Winter Leaves è una investigazione sui rapporti che intercorrono fra armonia e timbro.
La tecnica base è quella di costruire dei suoni i cui spettri abbiano una valenza armonica. Uno dei sistemi per ottenerlo è quello di creare suoni le cui componenti spettrali abbiano dei rapporti accordali.
Winter Leaves, infatti, si basa su 3 suoni, ognuno formato da 5 sinusoidi le cui frequenze hanno fra loro un intervallo fisso. Tutti suoni sono costruiti sulla stessa fondamentale (47.5 Hz, circa SOL). Le altre 4 componenti hanno rapporti di 2 (8va) nel primo suono, di 2.24 (9a magg.) nel secondo e 2.8856 (intervallo non temperato corrispondente a una 11ma crescente) nel terzo.
I 3 suoni base, quindi, hanno le seguenti componenti sinusoidali:
A questo punto è chiaro che spettri di questo tipo possiedono sia una valenza timbrica che armonica. Nel primo caso il suono è associato alla consonanza perfetta, nel secondo, a una dissonanza interpretabile nell’ambito del sistema temperato e nel terzo a una dissonanza non temperata.
George Crumb è uno dei compositori che ho sempre amato. È uno dei pochi contemporanei che trovo emozionanti. Uno dei pochi che non scrivono solo ‘esercizi’ o ‘studi’.
Di questo brano ho già parlato, proprio qui, più o meno 9 anni fa. Ma allora non c’era la diffusione offerta dal libro di facce e non c’erano i video del tubo (non come adesso, almeno). Così ne approfitto per rimettere qualcosa, questa volta con il video dell’esecuzione e note dell’autore.
George Crumb, Zeitgeist, Six Tableaux for Two Amplified Pianos (Book I) (1987, rev. 1989)
I. Portent – Molto moderato, il ritmo ben marcato
II. Two Harlequins – Vivace, molto capriccioso
III. Monochord – Lentamente, misterioso
IV. Day of the Comet – Prestissimo
V. The Realm of Morpheus (“. . . the inner eye of dreams”)
Piano I: Lentamente quasi lontano, sognante
Piano II: Adagio sospeso, misterioso
VI. Reverberations – Molto moderato, il ritmo ben marcato
Alexander Ghindin & Boris Berezovsky Amplified pianos
Notes from the author:
Zeitgeist (Six Tableaux for Two Amplified Pianos, Book I) was composed in 1987. The work was commissioned by the European piano-duo team of Peter Degenhardt and Fuat Kent, who subsequently gave the premiere performance at the Charles Ives Festival in Duisburg, Germany on January 17, 1988. Zeitgeist was extensively revised after this initial performance.
For a German-speaking person, the expression “Zeitgeist” has a certain portentous and almost mystical significance, which is somewhat diluted in our English equivalent: “spirit of the time.”
The title seemed to me especially appropriate since the work does, I feel, touch on various concerns which permeate our late-twentieth century musical sensibility. Among these, I would cite: the quest for a new kind of musical primitivism: (a “morning of the world” vision of the elemental forms and forces of nature once again finding resonance in our music); an obsession with more minimalistic (or at least, more simple and direct) modes of expression; the desire to reconcile and synthesize the rich heritage of our classical Western music with the wonderfully vibrant ethnic and classical musics of the non-Western world; and, finally, our intense involvement with acoustical phenomena and the bewitching appeal of timbre as a potentially structural element.
In many of its aspects—compositional technique, exploitation of “extended-piano” resources, and emphasis on poetic content—Zeitgeist draws heavily from my earlier piano compositions, especially the larger works of my Makrokosmos cycle (Music for a Summer Evening [1974] for two amplified pianos and percussion, and Celestial Mechanics [1979J for amplified piano, four-hands).
The opening movement of Zeitgeist, entitled Portent, is based primarily on six-tone chordal structures and a rhythmically incisive thematic element. The music offers extreme contrasts in register and dynamics. A very characteristic sound in the piece is a mysterious glissando effect achieved by sliding a glass tumbler along the strings of the piano while the keys are being struck.
The second movement—Two Harlequins—is extremely vivacious and whimsical. The music is full of mercurial changes of mood and comical non sequiturs. Although this piece is played entirely on the keyboard, an echoing ambiance resonates throughout.
Monochord (which in the score is notated in a symbolic circular manner) is based entirely on the first 15 overtones of a low B-flat. A continuous droning sound (produced alternately by the two pianists) underlies the whole piece. This uncanny effect, produced by a rapid oscillating movement of the fingertip in direct contact with the string, results in a veritable rainbow of partial tones. In addition, paper strips placed over the lower ten strings of each piano produce an almost sizzling effect.
The title of the fourth movement —Day of the Comet— was suggested by the recent advent of Halley’s comet (the previous visitation was commemorated by H. G. Wells in his science fiction novel of the same title). The piece, played at prestissimo tempo and consisting of polyrhythmic bands of chromatic clusters, is volatile, yet strangely immaterial.
Perhaps Debussy’s Feux d’artifice (Preludes, Book II) is the spiritual progenitor of this genre of composition.
The fifth movement —The Realm of Morpheus— is like Monochord symbolically notated. The bent staves take on the perceptible configuration of the human eye (“…the inner eye of dreams”). Each of the two pianists plays independently, and the combined musics express something shadowy and ill-defined—like the mysterious subliminal images which appear in dreams.
Disembodied fragments of an Appalachian folk-song (“The Riddle”) emerge and recede.
The concluding movement of the work —Reverberations— recalls the principal thematic and harmonic elements of the first movement. This piece is constructed in its entirety on the “echoing phenomenon”—that most ancient of musical devices.
Nel 2002 il compositore scandinavo Leif Inge ha realizzato digitalmente una espansione temporale della Nona Sinfonia di Beethoven portandola alla durata di 24 ore, senza distorsioni o variazioni di altezza. Considerando che la durata normale della Nona si aggira intorno ai 67 minuti (ma dipende dal direttore: può anche superare i 70′ e arrivare fino a 77’16” nella versione di Kubelik del ’74), si tratta di una espansione di circa 21.5 volte.
Il titolo del brano così ottenuto è 9 Beet Stretch e suona come un continuum sonoro in lenta evoluzione, ma non così lenta da non permettere di percepire cambiamenti in tempi ragionevoli (qualche minuto al massimo, ma generalmente in tempi più brevi). Ovviamente, con questi tempi, la melodia si perde completamente e il tutto si trasforma in una sequenza di accordi, ma è interessante notare come il senso drammatico dell’armonia in gran parte rimanga.
Gli attacchi delle note sono tutti molto graduali perché non si tratta di una esecuzione rallentata, ma di uno stretching del segnale audio, quindi un attacco che in originale dura 1/10 di secondo, nella versione espansa dura 2.15 secondi. La versione utilizzata è una registrazione Naxos diretta da Béla Drahos con la Nicolaus Esterházy Sinfonia e Coro (Naxos 8.553478).
Lo stream si può ascoltare via internet dal sito di riferimento avviando il player. La trasmissione inizia all’ora in cui il sole tramonta a Vienna il 26 Marzo (le 18:16 CET), giorno e ora della morte di Beethoven, e continua 24/7. Di conseguenza, nelle giornate di ora solare, i quattro movimenti hanno i seguenti tempi di inizio (CET = central europe time, cioè il nostro fuso orario)
CET 18:16 movement 1 – duration 5½ hours
CET 23:43 movement 2 – duration 5 hours
CET 04:48 movement 3 – duration 5 hours
CET 09:24 movement 4 – duration 8½ hours
Nel periodo di ora legale, dovete aggiungere un’ora.
Una testimonianza dal tour giapponese di Suguru Goto del 2016. Il video, ripreso a Tokyo, è un collage di tre brani con musica di Suguru Goto, mentre la parte grafica è stata curata da tre diversi artisti, Patrick Defasten, Lucio Arese e Antoine Schmitt.
I brani sono:
Body Jack, Suguru Goto music, Patrick Defasten graphics
CsO, Suguru Goto music, Antoine Schmitt graphics
Continuum, Suguru Goto music, Lucio Arese graphics
Come al solito mancano info dettagliate, ma si vede che tutti i brani potrebbero essere generati con uno dei classici software che accoppiano audio e video, come Max/Jitter o PD/GEM. O, almeno, volendo fare una cosa di questo tipo, userei uno di questi oppure metterei in comunicazione Max/PD e Processing. Tuttavia qui, trattandosi di collaborazioni live (a tratti si vede che ci sono due esecutori), è anche possibile che uno generi il suono e l’altro la grafica in modo indipendente (cioè senza comunicazione fra i due software), interagendo esattamente come due normali esecutori.
Nei primi due brani la parte grafica è totalmente generata dal computer. Quella del secondo si basa sulle particles e sa molto di Jitter. Tecnicamente, fra i primi due, sembra il più semplice da realizzare (NB: non voglio dire che sia un difetto, anzi. Il risultato è molto accattivante).
Il primo, invece, esibisce una notevole quantità di oggetti riuniti in una configurazione toroidale, che poi esplodono in altre forme. Le rotazioni non sono un problema perché non sono gli oggetti a muoversi, ma la telecamera virtuale (il “punto di vista”). Però la quantità di oggetti e la loro disposizione suggerisce qualche tipo di software specializzato.
Nel terzo, invece, si vedono muoversi delle forme quasi organiche, che ricordano le meduse ed è più difficile capire se abbiamo a che fare con una grafica totalmente computerizzata o con l’elaborazione di una qualche ripresa.
Hello, by Alexander Schubert (2014) For {any number of} instruments, live-electronics and video
Excerpts from composer’s notes:
The piece is audio-visual. It’s basically a video that is accompanied by the instruments. The video consists of video recordings of the composer performing certain actions / gestures. These gestures are notated in the score as well and need to be interpreted by the musicians (as musical events – not as theatrical actions / physical movement – the idea is to find corresponding or contrasting music events for the given gestures).
The piece is really based on the video and the electronics in the tape, meaning that in the rehearsal progress, rather use the video as an orientation and not the only the score. The score is a tool to make it easier to play along with the video, but eventually the video is the real score.
The piece can be played more or less by any combination of instruments. It is advised to have at least four players, one of which is a piano/guitar/accordion or similar to play chords. Also a percussionist should be included. For combinations that do not fall into this description please contact the composer to check.
You are invited to use other small instruments or props other than those found in your ensemble. For example toy instruments, everyday household tools or found objects. Chose these instruments in order to fit a given video gesture you want to accompany.
Dispacci dal fronte interno [Dispatches from the homefront] is a work by Andrea Valle for feedback system including ad libitum strings, printer and live electronics.
Audio from strings, printers and environment is not only manipulated live, but some features are extracted and used to control not only the same sound processing but also the real-time generation and print on the fly of musical notation to be performed by the player.
In short, the performer receives “dispatches” which content depends on what s/he is playing.
From SONIC SCREENS, an event by U.S.O. Project (Matteo Milani, Federico Placidi) in collaboration with O’ and Die Schachtel
Milan, 01/12/2012
An excerpt from the premiere by:
Èdua Amarilla Zádory – Violin
Ana Topalovic – Violoncello
Visto che ho appena aggiornato alcuni post sui canti degli uccelli e sull’interpretazione che ne dà Messiaen, ho pensato di postare i suoi Piccoli Abbozzi di Uccelli nella versione del 1985 per un pianoforte (esiste anche quella a due).
In realtà Messiaen aveva già trovato la convergenza fra le sue due passioni, ornitologia e musica. Già nel 1951 aveva composto un brano virtuosistico per flauto e pianoforte utilizzato come test di ammissione a flauto presso il conservatorio di Parigi (ricordiamo che il conservatorio di Parigi è a livello superiore ed equivale a una nostra accademia di perfezionamento). Il brano si intitolava Le merle noir ed è il suo primo lavoro interamente ispirato al canto di un uccello (alcuni frammenti erano inclusi in opere precedenti).
Nel 1953 compose Réveil des oiseaux (Il risveglio degli uccelli) per orchestra, composto quasi esclusivamente di trascrizioni dei canti degli uccelli che l’autore poteva ascoltare tra mezzanotte e mezzogiorno tra le montagne del Massiccio del Giura.
A partire da questo periodo prese l’abitudine di incorporare queste trascrizioni in tutte le sue opere, oltre a scrivere raccolte interamente dedicate a questo soggetto (Oiseaux exotiques (Uccelli esotici) per pianoforte e orchestra da camera, 1955-1956, La Chouette hulotte (L’allocco) per pianoforte, 1956, il monumentale Catalogue d’oiseaux (Catalogo di uccelli) per pianoforte, 1956-1958, La Fauvette des Jardins (Il beccafico) per pianoforte, 1970-1972, Un Vitrail et des oiseaux (Una vetrata e degli uccelli) per pianoforte e orchestra, 1986, fino a questi Petites esquisses d’oiseaux (Piccoli abbozzi d’uccelli) per uno e due pianoforti, 1985-1987). Come opere non si tratta di semplici raccolte di trascrizioni, ma veri e propri poemi sinfonici. Paul Griffiths osservò che Messiaen fu un ornitologo più coscienzioso di tutti i compositori che lo avevano preceduto, e un più attento osservatore musicale del canto degli uccelli di tutti gli ornitologi precedenti.
In effetti il lavoro di trascrizione di Messiaen è accurato e tiene conto di problemi musicali che spesso sfuggono all’ornitologia scientifica. Lui stesso spiega:
L’uccello, essendo molto più piccolo di noi, con un cuore che batte più rapidamente e delle reazioni nervose assai più rapide, canta a tempi estremamente veloci che sono assolutamente impossibili per i nostri strumenti; dunque sono obbligato a trascriverlo ad un tempo più lento. Per di più, questa rapidità è associata ad una estrema acutezza, essendo un uccello in grado di cantare in registri così alti da essere inaccessibili ai nostri strumenti; perciò trascrivo il canto una, due o anche tre ottave sotto. E non è tutto: per la medesima ragione sono obbligato a sopprimerne quegli intervalli troppo piccoli che i nostri strumenti non potrebbero suonare. Allora rimpiazzo questi intervalli dell’ordine di uno o due commi con dei semitoni, ma rispettando la scala dei valori tra i diversi intervalli, ovvero, se qualche comma corrisponde ad un semitono, allora ad un vero semitono corrisponderà un tono intero o un intervallo di terza; tutto è ingrandito, ma i rapporti restano inalterati, ciò nonostante quello che restituisco è esatto.
