piccola tassa sul P2P, pagata come parte dell’accesso a internet, assorbono la perdita dovuta alle copie. Un disco potrebbe costare € 4, ma ne costa 8/10 proprio per questa ragione.
In pratica, una band segue la solita trafila. La differenza rispetto alla situazione attuale sta nel fatto che si gestisce in proprio. Comincia a suonare un po’ in giro, registra dei brani in proprio o in uno studio con modica spesa, li vende sul proprio sito o su quello di una agenzia di distribuzione a cui dà una certa percentuale. In pratica, fin qui ha solo bisogno di un commercialista.
Naturalmente, sul sito, qualche pezzo si può scaricare gratis come forma promozionale. Alcune band distribuiscono gratis tutto il disco oppure il video di un loro concerto perché contano sui concerti per vivere.
E così, se sono una buona band, la voce comincia a spargersi e il loro nome arriva all’orecchio di qualche critico. E allora un critico musicale con un blog da 10.000 accessi al giorno ascolta la loro musica. Non una major che presenta loro una lettera di impegno con cui la band si impegna su tutto e la major su niente mentre pensa se investire su di loro o su uno degli altri 1000 deficienti che ha sottomano. Non c’è bisogno di investire su di loro perché loro stanno già investendo su se stessi e non c’è niente da guadagnare perché la band è padrona del proprio business, per quanto piccolo sia.
Ok, li ascolta un critico. E il critico non è uno stronzo borioso che scrive su una nota rivista musicale. È solo uno che ha un blog e si è fatto una fama in rete con anni di post intelligenti. È un free-lance e non ha un capo. Anche lui si è costruito un po’ per volta, facendo della sua passione il proprio lavoro. Sa che il suo pubblico si fida di lui e lo stima e che questa fiducia è la base del suo successo per cui adesso le radio gli chiedono di preparare programmi e le riviste gli chiedono articoli. Ma non ha un capo.
Sa che il segnalare nuove band interessanti è parte del suo lavoro e aumenta la sua fama. Sa che in TV lo presentano come “quello che ha scoperto Heterophobia e poi Gregg Turner and the Blood Drained Cows”.
Così non chiede loro € 10.000 per una buona recensione, ma li contatta, parla con loro via internet, li intervista e se può va a sentirli dal vivo. E poi ne scrive e li linka sul suo blog e gli accessi al sito della band aumentano di un bel po’.
E allora, se le cose vanno bene, la band valuta se lavorare un po’ con un consulente musicale e di immagine che viene pagato a prestazione o con una percentuale sulle vendite o con un qualsiasi altro accordo di lavoro.
Se poi le cose vanno molto bene e il commercialista non basta più, si affida a una agenzia di management per gestire concerti, tours, merchandising e contabilità. E fornisce loro anche un set di avvocati, perche in un’intervista uno di loro ha detto che ormai sono più popolari di Gesù Cristo e così sono stati messi al bando dall’amministrazione Bush.
E a questo punto, la band si rende conto che è davvero famosa e si fa la propria agenzia di management e manda a quel paese i consulenti musicali e di immagine, gli avvocati e gli altri mangiapane a tradimento.
Uff! Che fatica gestirsi da soli…

Un sogno?
From the band point of view – With a little optimistic attitude

Music is no more sold on CD but only on the internet as data stream.
The majors don’t exist no more. Like any business company that build and sells its own products, or like a professional office, the band sells its own productions with the help of some artistic advisors and/or a management agency.
In other words, the band works alone and control its own work, the music, putting money (and risk) in its own activity, exactly as any other economic entity.
And of course the band controls all the revenues, with which it must pay expenses, the advisors and also living. Just as any other economic entity.
The music has no protection system. By now everybody knows that it’s impossible to control the copy without controlling and blocking all the net and the copy itself is not a loss so big. Now the people pay a little P2P tax as part of the internet access cost and the decreasing of music price, without support, printing, distribution and several robberies, can cover the copies loss. The price of ten songs could be € 4 but it’s € 8 to 10 just to cover the copies loss.
The beginning of a band career is as usual. The difference is that the band runs its business alone.
They begin play around, record some music at home or in a little studio with a little expense and sell it on his site or on the site of a music distribution service that charges a little. Until now the band only needs a chartered accountant.
Of course the people can download some song from the band’s site to hear and give it to friends. So, if the music is good, their name spreads and some music critics begin to hear it. And then a music critic who leads a blog with 10.000 visit per day comes to their site. Not a major with a letter of intent, a so called “deal memo” to which the band remains bound while the major choose between this band or another. Not a major because there is nothing to gain when it’s the artist that control itself and his/her music.
So a music critic hear the band. And this critic is not a pretentious bastard who works for a big music magazine. He is a person who holds a blog and has build his reputation online with years of smart posting. He is a free-lance and has no boss. He knows that many people trust him and this trust is the foundation of his success, is the reason why the radios ask him for programs and the magazines ask him for articles. But he has no boss.
He knows that discovering new interesting bands is the reason of his success and the TVs introduce him as the one who discovered Heterophobia and Gregg Turner and the Blood Drained Cows.
So he don’t ask the band for $ 10.000 to write a good review. He simply listen to their music and write some line to the band and go to their concert and then put a post on his blog and their site many more people come.
And then, if the things runs well, the band maybe turn to a music advisor or to an image advisor to improve the music or the live act, but it’s always the band who controls its music.
And then, if the things runs very well, the band search for a business management service to help handle tours, merchandise and maybe lawyer because the singer told they are more popular than Jesus they get banned by Bush administration.
And at least the band realizes that they became really popular and they can make their own business management service and kick out the advisors and the lawyers and all this parasites.
Agh! What a hard work lead his business alone…

A dream?