Petites esquisses d’oiseaux (1985) – Håkan Austbø, piano
Le Rouge-gorge (erithacus rubecula – pettirosso)
Le Merle noir (turdus merula – merlo)
Le Rouge-gorge
La Grive musicienne (turdus ericetorum sinonimo di turdus philomelos – tordo bottaccio)
Le Rouge-gorge
L’Alouette des champs (alauda arvensis – allodola)
Anthèmes refers to two related compositions for violin by French composer Pierre Boulez: Anthèmes I and Anthèmes II.
Anthèmes I is a short piece (c. 9 minutes) for solo violin, commissioned by the 1991 Yehudi Menuhin Violin Competition, and dedicated to Universal Edition’s director Alfred Schlee for his 90th birthday. In 1994, Boulez revised and expanded Anthèmes I into a version for violin and live electronics at IRCAM, resulting in Anthèmes II (c. 18 minutes duration), produced in 1997. (Expansion and revision of earlier works is common in Boulez’s compositional process; see also Structures.)
The title is a hybrid of the French “thèmes” (themes) and the English “anthem”. It is also a play on words with ‘anti-thematicism ‘: “Anthèmes” reunites the “anti” with the “thematic”, and demonstrates Boulez’s re-acceptance of (loose) thematicism following a long period of staunch opposition to it (Goldman 2001, 116–17).
Anthèmes I owes its structure to inspiration Boulez drew from childhood memories of Lent-time Catholic church services, in which the (acrostic) verses of the Jeremiah Lamentations were intoned: Hebrew letters enumerating the verses, and the verses themselves in Latin. Boulez creates two similarly distinct sonic worlds in the work: the Hebrew enumerations become long static or gliding harmonic tones, and the Latin verses become sections that are contrastingly action-packed and articulated (though Boulez says that the piece bears no reference to the content of the verses, and takes as its basis solely the idea of two contrasting sonic language-worlds) (Goldman 2001, 119). The piece begins with a seven-tone motive, and trill on the note D: these are the fundamental motives used in its composition. It is also in seven sections: a short introduction, followed by six “verses”, each “verse” preceded by a harmonic-tone “enumeration”. The last section is the longest, culminating in a dialogue between four distinct “characters”, and the piece closes with the two “languages” gradually melding into one as the intervals finally center around the note D and close into a trill, and then a single harmonic. A final “col legno battuto” ends the piece in Boulez’s characteristic witty humour, a gesture of “That’s enough for now! See you later!” (Goldman 2001, 83, 118). [from wikipedia]
Andrew Gerzso has for many years been the composer’s chief collaborator on works involving live electronics and the two men regularly discuss their work together. He describes the way in which all the nuances in this nucleus of works were examined in the studio in order to find out which elements could be electronically processed and differentiated. As a result, the process of expanding these works is based not only on abstract structural considerations (such as the questions as to how it may be possible to use electronic procedures to spatialize and to merge or separate specific complexes of sound),but also on concrete considerations bound up with performing practice: in a word, on the way in which the instrument’s technical possibilities may be developed along figurative lines.
IMHO, it is quite clear that the electroacoustic is limited to “dress” the instrumental part, albeit with effects well made. Anthème II is not a real electroacoustic composition and even a revision of the original. But it’s really helpful to students. See also this good page from IRCAM: Anthème & Anthème II and this one with Max patches.
Infine, qui potete ascoltare l’epico cambio di nota del 2006 a 8:36 in questa clip audio. L’ultimo è stato nel 2013 e il prossimo è atteso per il 5 settembre 2020.
Luc Ferrari – Petite symphonie intuitive pour une paysage de printemps (1973-74)
A review by Blue Gene Tyranny
A lovely work of electro-acoustic music by one of the French pioneers of musique concrète, “Petite Symphonie Intuitive Pour un Paysage de Printemps” (“Little Intuitive Symphony for a Spring Landscape”) recreates the composer’s experiences during a climb toward sunset on the Causse Méjean, a high plateau in the Massif Central, including his recollection of a shepherd’s flute and its reverberations across the landscape. The flute sounds and multiple echoes continue in changing musical modes throughout the piece (the tonic redefined by electronic drones), blending together with sounds of the countryside and conversational fragments from the human presence to create a beautiful sonic landscape of 25 minutes duration.
In questo post, la storia di Nabaztag è tratta da Wikipedia, con qualche nota del sottoscritto.
La parola Nabaztag (“նապաստակ” che in lingua armena significa coniglio), indica il coniglio wifi ideato da Rafi Haladjian e Olivier Mével e prodotto, nel 2005 dalla compagnia francese Violet.
Alto 23 centimetri, per un peso di 418 grammi, dispone di svariate abilità, tra le quali dare le previsioni del tempo, declamare le ore, segnalare eventuali messaggi di posta elettronica e illuminarsi per mezzo di LED colorati, muovendo le orecchie e pronunciando imprevedibili battute. Può inoltre riprodurre messaggi testuali ed MP3. Con il passare del tempo altri svariati servizi sono stati implementati. È inoltre scomparsa la distinzione tra servizi base e servizi su abbonamento, anch’essi divenuti gratuiti. Esistono anche dei servizi sviluppati dagli stessi utenti (musica, notizie, curiosità) denominati “Nabcast”.
L’oggetto, venduto a partire da giugno 2005, alla fine di ottobre 2006 aveva raggiunto i 35.000 esemplari nella sola Francia. A fine 2006 viene introdotto un modello più avanzato, il Nabaztag:tag che supporta lo streaming mp3 via internet, ha un microfono per ricevere comandi vocali e un lettore di RFID con tag personalizzati per ricevere comandi. Questo modello, inoltre, è dotato di tecnologia PULL, ossia può interrogare il server di propria iniziativa. A settembre 2007 sono presenti più di 180.000 Nabaztag in tutto il mondo.
Il 20 ottobre 2009 Violet, in difficoltà per una gestione dissennata, è acquistata dal noto software publisher Mindscape che immette sul mercato un modello ancora più avanzato chiamato Karotz con webcam e maggiori capacità di memoria. Ben presto, però, anche quest’ultimo entra in crisi. Il 29 luglio 2011 Mindscape comunica lo spegnimento dei server di gestione di Nabaztag creando in un solo colpo 180.000 orfani, ma rende pubblico il codice per la gestione dei “coniglietti” multimediali, rendendo possibile a diverse comunità utenti di creare dei nuovi server. Comunque, le varie comunità utente hanno privilegiato soluzioni alternative, basate sui progetti Opensource OpenJabNab, Nabizdead e OpenNag, più semplici da implementare dell’originale server (denominato “burrow”, con riferimento alle tane dei conigli selvatici) Violet/Mindscape ma privi del supporto per le vecchie unità Nabaztag di prima generazione. Le comunità utente sorte nell’immediata chiusura del server “ufficiale” supportano infatti i soli Nabaztag:tag.
In seguito Mindscape è acquisita da Aldebaran Robotics, azienda specializzata in robot giocattolo ed amatoriali, che vende ad esaurimento le scorte di Karotz senza sviluppare il prodotto, malgrado esso avesse incorporati e ben visibili evidenti agganci per accessori ed estensioni. Infine, con un annuncio scioccante del suo CEO comunica lo spegnimento dei server dei Karotz per il 18 febbraio 2015 segnando, così, la fine del progetto la cui esistenza resta affidata ai server amatoriali.
Dalla creazione di Nabaztag, Antoine Schmitt ne è il designer comportamentale e Jean-Jacques Birgé il designer sonoro. Insieme, hanno anche composto l’Opera Nabaz’mob per 100 conigli tra loro comunicanti, che ha vinto il Prix Ars Electronica Award of Distinction Digital Musics 2009 e di cui si può vedere un estratto in questo video.
Il video in questa pagina è un estratto più breve, ma l’audio è migliore.
The orchestra consists of 12 robotic manipulators of various designs, each of which is equipped with a sound-transmitting speaker. The manipulators, combined together, form a single multi-channel electronic sound orchestra. Due to constant displacement speakers in space, changing direction of the sound and the algorithms for generating compositions, the orchestra creates a dynamic soundscape. In order to interact with the orchestra, controller Leap Motion is used, that allows to control robots and sound by simple hands gestures in the air – similarly to conducting an orchestra.
The project is based on the idea of a combination of modern music, computer, interactive and robotic concepts and approaches for the creation of works of art. In many ways, it is inspired by well-known works that were presented in the recent past, such as Pendulum Choir (2011) and Mendelssohn Effektorium (2013). However, Nayral Ro is different from these projects in many ways. Its algorithmic system, in which sound and musical composition are being produced, is real time, and the acoustic environment also changes simultaneously with the process of creating the musical piece. Also, the whole process is completely subordinated by the “conductor”, so this a role is similar to such of a composer, performer and operator at the same time.
Creation of more sophisticated versions, more subtly revealing the potential of Leap Motion for tuning to the movement and changes in sound, is being planned for the future development.
Questa splendida e inusuale macchina sonora è stata progettata e costruita dal media-artist russo Dmitry Morozov (aka ::vtol::).
The Metaphase Sound Machine is a kind of homage to the ideas of the American physicist Nick Herbert who in the 1970s has created both Metaphase Typewriter and Quantum Metaphone (a speech synthesizer). These were some of the first attempts to put the phenomenon of quantum entanglement in practice and one of the first steps towards the creation of a quantum computer. The experimental devices, however, had not confirmed theoretical research, and Herbert’s obsession with metaphysics resulted in the publication of several of his works on the metaphysical in quantum physics, that have led to a serious loss of interest to the ideas of quantum communication. One day, in a course of his experiments, Herbert has hacked into an university computer trying to establish a contact with the spirit of illusionist Harry Houdini at the day of the centenary of his birth.
In his device Herbert in order to achieve a quantum entangled state used as a source radioactive thallium, which was controlled by the Geiger radiation counter. The time interval between pulses was chosen as conversion code. Several psychics had participated in the experiments. They tried to influence the endless stream of random anagrams arising from a typewriter or cause “the ghost voice” to be heard out of metaphone. Scientists also have conducted sessions to bring about the “spirit” of a colleague who had recently died, and who knew about this typewriter. In 1985 Herbert wrote a book about metaphysical in physics. In general, his invention and articles quite severely compromised the ideas of quantum communication in the eyes of potential researchers and by the end of the XX century no any substantial progress in this direction was observed.
The Metaphase Sound Machine is an object with 6 rotating disks. Each of the discs is equipped with acoustic sound source (a speaker) and a microphone. Each of the microphones is connected via computer and the rotary axis to the speakers on the disks. Also in the center of installation a Geiger-Mueller counter is set, that detects ionizing radiation in the surrounding area. The intervals between these particles influence rotation velocity of each of the disks. Essentially the object is an audio- and kinetic installation in which a sound is synthesized based on feedbacks, produced by microphones and speakers on rotating discs. Feedback whistles are used as triggers for more complex sound synthesis. Additional harmonic signal processing, as well as the volatility of the dynamic system, lead to the endless variations of sound. The form of the object refers to the generally accepted symbolic notation of quantum entanglement as a biphoton – crossing discs of the orbits.
Tempo Reale Festival 2012
RUMORE ROSA Il paesaggio delle voci
MUSICA COMUNISTA
Salvatore Miele, coordinamento e live electronics
Francesco Casciaro, oggetti sensibili e live electronics
Daniela Cattivelli, campionatore e live electronics
Andrea Gozzi, chitarra elettrica e live electronics
Damiano Meaccii, regia del suono
Cornelius Cardew
Treatise, per ensemble elettroacustico
(prima esecuzione a Firenze)
Un altro brano corale di Murray Schafer con una bella partitura grafica.
Epitaph for Moonlight (1968), for youth choir with optional bells.
Roanoke College Choir, Jeffrey Sandborg director.
It is a free composition in which the singers must improvise from given indications of pitch, intensity and duration. To accompany the voices there is a selection of instruments as desired: glockenspiels, metallophones, vibraphones, triangles, bells, cymbals. The vibrations from these instruments, when used carefully, produced luminous effects that are evocative of moonlight reflecting on water. The score is written graphically and so does not require a knowledge of conventional musical notation.
R. Murray Schafer – Snowforms (1982) – for treble choir
The text consists of inuit words for various kinds of snow : apingaut , first snowfall; mauyk, soft snow; akelrorak , drifting snow ; pokaktok , snow like salt.
Notes from the composer:
In 1971 I flew the polar route from Europe to Vancouver over Greenland. Clear weather provided an excellent opportunity to study the forms of that spectacular and terrifying geography. Immediately, I had an idea for a symphonic work in which sustained bulks of sound would be fractured by occasional splinters of colour. That experience remains clear in memory. It suggested the orchestral textures of “North/White” and it returns now to shape “Snowforms”, yet very differently, for my memory of the vast foldings of Arctic snow has been modified by the experience of passing winters in Ontario. Often on a winter day I have broken off from other work to study the snow from my farmhouse window, and it is the memory of these forms which has suggested most of the continuous horizon of “Snowforms “.
Sometimes I have given children ‘sight-singing’ exercises in which they are asked to ‘sing’ drawings or the shapes of the distant horizon. Snowforms began as a series of sketches of snowdrifts, seen out the window of my Monteagle Valley farmhouse. I took these sketches and traced a pentagram over them. The notes of the pieced emerged wherever the lines of the sketch and the stave crossed. Of course I modified the drawings as necessary since the work is primarily a piece of music and only secondarily a set of sketches. I printed the work so that the shapes of the snow were in white over a pale blue background.
The entire piece is soft, and I wanted the voices to slide from note to note just like falling or drifting snow. Snowforms is related to Epitaph for Moonlight, Miniwanka and Sun ; they are all descriptions of nature. Later I was to add Fire, A Garden of Bells and Once on a Windy Night as further celebrations of natural phenomena. As the urban populations of the world grow, the forces and charms of nature are more distanced from increasing numbers of people. But I do not write such works out of nostalgia; they are a very real part of my life. Snowforms was actually preceded by a much more complex work of the same name which was performed once by the Vancouver Chamber Choir, but I am glad I withdrew it, substituting this simpler and purer expression of one of nature’s most beautiful elements.
Notes from co-conductors :
This 20 th century monument of treble choral literature was written in 1982 by the imaginative, highly respected, internationally praised composer, R. Murray Schafer. Watching from his farmhouse window in Ontario , Schafer was intrigued by the various shapes, forms, and ever-changing, soft foldings of snow. From these observations came the inspiration to write Snowforms. Using graphic notation, he asks singers to sing ‘shapes’ or ‘drawings’ which are representations of snow forms on the distant horizon. Schafer’s graphic notation is augmented by suggested pitches and the voices are asked to ‘glide’ from one pitch to another in a continuous portamento. A time log is written in the score to suggest durations but Schafer is quite specific that conductors should not feel ‘enslaved’ by the timed suggestions. Although it was written for two part treble chorus, there are a few times within the score when each of the two parts split into four independent lines. Except for the occasional interjection of words which mean various types of ‘snow’ in the Inuit language the entire piece is hummed thereby giving a sense of smoothness and peaceful quietness or hush. Challenges for the conductor are to find gestures that suggest and mirror the contours that are found within the score. Challenges for the singers are to believe the piece will ‘work’ and to trust the instincts and imagination of not only the composer and conductor but also of themselves. Snowforms is a remarkable work that fascinates listeners but more importantly encourages collaboration and exchange of ideas between conductors and singers. It encourages performers to create music beyond the bounds of a traditional score with very satisfying results. – DL
Barry Truax – Arras (1980) – for four computer-synthesized soundtracks
Author’s notes:
Arras refers metaphorically to the heavy wall hanging or tapestry originally produced in the French town of the same name. The threads running through the material form both a background and, when coloured, a foreground pattern as well, even when they are the same thread. In the piece there is a constant ambiguity between whether a component sound is heard as part of the background texture, or whether it is heard as a foreground event because, in fact, the frequencies are the same. The listener can easily be drawn into the internal complexity of the constantly shifting pattern, but at the same time can sense the overall flow of the entire structure.
Arras is a continuously evolving texture based on a fusion of harmonic and inharmonic spectra. The large-scale structure of the piece follows a pattern of harmonic change going from closely spaced odd harmonics through to widely spaced harmonics towards the end. Each harmonic timbre is paired with an inharmonic one with which it shares specific harmonics, and with which it overlaps after each twenty-five second interval. This harmonic/inharmonic structure forms a background against which specific events are poised: shorter events, specific high pitches which otherwise would be imbedded in the overall timbre, and some percussive events. However, all frequencies found in the foreground events are the same as those in the background texture; hence the constant ambiguity between them.
Arras received an honourable mention in the computer music category of the 1980 International Competition of Electroacoustic Music sponsored by the G.M.E.B. in Bourges, France.
Arras is available on the Cambridge Street Records CD Pacific Rim, and the RCI Anthology of Canadian Electroacoustic Music.
Barry Truax – Androgyny (1978) – a spatial environment with four computer-synthesized soundtracks
Author’s notes:
Androgyny explores the theme of its title in the abstract world of pure sound. The piece, however, is not programmatic; instead, the dramatic form of the piece has been derived from the nature of the sound material itself. In this case, the sound construction is based on ideas about an acoustic polarity, namely “harmonic” and “inharmonic,” or alternatively, “consonance” and “dissonance.” These concepts are not opposed, but instead, are related in ways that show that a continuum exists between them, such as in the middle of the piece when harmonic timbres slowly “pull apart” and become increasingly dissonant at the peak intensity of the work. At that point a deep harmonic 60 Hz drone enters, similar to the opening section, but now reinforced an octave lower, and leads the piece through to a peaceful conclusion. High above the drone are heard inharmonic bell-like timbres which are tuned to the same fundamental pitch as the harmonic drone, a technique used throughout the work with deeper bells.
The work is designed to sound different spatially when heard on headphones. Through the use of small binaural time delays, instead of intensity differences, the sounds are localized outside the head when heard through headphones. Various spatial movements can also be detected, such as the circular movement of the drones in the last section of the piece.
Although not intended to be programmatic, the work still has environmental images associated with it, namely those suggested by the I Ching hexagram number 62, Preponderance of the Small, with a changing line to number 31, Wooing. The reading describes a mountain, a masculine image, hollowed out at the top to enclose a lake, a feminine image. The two exist as a unity. Thunder is heard close by, clouds race past without giving rain, and a bird soars high but returns to earth.
Androgyny is available on the Melbourne album Androgyne and the Cambridge Street Records CD, SFU 40.
Production Note:
The work was realized with the composer’s POD6 and POD7 programs for computer sound synthesis and composition at Simon Fraser University. All the component sounds are examples of frequency modulation (FM) synthesis, generated in binaural stereo, with time differences between channels. However, considerable analog mixing in the Sonic Research Studio at Simon Fraser University produced the resulting complex work.
Streams of wireless data surge from internet exchanges and cellphone relays, flowing from routers to our devices and back again. This saturation of data has become a ubiquitous part of modern life, yet it is completely invisible to us. What would it mean to develop an additional sense which makes us continuously attuned to the invisible data topographies that pervade the city streets?
Phantom Terrains is an experimental platform which aims to answer this question by translating the characteristics of wireless networks into sound. By streaming this signal to a pair of hearing aids, the listener is able to hear the changing landscapes of data that surround them. Network identifiers, data rates and encryption modes are translated into sonic parameters, with familiar networks becoming recognizable by their auditory representations.
The project challenges the notion of assistive hearing technology as a prosthetic, re-imagining it as an enhancement that can surpass the ability of normal human hearing. By using an audio interface to communicate data feeds rather than a visual one, Phantom Terrains explores hearing as a platform for augmented reality that can immerse us in continuous, dynamic streams of data.
Below the map is an audio recording of part of the same walk, as heard through the Phantom Terrains sonification interface. The sound of each network is heard originating from the router’s geographical location, producing clicks whose frequency rises with the signal strength — akin to a layered series of Geiger counters. Routers with particularly strong signals “sing” their network name (SSID), with pitch corresponding to the broadcast channel, and a lower sound denoting the network’s security mode.
In questa composizione di John Lely per violoncello solo, l’esecutore esegue un lunghissimo glissando su una sola corda, dal capotasto fino al ponte, esercitando una leggera pressione per ottenere gli armonici, da cui il titolo The Harmonics of Real Strings (2006/2013). Nel CD edito da Another Timbre si possono ascoltare quattro versioni del brano, una per ciascuna corda del violoncello. L’esecutore è Anton Lukoszevieze.
C’è anche questa versione di Matthew Reid che è abbastanza interessante. Reid ha eseguito il brano filtrando il microfono con un equalizzatore regolato in modo da rinforzare le frequenze di risonanza della stanza. Di conseguenza si è prodotto un feedback.
La registrazione è stata poi passata in Autotune che ha intonato tutti i feedback, sia il bordone del secondo movimento che i vari suoni del terzo. In un certo senso è una versione elettroacustica del brano.
La popolarità di John Cage ormai ha raggiunto livelli impensabili. Ecco 4’33” eseguito da Infestation, una brutal death metal band. I commenti su You Tube sono pochi, ma favorevoli e anch’io trovo sia un’esecuzione ben fatta.
Invisible Cities (2013) è un’opera di Christopher Cerrone, compositore e librettista, ispirata alle Città Invisibili di Calvino, pubblicato nel 1972.
La fruizione è inusuale. Il palcoscenico è la storica Union Station di Los Angeles. Non c’è separazione fra gli strumentisti, i danzatori, i cantanti e il pubblico: tutti si aggirano per la stazione e il pubblico può ascoltare la musica dovunque, essendo dotato di cuffie wireless (il main sponsor è Sennheiser). E devo dire che ambientare quello che, sia pure solo in superficie, è un racconto di viaggi in un luogo deputato ai viaggi è una bella idea.
Perché l’opera narra, appunto, il racconto di Marco Polo a Kublai Khan. I suoi viaggi e le favolose città che ha visto: alcune reali, altre frutto dell’immaginazione. Città di desiderio, di segni, e di memoria.
La musica è semplice, quasi minimalista, di quella tipica tonalità americana che, grazie alla ripetizione, annulla il dramma tonale per diventare quasi drone music (ma si può anche sentirvi la netta influenza di Escalator Over The Hill di cui potete leggere fra i collegamenti, sotto). Nel player, qui sotto, potete ascoltarne una parte, ma il modo migliore per farsi un’idea è andare sull’apposita pagina dove si possono vedere dei video ad alta risoluzione, girati nella Union Station, con audio molto buono.
Note dal sito dell’autore:
The music of Invisible Cities is the result of my first collision with Calvino’s extraordinary novel. For years I had been unable to bridge categories of music, thinking that a work could be either lyrical or conceptually rigorous, but not both. Calvino’s novel, however, is both a tightly structured mathematical work, yet also opens with the gorgeous line:
“In the lives of emperors there is a moment which follows pride in the boundless extension of the territories we have conquered, and the melancholy and relief of knowing we shall soon give up any thought of knowing and understanding them.”
After reading that sentence—so pregnant with meaning, lyricism, mood—I immediately began composing. I imagined the sound of a unearthly resonant and gong-like prepared piano, the ringing of bells, and wind players gently blowing air through their instruments. All of this would support a lyrical and deep voiced Kublai Khan who is slow moving and sings with gravitas. I imagined there would be two women, two high sopranos, who always sing together in harmony: they would be the musical personification of the cities that pervade the novel. And of course, our Italian explorer would be a tenor, light and quick moving, melismatic, and deft.
As with Calvino, there are many formally derived components to my opera. The orchestra is split into two (left and right) halves which alternate melodies to create the whole. The left part is associated Marco Polo, the right is associated with Kublai Khan. And the opera is structured as formally as the novel, always alternating Polo and the Khan’s conversations with Polo’s stories of le città.
To borrow a term from of one of Calvino’s favorite writers, Jorge Luis Borges, Invisible Cities is a garden of forking paths. As the work progresses, you might find yourself wandering back to the same place in Union Station again and again only to find new things happening each time. In the same way, the same few musical ideas of Invisible Cities are revisited again and again, just from vastly different perspectives. As we grow and evolve, the same objects in our lives can acquire such different meanings. That above else governs what Invisible Cities is about: how our memories change as we get older, how our map of the world gets larger, and how our past is always being changed by our ever-shifting present.
Venerdì 19 dicembre si parlerà a Riva del Garda del rapporto tra musica ed architettura nell’ultimo appuntamento del ciclo “Incontri di analisi e composizione”, organizzati ogni anno dalla sezione staccata del Conservatorio “Bonporti”.
Nel prima parte del pomeriggio, alle ore 16.00, si terrà una tavola rotonda dedicata all’istituzione di un Centro studi e documentazione musica/architettura presso la sede staccata di Riva del Garda del Conservatorio di musica “F.A.Bonporti” di Trento. All’incontro parteciperanno i docenti Franco Ballardini, Simonetta Bungaro, Massimo Priori, Marco Russo (Università di lettere di Trento), Corrado Ruzza (moderatore), Anna Vildera e Alberto Winterle (presidente dell’ordine degli architetti di Trento).
Il Centro si prefigge di svolgere attività di ricerca, divulgazione, formazione, documentazione e catalogazione sulle relazioni tra musica e architettura nelle diversificate manifestazioni che le due discipline hanno proposto e sviluppato, e ricercare possibili nuovi sviluppi. L’intenzione è quella di creare un punto di riferimento per gli studiosi, gli studenti, gli insegnanti, gli architetti, i compositori, e tutti coloro che intendono approfondire questo ambito d’indagine, ossia lo studio delle relazioni tra musica e architettura nei vari periodi storici, con riferimento alle teorie architettoniche, musicologiche e compositive, con il fine di mettere in luce le analogie, accostamenti, interrelazioni, e sinergie. Un’attenzione è posta anche alla tematica dell’acustica architettonica, alle relazioni tra spazio fisico e sonoro, e di come questa sinergia abbia condizionato la composizione musicale e l’architettura.
A seguire, alle ore 19.00, si terrà un concerto a tema con musiche strumentali ed elettroacustiche create tenendo presente il rapporto tra musica ed architettura. I compositori Emanuela Ballio, Cosimo Colazzo, Mauro Graziani, Luca Richelli, Massimo Priori, J. C. Risset e Francesco Schweizer presenteranno le loro opere grazie all’esecuzione di Daniel Roscia al clarinetto, lo stesso Schweizer al pianoforte e l’ensemble To B. E. 2 – To Blow Electricity.
BEASTmulch is an AHRC (Arts & Humanities Research Council) funded research project exploring approaches to large-scale multichannel electroacoustic composition and presentation, lead by Scott Wilson along with Jonty Harrison and Sergio Luque at the University of Birmingham.
BEASTmulch System is a software tool for the presentation of electroacoustic music over multichannel systems. Designed primarily with a classic ‘live diffusion’ model in mind, it is nevertheless flexible enough to be adapted for a number of purposes, and can support input and output configurations of arbitrary complexity (i.e. live inputs, soundfiles with varying numbers of channels, etc.).
The software has numerous features (e.g. realtime reconfigurable routing, channel processing, automation, etc.), incorporates various standard and non-standard spatialisation techniques (VBAP, ambisonics, etc.), and adapts easily to both small and large (i.e. > 100 loudspeakers) systems.
BEASTmulch System is the software component of the BEAST concert system.
System Requirements: Mac OSX 10.4 – 10.5 (10.6 compatibility forthcoming).
BEASTmulchLib is a SuperCollider class library designed for use in the creation, processing and presentation of complex multichannel signal chains. Objects include sources, matrix routers and mixers, and sound processors and spatialisers. The latter are based on a simple user-extensible plugin architecture. Many classes have elegant GUI representations.
The library also includes classes which represent a variety of different controllers, including MIDI controllers, GUI Faders, EtherSense, etc., and provides support for controller automation (i.e automated mixing and diffusion).
It supports a number of common spatialisation techniques, such as Ambisonics, and includes SC ports of Ville Pullki’s Vector Base Amplitude Panning (VBAP), and the Loris analysis resynthesis method. It also supports some idiosyncratic techniques, such as Spatial Swarm Granulation, and provides utility classes for Speaker Array balancing and visualisation.
Currently the library is not fully cross-platform: GUI classes and UGens are OSX only.
Questo film, è stato girato nel 1973 da Gérard Patris per la Zweite Deutsche Fernsehen (Seconda Televisione Tedesca) nel corso delle prove e delle esecuzioni di alcune opere di Stockhausen per i Recontres Internationales de Musique Contemporaine di Metz.
Si possono vedere estratti di Trans, Mikrophonie I, Zyklus, Refrain, Kontakte, Am Himmel Wandre Ich, Ceylon con la partecipazione e la direzione dall’autore.
Il film è in tedesco, comunque le parti musicali costituiscono la maggior parte del film e sono interessanti anche per chi non capisce la lingua.
SoundCloud ha pubblicato un post commemorativo per il 25mo della caduta del muro di Berlino.
Dal punto di vista musicale non è particolarmente significativo (è un collage di suoni e citazioni), ma probabilmente non era questo lo scopo. Il post, invece ha alcuni elementi interessanti sotto il profilo formale. Innanzitutto la durata: 7 minuti e 32 secondi è il tempo impiegato dal suono per percorrere i 155 km della lunghezza del muro. Poi i commenti, che sono 107, ciascuno con il nome di una persona morta nel tentativo di oltrepassare il muro (dovrebbero essere 120, forse qualcuno è collettivo).
Marking the 25th anniversary of the fall of the Berlin Wall.
The Berlin Wall of Sound is an acoustic reconstruction of the Berlin Wall.
Its duration of 7:32 minutes reflects the time sound needs to travel the 155 kilometres length of the Berlin Wall. Its sound wave’s shape mirrors the wall of concrete and its watchtowers. There are no comments – the tags depict the victims and mark where they were killed.
The Wall of Sound is not easy to bear. But 27 years locked behind the concrete Berlin Wall were unbearable.
Back in 1989, SoundCloud’s headquarters would have been part of the Death Zone next to the Berlin Wall. We dedicate the Wall of Sound to the 120 women, men and children, who lost their lives in their attempt to live in freedom. We will not forget.
Major original quotes used:
Walter Ulbricht (former leader of the GDR and responsible for the construction) saying a few days before the construction started: „Nobody has the intention to raise a wall“
Heinz Hoffmann (former GDR secretary of defense): „To those, who don’t respect our border – they will feel the bullet.“
Erich Honecker (longtime and most powerful leader of the GDR) celebrating 40 Years of the GDR in 1989: „The German Democratic Republic will exist another 40 years and beyond.“
Alla fine, comunque, devo dire che, se da un lato un muro che cade fa sempre piacere, non concordo con la retorica semplicistica che circonda queste commemorazioni, secondo la quale noi abbiamo la libertà mentre loro erano un regime oppressivo.
Il Requiem elettroacustico di Michel Chion è del 1973 (non 1993 come riporta erroneamente il video su You Tube qui sotto).
Quando l’ho ascoltato (sarà stato il 1977/78), mi ha fatto una notevole impressione. È un lavoro che ridefinisce completamente i canoni della musica concreta francese. Li supera con l’uso massiccio di sonorità puramente elettroniche a cui sono accostati suoni naturali, loop concreti e frammenti musicali, spesso trattati elettronicamente in modo evidente, ma soprattutto voci recitanti con modalità fra loro diverse: intense, sussurrate, urlanti, lontane, in coro, fino a una voce di bambino che legge, con qualche esitazione, una parte del testo.
È un’opera drammatica e intensa, emozionale, che va molto al di là del puro esercizio compositivo.
Note dell’autore:
The Form of this music was not meant as an excuse to deploy refined geometry over a time frame seen as space. And if Requiem as a whole is built on a system of echoes and correspondences that seem to be symmetrically organized (see graphism) around an axis represented by the work’s middle point, it is not my fault. The form was developed in the course of the process, as a dramatic scheme that played off the listener’s memory and premonitions, since once the listener has heard the work more than once, they can predict as well as recall. The musical analysis I came to perform, and of which I am disclosing a few pieces here, I did long after composing the work and for my own enjoyment. It should be understood as a game, not as the Key of Dreams, and it is surely not essential.
Echoes and correspondences of what ? Themes, musical motives, ranging from the most elemental (a loop, raw matter) to the most elaborated (a musical development), and which are reprised, quoted or announced at various moments of the work – some are easily identifiable as “leitmotivs” (theme-chorus from the Dies Irae quoted in the finale), while others are accompanying motives, matter that does not need to be memorized at a conscious level. An extreme case of such echo effect is found in the short movements 2 & 9, which use almost the same “music” cast under completely opposite sound lighting.
The centre of the work, the axis of that symmetry, is the 6th movement (Evangile), where happens a symbolical tear in the magnetic tape, a crack in the work itself, opening in the timeline a breach of eternity that lets us glimpse “something else.” This figure illustrates that breach as a sawtooh line, while the vertical line illustrates the pasted point, the moment (at the beginning of Sanctus) when the mass itself, like a broken reel of film at the cinema show, resumes. Within this large form in two parts, we find the small forms of each movement: forms with choruses and episodes, litanies, recitativo, levelled crescendos, etc. There is also another formal course delineated by the succession of several vocal characters, their timbre, intonation, and relation to the libretto. Without giving more details, it is worth mentioning that the only time a well-assured, peremptory voice is clearly heard is, once again, at that central moment in Evangile (“il va ressusciter” or “he will rise”), where its irruption seems to spread panic throughout the whole system and provoke the breach…
Like the great requiems of the classical era, this Requiem’s text is taken from the Funeral Mass, to which are added an Epistle, a Gospel and a Pater Noster. The texts are mostly said in their original language (Latin or Greek) and in French, in some rare cases.
The Requiem was composed whilst thinking about the troubled minority of the living, rather than the silent majority of the dead. Also, I tried to turn this oratorio into a “great sonic show,” cinemascope music. One can detect the obvious (at least to me) influence of a few filmmakers and films, more in the way of playing with forms, time and space, than through realistic evocations. Thomas Mann’s Docteur Faustus was another influence, again acknowledged after the fact; the pages spent describing the imaginary works of Adrian Leverkühn might have inspired the megalomaniac dream of carrying bits and pieces of them into the sound world. With Requiem, my intention was not to deliver a message or a manifesto, whether pro- or anti-religious. Instead, this work is a personal testimony, into which listeners are invited to project their own self, if they care to inhabit it with their own experience and sensibility.
Sam Salem (n. 1982) è un compositore di Manchester che lavora principalmente in area acusmatica e audio/video.
È principalmente interessato ai suoni degli ambienti urbani. Molte delle sue composizioni si focalizzano sui suoni di luoghi specifici, ciò nonostante la sua musica non ha niente a che fare con l’ambient. Invece Salem esplora l’ambiente sonoro cercando di rivelare la musicalità nascosta nei suoni ambientali. In questo senso i suoi lavori vanno al di là del semplice paesaggio sonoro.
Quello che ascoltiamo qui, Too late, too far è del 2014. Note dell’autore:
Too late, too far is part of a larger work entitled The Fall, composed between 2012 and 2014. The compositional process began during a residency at STEIM in December 2011: Amsterdam was the source from which I collected the materials for this piece.
I think now of the unwitting owners of actions contained herein: the cyclists and joggers of Vondelpark, the man on a bridge who offered a bike for a cigarette, the swans calling across the Red Light District, the choir of Sint-Nicolassbasiliek, and the countless others, long since dispersed but not forgotten: shouting, singing, laughing, swearing, clapping. I think also of the creaks and rhythms of rocking boats, of passing trams, the ubiquitous bells and horns, the rain, wind and lapping water, and the 5am fireworks on New Year’s Day. I consider these materials as fragments of sound, but also, now, as fragments of time. Sometimes their shimmering light is obscured, sometimes it is revealed.
This work, “peopled by bad dreams” (and the occasional good one), balances somewhere between loss and hope: after more than two years of work, this is its final character.
Ok. Dimenticate il titolo aulico. Quello di cui parliamo è un fenomeno scientifico che comunque ha anche dei risvolti audio e ci offre l’occasione di parlare di una delle più affascinanti missioni spaziali degli ultimi anni.
Rosetta è una missione spaziale sviluppata dall’Agenzia Spaziale Europea e lanciata nel 2004. L’obiettivo ultimo della missione è lo studio della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, una cometa periodica che ritorna ogni 6.45 anni terrestri.
La missione è formata da due elementi: la sonda vera e propria Rosetta e il lander Philae. Quest’ultimo è destinato a staccarsi dalla sonda e atterrare sul nucleo della cometa, di cui la sonda ha già inviato splendide foto. Il distacco è avvenuto proprio oggi 12/11 e il lander sta scendendo verso il nucleo (incrociamo le dita).
La parte audio della faccenda è questa. Ovviamente la sonda trasporta molti strumenti per studiare da vicino la cometa. Cinque di questi costituiscono il cosiddetto Rosetta’s Plasma Consortium (RPC) e servono a studiare l’ambiente di plasma che circonda la cometa (il plasma è uno stato della materia che appare come un gas elettricamente conduttivo che circonda i campi magnetici e le correnti elettriche).
Già in Agosto, l’RPC ha scoperto che il campo magnetico della cometa ha una oscillazione con frequenza intorno ai 40-50 millihertz. Ora, qualsiasi oscillazione più o meno periodica può essere trasformata in suono. In questo caso il problema è che la frequenza è troppo bassa per essere udibile. Le frequenze più basse che siamo in grado di percepire stanno intorno a 20 Hz, mentre qui abbiamo a che fare con 0.05 Hz.
Il problema si può risolvere trasponendo (ovvero accelerando) il tutto di circa 10000 volte. Così 0.05 Hz diventano 500 Hz che sono perfettamente ascoltabili e il suono che ne esce è questo:
Ecco un’immagine del nucleo della cometa (il piccolo 747 che vedete al centro non è alieno; è lì per confronto; clicca per ingrandire)
Una nota finale. Prima di delirare con toni mistici intorno al canto della cometa, rendetevi conto che qualsiasi fenomeno periodico può essere convertito in suono. Per esempio, la rotazione terrestre è periodica. Il giorno solare medio dura circa 24 ore, cioè 86400 secondi. Di conseguenza. dato che la frequenza è l’inverso del periodo, esso ha una frequenza di 0.000011574 Hz, troppo bassa per sentirla, ma basta trasporla di 24 ottave per avere circa 194.18 Hz, che corrispondono a una nota perfettamente udibile: un Sol appena calante (con La = 440 Hz).
Musica pilotata dai raggi cosmici. Non è una rarità. Ogni tanto qualcuno fa esperimenti del genere. Effettivamente, da quando note e frequenze possono essere espresse numericamente e inviate agli algoritmi di sintesi, la cosa non è così complessa: bisogna solo scegliere come riscalare i dati di partenza.
Da alcuni anni questi procedimenti hanno anche assunto una valenza scientifica con il nome di sonification. La trasformazione di dati di qualsiasi tipo in audio, infatti, consente di individuare più facilmente schemi ripetuti, differenze e altre caratteristiche del fenomeno su cui si indaga.
Ovviamente, dal punto di vista compositivo la faccenda assume tutto un altro aspetto. Il fenomeno fisico che origina i dati non si preoccupa minimamente di assumere un andamento che per noi possa essere sensato o significativo. Anzi, di solito il risultato è ripetitivo, noioso e monotono (spesso anche monotòno, nel senso matematico che indica movimento sempre verso la stessa direzione, per es. una curva logaritmica che sale o scende sempre approssimando un limite).
Il Kosmophono di cui parliamo è abbastanza “anziano”, essendo in attività almeno dal 2005 (sito). Si tratta di uno spettrometro a raggi gamma che opera nel range di 3-7 MeV, il cui output viene inviato al MIDI IN di un sintetizzatore.
Una breve spiegazione. La maggior parte dei raggi gamma è prodotta da fenomeni extra-solari (nello spazio lontano) di grande potenza. Le onde prodotte da tali fenomeni non sono audio (altrimenti non arriverebbero fin qui), ma fanno parte dello spettro elettromagnetico (come le onde radio e la luce che vediamo). Inoltre ne occupano la parte più bassa in termini di lunghezza d’onda (< 0.006 nanometri = 6 millesimi di milionesimo di millimetro), che equivale alle frequenze più alte, circa 5×1019 Hz e sono anche molto dannose per noi.
Fortunatamente, non arrivano fino al suolo ma si infrangono sugli strati alti dell’atmosfera e sono queste collisioni che lo spettrometro rileva. Ognuno di questi eventi produce una emissione di energia che viene misurata e convertita da un ADC a 12 bit di cui i 7 più alti vengono utilizzati come pitch MIDI e i 4 seguenti come velocity (l’ultimo bit si butta via).
Il player è un sintetizzatore MIDI, di solito un Roland JX-305 o un Alesis QSR.
Ora si può ascoltare una singola sequenza inviata al Roland. Essendo una sequenza singola è monofonica e piuttosto noiosa, però serve per capire il range e la densità degli eventi. È un MP3.
Percettivamente, le cose cambiano quando si sovrappongono due sequenze. La sovrapposizione non è in tempo reale. Semplicemente vengono mandate alla porta MIDI due sequenze salvate in tempi diversi (una è la sequenza precedente). Ne consegue che le due sequenze sono del tutto scorrelate, però è interessante notare che il nostro sistema percettivo (almeno quello di chi è abituato ad ascoltare un certo tipo di musica contemporanea) tende a fabbricare delle correlazioni. In effetti, complice anche il fatto che qui si utilizzano due timbri diversi, questo frammento è più interessante del precedente.
Un’altra sovrapposizione di varie sequenze a cui sono assegnati diversi timbri, ma tutti riconducibili a suono “biologici” (uccelli, insetti, miagolii, etc). Il risultato è decisamente piacevole perché tutti i suoni ricadono in una ben determinata tipologia e il nostro cervello ha gioco facile nel costruire delle connessioni e interpretare il tutto come un paesaggio sonoro abbastanza coerente.
EAnalysis è un software per Mac creato specificamente per l’analisi e la rappresentazione di sound based music, ovvero la musica elettroacustica.
Ecco, ad esempio, come è possibile rappresentare parte di tre brani di François Bayle: L’oiseau moqueur, L’oiseau triste e L’oiseau zen tratti dai Trois rêves d’oiseau.
In ogni schermata possiamo vedere il sonogramma e la forma d’onda in basso, mentre nella parte superiore viene creata una rappresentazione grafica degli eventi sonori. Questa rappresentazione non è automatica, però il software dispone di strumenti individuare e marcare gli eventi sonori (in pratica una forma di segmentazione). Inoltre può importare dati da altri software come Sonic Visualiser, Audiosculpt, Acousmographe, Pro Tools, etc. (click image to enlarge)
Att.ne: la versione attuale non funziona con Yosemite (come, del resto, gran parte del Mac).
Altre informazioni riportate sul sito:
Research and development: Dr Pierre Couprie. Coordination: Prof Simon Emmerson & Prof Leigh Landy
The development of EAnalysis is part of the research project entitled ‘New multimedia tools for electroacoustic music analysis’ at the MTI Research Centre of De Montfort University (Leicester, UK). The project is funded by the Arts and Humanities Research Council (AHRC).
This piece of software aims at experimenting new types of graphic representations and new analytical methods with an intuitive interface and adapted tools for analysis purposes.
Features
Visualise sonogram (linear or logarithmic) and waveform.
Import several audio and/or movie files to analyse multitrack works or compare different works.
Create beautiful representations with graphic events on different layers.
Analyse with analytical events and sound/musical parameters.
Create your own analytical lists of parameters and share them.
Annotate during playback with time text.
Use graphic tablet or interactive whiteboard to draw representation.
Use several types of views in the same interface.
Create charts and maps from sound extracts: paradigmatic chart, generative tree, soundscape map, etc.
Create synchronised slideshow.
Create layers of sonograms from several tracks to analyse space motions, difference between versions of same work, or different works.
Save configurations (snapshots).
Import data from other software like Sonic Visualiser, Audiosculpt, Acousmographe, etc.
Import Pro Tools information sessions and create graphic representation from sound clips.
Export to images, movies, and text files (txt, csv, xml, json).
Export without media to share analysis without copyright restrictions.
Questo post è la revisione di uno del 2006. Mi sembra che, essendo Myers non molto noto, sia il caso di parlarne ancora.
David Lee Myers è un compositore che si trova nella scomoda situazione di essere sconosciuto al grande pubblico perché non fa “pop” e sconosciuto agli accademici perché i suoi lavori non si inseriscono nella tradizione “colta”. Però è conosciuto dagli sperimentatori a oltranza, da quelli che non si accontentano di ri-elaborare delle idee maturate nell’ambito di una corrente, quelli un po’ scontenti e un po’ solitari che regolarmente disfano quello che hanno appena fatto per il gusto di ricominciare da capo.
Nel 1988 affermava che
True electronic music does not imitate the classical orchestra or lend well worn melodies the cloak of unexpected timbres – it exists to evoke the hitherto unknown. And it comes from circuits and wires, though I do not believe that electronic sound is “unnatural”, as some people might.
La vera musica elettronica non imita l’orchestra classica e non presta un mantello di timbri inattesi a melodie ben formate – essa esiste per evocare ciò che fino ad ora è sconosciuto. E nasce da circuiti e cavi, ciò nonostante io non credo che il suono elettronico sia così “innaturale” come qualcuno pensa.
Proprio queste considerazioni hanno condotto D. L. Myers alla pratica di una musica estrema, quasi totalmente priva di input: niente partitura, nessuna tastiera, nessun suono da elaborare, nessun sistema di sintesi propriamente detto. Una musica in cui sia i suoni che le strutture non nascono dalla pressione di un tasto o dal fatto che qualcuno mette giù un accordo, ma dall’interazione spontanea di una serie di circuiti collegati fra loro in retroazione che l’essere umano si limita a controllare.
Al massimo l’input viene utilizzato solo come sorgente di eccitazione per il circuito di feedback.
Quello che Myers faceva, già nel 1987 con apparecchiature analogiche, era feedback music.
Il feedback positivo in una catena elettroacustica è stato sperimentato, con fastidio, da chiunque abbia usato un microfono e lo abbia inavvertitamente puntato verso gli altoparlanti. In breve si produce un fischio lancinante, mentre i tecnici si lanciano verso il mixer per abbassare il volume.
Questo problema, più conosciuto come Effetto Larsen, si verifica perché il microfono capta dei suoni che vengono amplificati e inviati all’altoparlante. Se gli stessi suoni, in uscita dall’altoparlante, vengono nuovamente captati dal microfono, amplificati e ri-inviati all’altoparlante, si crea una retroazione positiva tale per cui entrano in un circolo chiuso in cui vengono continuamente amplificati fino ad innescare un segnale continuo a forte volume.
Come si può immaginare, il feedback è un po’ il terrore di tutti i tecnici del suono, ma in determinate circostanze può essere controllato e se può essere controllato, può anche diventare uno stimolo per uno sperimentatore.
Bisogna puntualizzare che non si tratta di una idea di Myers. Ai tempi della musica elettronica analogica questo effetto è stato utilizzato in parecchi contesti. Anch’io ne ho fatto uso in una installazione del 1981 (si chiamava “Feedback Driver”, appunto), ma credo che negli anni ’80 l’abbiano provato un po’ tutti, con alterni risultati. I miei primi ricordi relativi a questa tecnica risalgono al lavoro di Tod Dockstader, un ricercatore e musicista americano relativamente poco noto, anche se alcune sue musiche sono finite nel Satyricon di Fellini.
Quello che distingue Myers dagli altri, però, è l’averne fatto una vera e propria poetica. Lui non sfrutta il feedback per elaborare qualcosa, non parte da algoritmi di sintesi, ma collega in retroazione una serie di dispositivi (principalmente mixer e multi-effetti) e variando i volumi sul mixer (che a questo punto diventa la sua “tastiera”) e cambiando tipo e profondità degli effetti ne trae una serie di sonorità suggestive, sempre in bilico fra il fascino di una musica che si muove in modo quasi biologico e il totale disastro delle macchine fuori controllo.
Senza dubbio, Myers è un virtuoso, ma, a differenza del virtuoso tradizionalmente inteso, lui non domina il proprio strumento. Piuttosto lo asseconda, cercando di spingerlo in una direzione. Qui la composizione consiste nel definire una rete di collegamenti fra i dispositivi e la tecnica si fa estetica.
Inoltre, come si vede in questo breve video, Myers si fa anche artista visuale elaborando una serie di tracce create dalla sua stessa musica.
Per ricordare David Wessel, scomparso il 13 Ottobre a 73 anni, mettiamo alcune testimonianze.
Per primo, il suo brano del 1977, Anthony.
In realtà Wessel è sempre stato un ricercatore più che un compositore, difatti la sua produzione musicale è rara. Anthony è un tipico brano costruito con fasce sonore in dissolvenza incrociata ed è stato uno dei primi pezzi realizzati con le macchine per la sintesi in tempo reale costruite da Peppino Di Giugno all’IRCAM.
Quella utilizzata qui è la 4A del 1975, uno dei primi modelli, il primo ad andare oltre lo stadio di prototipo. Si trattava di un processore capace di generare in tempo reale fino a 256 oscillatori digitali in wavetable (cioè con forma d’onda memorizzata e quindi con contenuto armonico definito dall’utente) con relativo inviluppo di ampiezza. Nonostante il fatto che gli oscillatori non si potessero connettere fra loro, era un passo avanti notevole per quegli anni perché, con i sistemi analogici dell’epoca, era già difficile arrivare a 10 oscillatori (per maggiori particolari vedi le voci 4A e Giuseppe Di Giugno sul blog di Alex Di Nunzio).
Se da punto di vista quantitativo la 4A era un grande passo avanti, la qualità del suono era limitata dal fatto che non si potevano realizzare dei metodi di sintesi a spettro sonoro variabile (per es. con filtri o modulazione di frequenza), se non ricorrendo all’additiva. In Anthony, Wessel aggira questo limite evitando una caratterizzazione melodica del materiale sonoro, affidandosi, invece, a grandi cluster in lenta mutazione armonica.
Att.ne: il brano inizia molto piano. Inoltre con gli altoparlantini del computer ne sentite metà.
Un secondo contributo video riguarda l’attività di David Wessel come ricercatore interessato principalmente all’interazione uomo – macchina, tanto che nel 1985 aveva fondato all’IRCAM un dipartimento di ricerca dedicato allo sviluppo di software musicale interattivo.
Qui viene mostrato lo SLAB, uno dispositivo di controllo composto da una serie di touch pad sensibili alla posizione e alla pressione. Ogni pad trasmette al computer informazioni relative alla posizione xy del dito che lo preme e alla pressione esercitata. Il flusso di dati è ethernet, non MIDI, per cui le misure sono accurate e la risposta è veloce (questa storia del superamento del MIDI ce la porteremo dietro per la vita; per citare Philip Dick, la cavalletta ci opprime). Maggiori dati tecnici sullo SLAB, qui. Per gli impazienti, nel video la performance inizia a 2:40.
Per gli amanti del vintage, ecco la Uppsala Analog Synthesizer Symphonic Orchestra (UASSO). La musica è a tratti banale e nostalgica, ma il suono è quello di una volta. Un po’ più di coraggio non guasterebbe. Con tutti quei synth si può fare l’iraddiddio.
Gli strumenti con relativi strumentisti sono:
Front row:
* Erik Möller – Conductor
* Mario Pierro – Roland Juno 60, Roland SH-101
* Johan Runeson – Roland Jupiter 6
* Hans Möller – Korg Polysix
* Lisa Ulfves – Moog Rogue
* Glenn Liljestrand – Yamaha CS-5
* Kristofer Ulfves – Moog Prodigy, TR-606
Middle row:
* Peter Heerdt – ARP Odyssey
* Måns Sjöstrand – Roland MC-202
* Marcus Mohall – SH-2000
* Maja Stoltz Pierro – Jen SX-1000
* Dan Wistedt – Roland JX-3P
* Per Melander – Roland SH-09
* Tomas Bodén – Korg MS-20
* Olof Liliengren – Korg Mono/Poly
Back row:
* Håkan Lidbo – MC-202
* Daniel Araya – Pearl Syncussion, TB-303, TR-606
* Magnus Danielsson – EMS Synthi A
* Jon Nensén – Serge
* Andreas Tilliander – MS-20
* Jens Kallback – MS-10
Treasury of curiosities’ is a dream-state wandering through a sonic wunderkammer, a collection of curios, oddities, freaks, gems, and objects of wonder and beauty, a display intended to provide access to non-familiar listening experiences. Although divided into separate tracks, it is meant to be listened to as one continuous piece.
This is the work from the mind of John Hanes (composing, percussion) who is also a drummer when he’s not making electronic music. He also had the help of friends Cary Sheldon (voice) and John Schott (guitar) to produce this disconcerting and amusing album.
Sto esplorando alcune produzioni di Julien Bayle (aka Protofuse). Abbastanza giovane (b. 1976, Marsiglia). Studi di biologia, informatica, forse musica. In quest’ultima spazia dalla techno all’ambient. In effetti ha iniziato come DJ Techno per passare, poi, ad Ableton, Max for Live e Max6 [notizie da wikipedia]. Si occupa anche di installazioni audio-visuali via Max + Jitter.
Musica di Julien Bayle si può ascoltare qui. Ecco un brano: void propagate #2
Ed ecco una immagine tratta da una installazione recente: Disrupt!on (2014) realizzata con Max6, OSC, OpenGL, Network connection.
Dato che, come autore, spazia fra vari generi, alcune cose possono piacere, altre no, ma il suo è sicuramente un sito da visitare.
PS: mi sto anche chiedendo se non abbia qualcosa a che fare con François Bayle…
C’è del fascino nella poetica degli oggetti trovati…
DbN take old cassette tapes found on flea markets and thrift stores and use them as raw material in fully live improvised electronic music performances.
The found tapes are sampled, manipulated, processed and ”physically played” using granular synthesis and other techniques, to create obscure rhythmical structures, noises and drones.
For each and every concert DbN use only cassette tapes found locally within the city or the area of the specific concert venue, making the raw material for every performance totally unique.
The audience is encouraged to bring their own cassette tapes to the venue for use in the performance.
La Webbed Hand Records è una netlabel che ha un interessante catalogo nell’area ambient, drone ed elettroacustica di confine, cioè sperimentale, ma non troppo accademica.
Il tutto pubblicato in CC, quindi liberamente scaricabile in formato mp3. In effetti sarebbe carino che le produzioni si potessero anche acquistare in formato non compresso, come fanno altre netlabel, ma probabilmente, visto anche il tipo di produzioni, il mercato non sarebbe sufficiente a giustificare gli oneri derivanti dalla vendita.
Cardew Ensemble è una formazione nata con lo scopo di rivisitare in chiave elettroacustica le composizioni aperte tipiche degli anni ’60/’70, in primis il Treatise di Cornelius Cardew di cui potete ascoltare qui le pagine da 1 a 14.
La formazione è:
Nicola Baroni (cello and Max/MSP)
Carlo Benzi (synth and Max/MSP)
Mauro Graziani (Max/MSP)
Massimiliano Messieri (toys percussion and Max/MSP)
Una delle non molte composizioni di Steve Reich e di tutta la minimal music che mi piacciono veramente.
Per me, il problema del minimalismo è che si basa su una idea che non ha mai avuto un vero sviluppo. In altre parole, questa musica si basa essenzialmente sulla sovrapposizione di pattern che, nel tempo, possono
cambiare melodicamente, per esempio sostituendo via via le note (Glass) o invertendo note e pause (Reich)
cambiare ritmicamente, introducendo, ogni tanto, una mutazione nelle figurazioni
cambiare timbricamente, sostituendo gradualmente i gruppi strumentali che eseguono i vari pattern
sfasarsi temporalmente accelerando o rallentando il metro (a volte usando metronomi diversi fin dall’inizio)
Non mi sembra ci siano altri espedienti e a mio avviso, il tutto diventa estremamente prevedibile. Ciò non toglie che, a volte, il risultato possa essere affascinante e coinvolgente, ma non si può continuare per una vita così.
Il primo movimento di Sud di J.C. Risset, è un bell’esempio di composizione elettroacustica che sfrutta ed elabora alcuni elementi del paesaggio sonoro che, ad onta delle immagini del video, è quello della Francia meridionale (NB: il video non ha niente a che fare con il brano).
La composizione è del 1985. Qui abbiamo solo la prima sezione. Più sotto, le note di copertina
The first movement of Sud may be perceived as a sequence of soundscapes and sonic fields represented as the subsections shown in figure I below. Transitions between subsections are characterised by subtle transformations of character and juxtaposition of extrinsic identities, as discussed below. The various subsections cohere into sections that suggest a general construction plan for the movement.
The first section (0’00 – 2’49) presents the sonic subjects of the movement, indeed many of the subjects of the composition. It is dominated by mimetic discourse and the manipulation of environmental soundscapes. The transition between sections I and II is the only instance within Sud in which an abrupt interruption is perceived. This pause creates expectation regarding the continuation of the musical discourse. The previous development suggested a sequence of soundscapes clearly connected with extrinsic identities. The second section (2’49 – 5’44) then presents a sequence of sonic fields that suggest extrinsic identities only at the level of basic structures, being dominated by an aural discourse. The identification of relationships between Gestalten occurs in a much less direct way, inviting the listener to penetrate the abstract world devised by the composer with a different approach. The third section (5’44 – 9’45) marks a return to the manipulation of environmental soundscapes, being characterised by a balance between mimetic and aural discourses.
…ma non per sfizio o per una qualche sfida artistica, ma proprio perché questi non possono fare altro.
E non si tratta di strumenti etnici, ma di strumenti della tradizione occidentale che quindi si misurano con il suono di quelli costruiti da fior di liutai. A sentire il violoncello che ha come cassa armonica un bidone, il risultato mi sembra fin troppo buono.
Quando un compositore ci lascia a 103 anni continuando a lavorare fino a pochi mesi dalla morte (la sua ultima composizione è datata 2012), dopo aver composto per più di 80 anni (il primo brano comunemente ricordato, un lieder, è del 1928 e sicuramente non è il primo) non è il caso di essere tristi. Sono sicuro che quasi tutti ci metteremmo la firma.
Elliott Carter (1908 – 2012) era l’ultimo dei grandi C della musica americana del 900, gli altri essendo Aaron Copland (1900 – 1990), Henry Cowell (1897 – 1965) e John Cage (1912 – 1992), contemporanei e tutti molto importanti nel panorama della musica del ‘900.
Carter, nella sua lunga carriera, è stato capace di rinnovarsi. Dopo una fase iniziale neoclassica, influenzata da Stravinsky, Harris, Copland, e Hindemith, si è dato all’atonalità negli anni ’50, pur senza mai accogliere il serialismo. Ha invece sviluppato in modo indipendente una tecnica compositiva basata sulla catalogazione di tutti i possibili gruppi di altezze, ovvero degli accordi di 3 note, di 4, di 5, di 6 note, etc, basando, poi, le proprie composizioni su questi insiemi. Per esempio, il Concerto per Piano del 1964-65 deriva le proprie altezze dall’insieme degli accordi di 3 note, il Quartetto del 1971 è costruito su accordi di 4 note, la Sinfonia di Tre Orchestre, che qui ascoltiamo, si basa su accordi di 6 note e così via. Tipicamente, ad ogni sezione strumentale viene assegnato un insieme di altezze in una stratificazione del materiale.
In Carter, il concetto di stratificazione informa anche la gestione del ritmo: ogni voce strumentale ha un proprio insieme di tempi realizzando, così, una poliritmia strutturale.
Il titolo di questo brano del 1976, Sinfonia di Tre Orchestre e non per Tre Orchestre, deriva proprio dal fatto che, sebbene il brano sia diviso in 4 movimenti di carattere diverso, come è tradizione, ciascun movimento è formato da tre movimenti parzialmente sovrapposti, uno per ciascuna orchestra.
Inoltre, la composizione strumentale delle tre orchestre è fortemente differenziata: in pratica si tratta di una sola orchestra divisa in tre gruppi. La prima è formata da ottoni, archi e timpani; la seconda da clarinetti, piano, vibrafono, chimes, marimba, primi violini, contrabbassi e violoncelli; la terza da flauti, oboi, fagotti, corni, secondi violini, viole, contrabbassi e percussioni non intonate.
In questa lunga conversazione con Curtis Roads, compositore e musicologo, Max Mathews & John Chowning ripercorrono varie tappe della storia della Computer Music.
A partire dagli anni ’50, Max Mathews ha creato, per primo, una serie di software che hanno permesso all’elaboratore di produrre e controllare il suono: si tratta della serie MUSIC I, II, III … fino al MUSIC V, largamente utilizzato, fra gli altri da Jean Claude Risset per sintetizzare alcuni famosi brani degli anni ’70, ma soprattutto per fare ricerca e rendere palesi le possibilità offerte dall’audio digitale.
John Chowning, percussionista, compositore e ricercatore, è invece noto come l’inventore della modulazione di frequenza (FM) per la sintesi del suono, tecnica sviluppata negli anni ’70 e poi ceduta a Yamaha che l’applicò in una lunga serie di sintetizzatori commerciali fra cui il DX7 (1983) che resta tuttora il synth più venduto nella storia.
Il video include anche una performance della pianista Chryssie Nanou che esegue Duet for One Pianist di J. C. Risset, in cui il pianista suona un pianoforte a coda Yamaha dotato di MIDI controller e duetta con un computer che “ascolta” l’esecuzione e a sua volta invia comandi MIDI allo stesso strumento i cui tasti iniziano ad abbassarsi da soli in un 4 mani con fantasma.
De Natura Sonorum è un titolo decisamente abusato nella musica contemporanea. Questa volta parliamo di un brano elettroacustico di Bernard Parmegiani composto nel 1975. Un pezzo che a me piace molto, almeno la prima parte, tutta giocata su pochi suoni montati in molti modi diversi.
The first series is made up of five movements, most of which bring electronic and instrumental sounds, and less often concrete ones, into relation, generally in couples.
lncidents/Resonances brings sympathetic resonances of concrete sound events with processes that allow variable continuousness (prolongation of sound) of electronic sources into controlled play. The “incidents” arc opposed to punctual “accidents” of the second movement.
Accidentals/Harmonics often very brief events of instrumental origin arc brought in to modify the harmonic timbre from the continuum that they undercut or on which they are superposed. Elsewhere, the placing with pitches reduced to a minimum creates a zone of attention to other phenomena generally masked by the melodic form applied to the instrumental play.
A Geological sonority resembles flying over a landscape in which the different “sound’ levels will emerge on the surface one after the other. Electronic and instrumental sounds become confused in fusion, seen from such a height
Dynamic of the resonance is a microphonic exploration of a single sound body that is made to resonate by means of different types of percussion
Elastic study juxtaposes sounds coming from the different “playing” of elastic of instrument skins (gold-beaters skin, zarb) and vibrating strings and different instrumental gestures analogous to this “playing:’ but created by the use of electronic generators of white noise.
Timbre conjugations last movement of this series uses the same material to apply rhythmic forms on a continuum of which the timbre is in continual variation
The second series falls back on electronic and concrete means whilst the instrumental sources only appear in a fleeting way.
lncidences/pulsations is a son of recall of the first movement and leads very rapidly to
Ephemeral nature interplay of short-lived instrumental and electronic sounds rather more individualised by the form of the internal trajectory than the material itself.
Induced matter just as molecular effervescence creates transformations of state, it would appear that the different stages of the sound material’s states here are products of each other, as if by induction
Intermixed wavelengths the audible vibrations of pizz interfere with the waves that we imagine “visible” like water droplets on a surface of the same material,
Full and free can he listened to as a study of the damped energies of bodies set into motion then rebounding. Such are the hollow “bubbles’ and the points bringing into relationship the heaviness of some, and the very fine movements of others,
Points versus fields here we have the idea of perspective of different sound themes that weave a sort of field network. imprison the repeated punctuated elements of the foreground and absorb them progressively so as to give free reign to the fields and melodic sound that opens out.
Claus-Steffen Mahnkopf (1962), compositore tedesco, è generalmente associato con il movimento della Nuova Complessità, il cui esponente principale è Brian Ferneyhough, con cui Mahnkopf ha studiato.
Le sue opere sono fortemente legate al linguaggio dell’avanguardia, tanto da teorizzare la nascita di una seconda scuola di Darmstadt, ma la sua musica affonda le proprie radici nella tradizione germanica, fino a Berg e Beethoven.
Solitude-Sérénade, del 1997, per piccolo oboe e Ensemble (2 Vla., Cb., Gtar., Hp., Perc), è la rielaborazione di un precedente brano solistico: Solitude-Nocturne del 1993 (Solitude si riferisce al Castello Solitude vicino a Stoccarda).
Qualche giorno fa, il 10, se ne è andato Lol Coxhill. Io ero impegnato in un corso estivo in un luogo ameno fuori dal mondo e anche dalla rete, per cui ne scrivo solo adesso.
Coxhill era un sassofonista che mi piaceva perché la sua musica non aveva confini. Sebbene fosse fondamentalmente un improvvisatore di stampo jazzistico, nella sua sterminata discografia ha attraversato vari stili passando e spesso mescolando free jazz, bebop, ma anche musica contemporanea “colta”, free music, elettronica (con Simon Emmerson), rock e punk, Canterbury scene, progressive e blues.
L’album Digswell Duets del 1978, accreditato a Coxhill, Simon Emmerson e Veryan Weston, è stato inserito dalla rivista britannica The Wire nella lista dei 100 album che hanno incendiato il mondo (quando nessuno li ascoltava) (qui l’intera lista).
With Kou Katsuyoshi (guitar), John Edwards (bass), Steve Noble (drums) at Cafe Oto London. 23 November 2009.
Turner (drum set), Coxhill (soprano sax) and Cooper (electronics) play at the Red Rose, London. 6th February 2007.
Max Eastley (self-made instrument – arc), Steve Beresford (electronics), Lol Coxhill (soprano sax) at Battersea Arts Centre week of free improvised music curated by Adam Bohman. 20th February 2010.
Non si cerca la varietà in un brano di Steve Roden.
Anche artista visuale, pittore, scultore, creatore di installazioni, Roden è stato fra i primi esponenti del movimento lowercase, una forma estrema di minimalismo ambientale in cui suoni molto flebili si alternano a lunghi silenzio, Roden si è poi evoluto in uno stile sonoro più continuo, fatto di un drone sottile, quasi granulare, composito, irregolare ma di vasto respiro.
Come in questo 8 Breaths Of Different Lengths, tratto da Three Roots Carved To Look Like Stones edito dalla netlabel francese Sonoris nel 2003.
Ascoltatelo nel silenzio. Non alzate il volume. Note di programma (all’intero disco):
this work was originally an installation presented at inmo gallery, in chinatown/los angeles, december 2000. the work was created using 3 objects purchased at chinatown giftshops: a toy wooden flute, a small aluminum wind chime, a small paper accordion. each track was created using one of these objects as the only sound source. some of the sounds have been processed electronically. the installation was created in response to: the generic sounding ‘muzak’ playing in most of the public spaces of chinatown; the private landscape of chinatown lingering unnoticed in alleys and second floor windows; and, a book on the history of chinese philosopher’s stones. the audio was installed in front of a large picture window facing the chinatown pedestrian area.
Michael Daugherty (n. 28/04/1954) è probabilmente il più interessante fra quei compositori che, memori della lezione post-moderna, includono nelle proprie composizioni diversi stili con citazioni tratte dal pop, dal jazz, come dai classici sia dell’800 che del primo ‘900.
Mi rendo conto che, detta così, fa pensare a una zuppa infame, ma invece Daugherty è un compositore molto preparato, nonché fine orchestratore e anche alle mie orecchie, che pure non amano più di tanto simili commistioni, riesce a risultare, tutto sommato, piacevole.
In realtà Daugherty è attualmente uno dei più eseguiti, commissionati e premiati compositori americani, sicuramente anche perché i suoi brani sono ascoltabili anche da un pubblico più vasto della ristretta cerchia amante della sperimentazione.
Sebbene, a mio avviso, la sua produzione migliore non sia quella orchestrale, qui vi propongo un movimento di Metropolis (1988-93), opera sinfonica in 5 movimenti (eseguibili anche separatamente), dove il riferimento culturale del titolo non è Fritz Lang, ma Superman. Metropolis è, infatti, la città in cui era ambientato il famoso fumetto.
I titoli dei movimenti sono
Lex (1991)
Krypton (1993)
MXYZPTLK (1988)
Oh, Lois (1989)
Red Cape Tango (1993)
L’ultima incisione, diretta da Giancarlo Guerrero con la Nashville Symphony Orchestra è stata fra le nomination in sei categorie ai Grammy Awards del 2011 e ha portato a casa i premi per Best Orchestral Performance, Best Engineered Album e Best Classical Contemporary Composition.
Proprio da questa incisione e grazie a You tube, vi propongo il quinto movimento. Occhio (orecchio) alle citazioni. Una può essere tratta perfino dai Deep Purple (anche se quei tre accordi possono essere qualsiasi cosa, ma sono così simili anche nel tempo…)
Il 2012 è il centenario della nascita di John Cage e il ventennio dalla morte (Los Angeles, 5 settembre 1912 – New York, 12 agosto 1992). Ovviamente le celebrazioni sono molte. Presumibilmente, quasi tutta la sua opera sarà eseguita quest’anno e qualcuno si accorge anche di qualche problema.
Peter Urpeth, nel suo blog silentmoviemusic, ha fatto notare che, probabilmente, uno dei più famosi e caratteristici brani di Cage, Radio Music, composto nel 1956, diventerà ineseguibile a partire dal 2017 e forse la stessa fine farà Imaginary Landscape 4 (e qualche altro brano basato sulla radio). Questi pezzi, infatti, sono scritti per un certo numero di esecutori (da 1 a 8 il primo, 12 il secondo), ognuno munito di una radio. La partitura di Radio Music riporta una lista di frequenze su cui gli apparecchi devono essere sintonizzati nel corso del brano. La lista è indipendente dal luogo e dall’orario dell’esecuzione, per cui ne esce un insieme indeterminato di suoni. Occasionalmente, su qualche frequenza non c’è alcuna trasmissione e quindi si sente il silenzio della radio, fatto di rumore di statica con qualche disturbo casuale.
Il fatto che mette in pericolo Radio Music è lo spegnimento del segnale analogico previsto per il 2017, segnando il passaggio definitivo alle trasmissioni digitali. Le conseguenze sono due:
la statica del digitale è definitivamente silenziosa e anche i disturbi sono molto rari, se non nulli, ma, ancora peggio,
nella radio digitale non ci sono frequenze, ma solo canali, quindi è impossibile sintonizzarsi su una data frequenza e se è vero che ogni transponder lavora su una sua frequenza, quest’ultima non ha niente a che fare con le vecchie frequenze analogiche e ogni transponder corrisponde a un blocco di canali, non a una singola trasmissione.
La partitura, dunque, appare obsoleta rispetto a un recente salto tecnologico. Non è la prima volta che questo accade nella storia della musica. Penso, per esempio, al passaggio dall’arco barocco a quello moderno, o dal clavicembalo al pianoforte, tuttavia, in questi casi, la sostanza del discorso musicale, cioè la successione di altezze, rimaneva e consentiva una nuova interpretazione.
Ci sono, poi, altri casi legati a un salto tecnologico. Nella musica elettronica il passaggio dall’analogico al digitale ha messo in crisi varie partiture. Tuttavia con il digitale si può emulare il 99% di quello che si faceva in analogico, sia pure con qualche differenza, ma che, in fondo, non è più grande di quella provocata dall’abbandono del clavicembalo in favore del pianoforte.
In questo caso, invece, è proprio la sostanza del brano a cambiare e se il suo significato, che consiste nella sovrapposizione casuale di varie sorgenti radiofoniche, può essere riprodotto, vengono a mancare sia una serie di rumori (statica, disturbi, ricerca della sintonia), che quella commistione di trasmissioni normali e di servizio (sistemi di trasporto, emergenze, CB) che un tempo lavoravano con lo stesso medium, ma che ora sono definitivamente separati.
Non credo, comunque, che Cage si sarebbe preoccupato più di tanto della fine di Radio Music, anzi l’avrebbe accolta come un altro passo verso il silenzio, ma il silenzio digitale è troppo perfetto…
Nell’immagine David Tudor e John Cage (click per ingrandire), trovata via johncage.org. Vi riporto anche il bel sito JOHN CAGE unbound: a living archive, creato dalla New York Public Library for the Performing Arts, segnalato da Franz.
Domani, venerdì 22, la mia classe di Musica Elettronica del Conservatorio Bonporti tiene il suo saggio annuale in forma di concerto nella cornice suggestiva di Castel Pietra, a Calliano (prov. Rovereto, in foto).
Si eseguiranno brani del sottoscritto, degli studenti, più un pezzo di Jonathan Harvey, Ricercare una melodia, per tromba e live electronics, di cui abbiamo ricreato il sistema di elaborazione audio con Max/MSP in quanto l’originale utilizzava device ormai obsoleti e un recente brano di Walter Prati per lo stesso organico.
Nella stessa serata anche il TinnitusLab dell’Istituto Vivaldi di Bolzano.
PAESAGGI TIPICI
live audio performance
Castello della Pietra a Calliano (prov. Rovereto)
ore 20.30
ingresso libero
Compositori ed esecutori: Mauro Graziani > Marco Banal > Raffaele Guadagnin > Raul Masu > Marco Simoncini > Mario Mariotti > Jonathan Harvey > Walter Prati.
In questa serata presentiamo la ricerca della Scuola di Musica Elettronica del Conservatorio Bonporti di Trento, giunta ormai al quinto anno di vita. Pur essendo relativamente giovane, con la direzione del docente Mauro Graziani, la Scuola di Musica Elettronica ha prodotto composizioni e ricerche che toccano varie tematiche, spaziando dal paesaggio sonoro, a strumenti acustici elaborati digitalmente in tempo reale fino a lavori acusmatici di sola elettronica. L’elemento unificante di tutti questi brani è la fascinazione sonora, l’esplorazione profonda del tessuto sonoro, fino a svelare il paesaggio che si nasconde all’interno del singolo suono per quanto piccolo. Ogni pezzo è il risultato di improvvisazioni, ricerche e/o stratificazioni di idee, costruzione ed elaborazione di scenari acustici, ma ogni suono, ogni rumore è anche lo spunto per uno sguardo oltre il visibile, oltre il reale.
Questo interessantissimo sistema permette di collegare dei suoni di sintesi alle diverse sonorità generate interagendo in vari modi con una superficie, riprendendole con un microfono a contatto.
Il tutto ideato da Bruno Zamborlin, ricercatore italiano presso l’IRCAM e i Goldsmiths Digital Studios dell’Università di Londra.
Tristan Murail – …amaris et dulcibus aquis… (2004), per coro misto e suoni di sintesi.
Nella prima versione di questo brano erano utilizzati due sintetizzatori DX7 Yamaha che producevano suoni in modulazione di frequenza con componenti microtonali. In questa definitiva stesura sono stati sostituiti da suoni prodotti via computer e memorizzati su hard disk, che vengono fatti partire da un esecutore via tastiera MIDI.
This piece was written for a project initiated by the Internationales Forum Chor Musik, which consisted of commissioning choral works by various European composers on the theme of “pilgrimage to Compostela”. This theme does not necessarily imply a religious dimension, but can be considered as being the symbol of a gathering of different peoples – in particular at the time of European unity. The sung texts are excerpts from the Pilgrims Guide to Santiago de Compostela, an anonymous work from the 12th century that describes the famous Way of Saint James and the stopping points that line the various routes.
It is a sort of Michelin Guide from the Middle Ages, where practical information is placed side by side with religious legends, pious advice and descriptions that are picturesque, but often brimming with prejudice toward the peoples encountered along the route.
Four routes cut across France – traces can still be found today. After crossing the Pyrenees, they come together and form a single route that takes the name of the Camino Francés (the French Way).
Parable of a lifelong quest, the Way of St. James is marvellous and perilous: a person encounters hospitality as well as bandits. The water of certain rivers is good to drink – that of others poisonous: sweet and bitter waters…
The text is sung in the original Latin (the Latin of the Middle Ages that is a bit different from classical Latin). It describes the four routes in France and the Camino Francés in northern Spain, lists the cities that are passed through and warns about perils met on the way.
The choral writing is voluntarily rather simple, because the project consisted of writing for amateurs or semi-professionals. Written for eight mixed voices, the choir is enhanced by two synthesizers that reinforce and complement the harmonies, giving them a microtonal colour.
Barry Truax – Riverrun (1986), musica acusmatica di sintesi in 4 canali.
Recentemente Truax ha prodotto una revisione del brano spazializzato su 8 canali. Qui possiamo ascoltare soltanto l’edizione mixata in stereo disponibile in CD sul sito dell’autore.
Riverrun è realizzato completamente in sintesi granulare, un sistema in cui il suono, anche se sembra continuo, è composto da piccoli grani sonori la cui durata può andare da un centesimo a circa un decimo di secondo. Quando la durata dei grani è lunga (> 50 msec) è più facile distinguerli e quindi si percepisce la natura granulare del suono. Con durate comprese fra i 10 e i 30 msec (da 1 a 3 centesimi di secondo) e con grani parzialmente sovrapposti, invece, la granularità non è percepibile e si ottengono suoni continui.
La sonorità dell’insieme dipende sia dal suono dei singoli grani che dalla loro distribuzione in frequenza. La manipolazione di questi due parametri, oltre alla durata e alla densità, permette di ottenere un vasto spettro sonoro in evoluzione.
L’idea della sintesi granulare risale a Xenakis ed è stata implementata su computer da Curtis Roads nel 1978. Qui alcune note tecniche di Barry Truax.
Nonostante il nome, Bruno Mantovani è un giovane compositore francese (nato nel ’74). Qui vi propongo Time stretch (on Gesualdo), una composizione per orchestra del 2006.
Nota del compositore:
Time stretch (on Gesualdo) ha come punto di partenza uno dei madrigali del 5° libro del compositore italiano, “S’io non miro non moro”.
Ho estratto da questo breve brano per 5 voci un quadro armonico di 130 accordi che ho rielaborato eliminando tutti gli elementi non significativi per l’ascolto (principalmente ottave) e poi ho “stirato” questa griglia sulla durata totale del pezzo per creare un percorso armonico a partire dal quale ho composto.
Se le tensioni dovute al linguaggio cromatico di Gesualdo sono percettibili in questo brano, non si tratta assolutamente di un “pastiche”, di una citazione, ma di un’opera originale dove il riferimento è presente solo in secondo piano.
Indipendentemente dalla struttura armonica, Time stretch rimanda e delle problematiche drammaturgiche sempre presenti in me: la ricerca di una energia costante, i contrasti radicali, le transizioni continue fra episodi conflittuali, ma il discorso è unificato dall’onnipresenza della periodicità ritmica, delle pulsazioni che creano un senso di ordine all’interno di una musica rapsodica.
FaceOSC è un tool per Mac che consente di usare l’espressione facciale rilevata da una webcam come MIDI controller. È stato realizzato da Kyle McDonald e si appoggia sul sistema Osculator, nato per collegare vari tipi di controllers a programmi audio e video.
A mio avviso, queste cose sono solo “giochini”, però lo segnalo perché non dubito che qualcuno che ci crede più di me saprà trovare una qualche applicazione interessante.
Ecco quanto riferisce l’autore, con i link da cui scaricare i software (FaceOSC e Osculator), nonché un breve video
FaceOSC is a tool for prototyping face-based interaction. It’s built on non-commercial open source FaceTracker code from Jason Saragih.
FaceOSC comes as an example app with the ofxFaceTracker addon for openFrameworks. You can download an OSX/Win binary at github.
OSCulator is an excellent program for routing OSC and MIDI. Download it at osculator.net/
Some of the “face gestures” (or metrics) are more stable than others. Lighting can also have a huge influence on the stability of your values: even lighting from the front coupled with a dark background can give the best results.
Audio/Video performance for a tryptic of HD video screens and quadraphonic audio
White Box is a work based on a new way of generating A/V compositions in real time and is a new piece in a cycle that began in 2003 with Black Box. This cycle metaphorically transposes, into sound and images, concepts from systems theory related to black, white and grey boxes.
Visuals: Yan Breuleux
Music: Alain Thibault
Programmers: Jean-Sébastien Rousseau, Peter Dines.
Michael McNabb è sempre stato portatore di una elettronica che definirei “leggera”, il che non significa che non abbia fatto della sperimentazione, anzi, l’ha fatta e spesso anche molto avanzata, ma le sue composizioni non hanno mai abbandonato delle suggestioni post-tonali con funzioni prettamente emozionali.
Qui vi presentiamo Love in the Asylum del 1981, un brano che, al suo apparire, mi aveva colpito per la sua liquidità e per le continue mutazioni del materiale audio. Il pezzo è idealmente diviso in vari movimenti e sottosezioni:
Mad as Birds
illusorio
allegro ridendo
accelerando perpetuamente
Pirouette
vivace
The Magician’s Daughter
inquieto
amoroso
carosello
lontano
Queste le note dell’autore:
Love in the Asylum is a love song to the calculated insanity and spontaneous magic that one must sometimes call upon in order to live in this strange universe of ours. It features an orchestra of familiar instrumental and vocal sounds, new sounds drawn from the imagination, and—perhaps most expressively—sounds that fluidly shift between the two. The work, which critic Paul Lehrman called “one of the most devastatingly beautiful pieces of electronic music I have ever heard”, is built of two psychological layers. Foremost is a layer of cheerful confidence and exuberance, colored and occasionally overpowered by a dark emotional undercurrent of anxiety and psychological imbalance.
All sounds in Love in the Asylum were synthesized except for the laughter and the player calliope music. It includes a number of musical quotations, including quotations from other works of electroacoustic music. The spatial sound paths at the beginning of the first movement are from Turenas (1972) by John Chowning, who was a primary mentor, and influenced McNabb’s decision to specialize in electroacoustic music and performance.
Love in the Asylum premiered on November 2, 1981, at the Monday Evening Concert Series in Los Angeles.
Love in the Asylum has been realized on the Systems Concepts digital synthesizer at the Center for Computer Research in Music and Acoustics (CCRMA) at Stanford University.
L’originale è in quattro canali. Qui ascoltate la riduzione stereo curata dall’autore.
Altra musica e video di McNabb sono disponibili sul suo sito.
Jean Claude Risset – Dialogues (1975), per ensemble e suoni sintetici
In questo brano il compositore cerca di costruire un ponte fra i suoni strumentali e quelli sintetici. Queste due realtà a tratti dialogano, a volte si scontrano, ma i momenti, a mio avviso, più interessanti sono quelli in cui i suoni strumentali e quelli sintetici si fondono creando situazioni ambigue da cui, improvvisamente, emerge un suono chiaramente sintetico o strumentale.
Flauto : Renaud François
Clarinetto : Michel Arrignon
Piano : Carlos Rogue Alsina
Percussioni : Jean-Pierre Drouet
Direttore : Michel Decoust
Suoni sintetici realizzati via computer al Centre Universitaire de Marseille-Luminy.
Un lungo documentario (45′) sulla genesi del concerto per violino e orchestra di Jean Claude Risset denominato Schèmes ed eseguito in prima a Tokyo nel 2007 (Tokyo Symphonic Orchestra, Kazyoshi Akiyama direttore, Mari Kimura violino).
Anna Clyne è una delle figure più interessanti fra i giovani compositori contemporanei. Inglese, nata a Londra nel 1980, ha studiato a Edimburgo, prima di trasferirsi in Canada e infine a New York, dove risiede dal 2002.
Particolarmente interessata all’elettroacustica, qui potete ascoltare Paint Box del 2006, per cello, music box, voice & tape. Altri brani fra i Related Posts.
Pessima giornata il 21 Aprile. All’età di 84 anni si è spento Max Mathews. Non un vero compositore, ma praticamente l’inventore della computer music, avendo ideato e scritto, nel 1957, il primo software che permettesse ad un elaboratore di emettere suoni.
Per raccontarlo con le sue parole:
Computer performance of music was born in 1957 when an IBM 704 in NYC played a 17 second composition on the Music I program which I wrote. The timbres and notes were not inspiring, but the technical breakthrough is still reverberating. Music I led me to Music II through V. A host of others wrote Music 10, Music 360, Music 15, Csound and Cmix. Many exciting pieces are now performed digitally. The IBM 704 and its siblings were strictly studio machines – they were far too slow to synthesize music in real-time. Chowning’s FM algorithms and the advent of fast, inexpensive, digital chips made real-time possible, and equally important, made it affordable.
Starting with the Groove program in 1970, my interests have focused on live performance and what a computer can do to aid a performer. I made a controller, the radio-baton, plus a program, the conductor program, to provide new ways for interpreting and performing traditional scores. In addition to contemporary composers, these proved attractive to soloists as a way of playing orchestral accompaniments. Singers often prefer to play their own accompaniments. Recently I have added improvisational options which make it easy to write compositional algorithms. These can involve precomposed sequences, random functions, and live performance gestures. The algorithms are written in the C language. We have taught a course in this area to Stanford undergraduates for two years. To our happy surprise, the students liked learning and using C. Primarily I believe it gives them a feeling of complete power to command the computer to do anything it is capable of doing.
Eccolo in un video del 2007 mentre ascolta Daisy Bell (A Bycicle Build for Two), eseguita e cantata nel 1961 da un elaboratore IBM 7094 grazie al software di John Kelly, Carol Lockbaum e dello stesso Mathews.
Questo interessante sistema chiamato Orchidée, realizzato all’IRCAM da Grégoire Carpentier and Damien Tardieu con la supervisione del compositore Yan Maresz, è in grado di fornire una o più orchestrazioni di un suono dato.
In pratica, significa che un compositore può arrivare con un suono e farlo analizzare al sistema che poi fornisce varie combinazioni di suoni orchestrali che approssimano la sonorità data.
Un esempio, tratto da quelli forniti dall’IRCAM, dice più di molte parole. Qui potete ascoltare:
Si tratta di Computer Aided Orchestration (orchestrazione assistita) ed è un ulteriore esempio di come il computer possa ormai affiancare il compositore in molte fasi del suo lavoro.
Il sistema si basa su un largo database di suoni orchestrali che sono stati analizzati e catalogati in base a una serie di descrittori sia percettivi (es. brillantezza, ruvidità, presenza, colore, …) che notazionali (strumento, altezza, dinamica, etc).
Un algoritmo genetico individua, poi, varie soluzioni, ognuna ottimizzata rispetto a uno o più descrittori, il che significa che non esiste una soluzione ideale, ma più di una, ciascuna delle quali si avvicina molto ad un aspetto del suono in esame, risuldando, invece, più debole sotto altri aspetti. Per esempio, si potrebbe ottenere un insieme che approssima molto bene il colore del suono, ma non la sua evoluzione. Sta poi al compositore scegliere quella che gli appare più funzionale al proprio contesto compositivo.
Plus-Minus è una partitura indeterminata, notata per un generico ensemble e basata su 7 pagine di materiale musicale in notazione non convenzionale, accoppiate ad altrettante pagine di simboli che suggeriscono come utilizzare i materiali musicali, per un totale di 14 pagine più 6 di spiegazione della simbologia. (in figura una delle pagine di simboli, clicca per allargare)
Ogni pagina di materiali musicali contiene:
7 accordi
6 guppi di note determinati sotto il profilo delle altezze, ma non privi di indicazioni di durata, dinamica e modalità esecutive.
Ciascuna pagina di simboli è accoppiata ad una delle pagina musicali e contiene 53 quadrati, ognuno dei quali è un evento musicale. L’interpretazione dei quadrati e della simbologia in essi contenuta è gerarchica. Ogni quadrato contiene l’indicazione di:
un zentralklang, il suono principale su cui si basa l’evento, che corrisponde a uno dei 7 accordi della pagina musicale collegata.
gli akzidentien che sono indicazioni esecutive applicabili alle ottave, alle durate, alle dinamiche, alle modalità esecutive e al timbro. Tali indicazioni non sono precise, ma, appunto, indicative, tipo breve, medio, lungo, accelerando, ritardando, il più veloce possibile, etc.
le nebennoten, note secondarie che corrispondono ai gruppi da 1 a 6 di ciascuna pagina.
Ciascun quadrato contiene, inoltre, un complesso insieme di simboli che guidano la realizzazione dell’evento sotto il profilo ritmico, dinamico e timbrico.
Nell’applicazione dei simboli, i concetti di crescita e contrazione sono centrali. Su ogni simbolo può essere posta una indicazione numerica (1 cifra) con segno + o – (es. +1, -2, +3, etc) che determina il numero delle ripetizioni di quel simbolo al suo prossimo incontro. Per esempio, il fatto che, nell’evento (il quadrato) attuale, al simbolo del zentralklang è sovrapposto un +1, significa che la prossima volta che si incontrerà quel simbolo, dovrà essere eseguito 2 volte e poi all’incontro successivo 3 volte e così via, fino ad incontrare una eventuale indicazione negativa che ne determina la contrazione, magari fino alla sua scomparsa.
Si generano, così, dei loop in crescita e contrazione che danno vita a figure musicali ripetute, a tratti arcaiche, con modifiche più o meno sottili fra un evento e i successivi e possibilità combinatorie pressoché infinite.
È anche interessante notare come Plus-Minus non sia un brano musicale, ma un progetto, un’idea per sua natura non perfettamente definita e di conseguenza ogni valutazione estetica basata sulla sola partitura sia completamente fuori luogo. Sotto l’aspetto musicale, infatti, Plus-Minus non esiste fino alla sua trascrizione (vorrei quasi dire “implementazione”) ed è solo quest’ultima che può essere valutata in termini di estetica musicale.
Vale anche la pena di ricordare che Stockhausen prescrive la realizzazione completa dell’opera, ovvero di tutti i 53×7 eventi. Cosa che, invece, non si è quasi mai realizzata, sia per la durata che per la complessità del lavoro.
Realizzazione del 2010 ad opera dell’Ives Ensemble.
Takemitsu Toru (武満 徹) – To the Edge of Dream (1983), for guitar and orchestra.
John Williams, guitar
London Sinfonietta/Esa-Pekka Salonen.
A review by Blue Gene Tyranny
This 13-minute work was commissioned by Ichiro Suzuki and the Festival International de Liége held in Belgium. It is scored for an orchestra typical of Debussy (the Romantic period orchestra plus two harps and expanded percussion section), as are most of Takemitsu’s other orchestral works. Takemitsu himself was known as a fine guitarist and much of the decidedly virtuosic writing for the guitar solo is a series of fantastical, dreamy interpretations of traditionally “typical” guitar gestures (various kinds of strumming, triplet-feel Dowland-like dances, various arpeggios); but the primary idea is a series of complex harmonic variations on the e-minor seventh chord which is heard, at forte level, at the guitar’s first entrance in the piece. The rich lower open E-string sound implies the richly resonant harmonics that form the basis of the subtly shifting tone colors in the work. Takemitsu layers timbres in dense textures, like Webern or Schoenberg, or creates fleeting passages where densely harmonized lines occur in rhythmic unison among several instruments (for example, the shimmering tutti figures for two harps, celesta, vibraphone and glockenspiel in the fourth measure of the introduction). As a whole, the piece seems to proceed from conscious gestures “to the edge of dream” – after the final extended cadenza for the guitar, the orchestra enters with a brief yet stunning coda built of string section harmonics alternating with otherworldly chords played by a double harp/ celesta / vibraphone / triangle / woodwind / trumpet combination, the whole forming a fragmented event horizon of consciousness.
Avrete sicuramente notato che gli ultimi post sono dedicati al Giappone. Fare una piccola rassegna della musica contemporanea giapponese è un modo per essere vicino a questo paese, in cui sono stato e che ho amato, e alla sua gente.
Hosokawa Toshio è uno dei più interessanti compositori contemporanei giapponesi. Nato nel 1955 a Hiroshima, ha studiato in Germania, per cui la sua musica ha assunto delle sonorità marcatamente europee, ma, nel contempo, non ha dimenticato la tradizione del suo paese, come dimostrano i suoi brani derivati dal Gagaku di cui abbiamo già parlato.
Qui ascoltiamo Ans Meer del 1999, un concerto per piano e orchestra, che appartiene al versante più “occidentale” della sua produzione.
Su You Tube c’è un bel documentario sulla musica da film scritta da Toru Takemitsu, una parte molto importante e significativa della sua produzione.
Il documentario è sottotitolato in inglese e include varie interviste con il compositore e con alcuni dei famosi registi per cui ha lavorato, oltre a numerosi estratti musicali.
Questa è la prima parte. I link alle altre sono riportati sotto. Purtroppo la parte 2 è stata bloccata dal solito idiota “per motivi di copyright”, ma tutte le altre sono visibili.
In Telemusik, composto e realizzato in Giappone su commissione della NHK, Stockhausen intende integrare degli elementi musicali ideati da diverse civiltà, in qualsiasi epoca storica e in qualunque luogo.
Detta così, si potrebbe pensare che quest’opera sia una specie di collage, ma invece il risultato sonoro è lontanissimo da una forma del genere. Ascoltando Telemusik, si sentono, invece, degli eventi sonori apparentemente elettronici, difficilmente riconducibili alla musica tradizionale.
Il fatto è che qui Stockhausen utilizza largamente il modulatore ad anello (ring modulator), un sistema in grado di modificare radicalmente il timbro, ma anche la melodia e il ritmo di un evento sonoro.
Il profano può considerarlo come un “distorsore” estremamente controllabile, con cui è possibile intervenire sui vari parametri del suono in base alle onde con cui l’evento sonoro in input viene modulato. Stockhausen utilizza, per esempio, la modulazione ritmica in cui una musica assume in parte gli accenti e il ritmo di un’altra, oppure la modulazione armonica in cui un suono elettronico si muove interagendo con le altezze di una musica registrata, o ancora la modulazione in ampiezza dove il volume di una musica cambia seguendo il profilo di ampiezza di un’altra.
Il risultato è un affresco elettronico derivato dalle musiche di tutto il mondo, che, però, non risultano sensibili come tali, ma danno vita a suoni spesso permeati dalla qualità timbrica tipica delle trasmissioni in onde corte (la radio, in effetti, utilizza un processo analogo).
Il compositore Aldo Clementi, ultimo rappresentante della scuola italiana storica insieme a personaggi come Maderna, Berio, Nono, Donatoni, è deceduto il 3 Marzo all’età di 86 anni.
Superando il serialismo e lo strutturalismo, Clementi ha elaborato una metodologia compositiva basata su brevi frammenti, spesso diatonici, a volte storici, la cui pregnanza melodica, però, viene annullata da una stratificazione massiccia in forma canonica, con trasposizioni e variazioni metronomiche, fino a formare un flusso sonoro continuo.
Qui potete ascoltare la Fantasia su roBErto FABbriCiAni (1980/81), per flauto e nastro magnetico, basata su un materiale ridotto, una serie composta dalle note tratte dal nome dell’esecutore: SIb, MI, FA, LA, SIb, DO, LA.
In questo brano, uno dei due lavori di Clementi a cui ho avuto il piacere di collaborare realizzando la parte elettronica, il flauto, suonato dal vivo, emerge, con discrezione, da un magma sonoro creato dalla sovrapposizione di quattro frammenti registrati dal flauto e sovrapposti più volte, via computer, con trasposizioni anche microtonali.
Aldo Clementi – Fantasia su roBErto FABbriCiAni (1980/81), per flauto e nastro magnetico.
Roberto Fabbriciani, flauto
Nastro realizzato da Mauro Graziani presso il CSC Un. di Padova.
Beam Drop (1984/2008) is a large-scale sculpture on the top of a hill, made of 71 structural beams dropped by crane from a height of 45 meters into a pit of wet cement over a 12-hour period. The random pattern of the fallen beams formed the piece, making this work an interpretation of the gestural aspects of Abstract Expressionism and a simultaneous deconstruction of modern sculpture. It is the recreation on a larger scale of a work originally installed in 1984 for Art Park in the state of New York and destroyed in 1987.
Rui Gato and Hiraku Suzuki viewed Burden’s work one day in Brazil, returned the next day with a field recorder and began to extract sounds from it. Though broken up into seven tracks, Beam Drop is one recording of an improvisation by Gato and Suzuki in a limited time frame as a bus waited for them in the distance. If one listens carefully you can hear the artists talk about how and what they are creating as well as cries of amazement as different sounds are drawn out of the sculpture. Gato and Suzuki’s beam drop is exciting for me as it is filled with the childhood innocence of banging pans on the kitchen floor.
They say:
The Beam Drop sculpture is a very powerful experience.
This recording is the result of our very short and fast contact with the Beam Drop. Both of us were immediately attracted to the sonic dimension of this work, during the visit to the Inhotim Centre.
We found the sculpture at different moments in the first day, and agreed to go back the next day and try to get some music out of it, and record it.
We did it in one continuous take, due to time limitations of the visit (everybody was waiting for us to get back to the bus), and we are glad it was so.
It is presented to you unedited, only with 7 divisions that seem logic and natural to us when listening.
Solo Pour Deux (1981) di Grisey, per clarinetto e trombone, incarna l’essenzialità della concezione compositiva spettrale e in questo senso è didattico.
Come il titolo suggerisce, i due strumenti (monofonici) non creano contrasti o linee melodiche contrappuntistiche, ma concorrono a creare la sonorità di questo brano lavorando l’uno sugli armonici dell’altro (tipicamente il clarinetto su quelli del trombone, per forza di cose). Sono in due, ma, nella maggior parte dei casi, creano un’unica linea, spesso sovrapponendosi, ma a volte l’uno continua riducendo o espandendo una nota dell’altro.
Sotto l’aspetto dell’idea compositiva (ma solo in quello), il pezzo è vicino al Ko-Lho per flauto e clarinetto di (o attribuito a) Giacinto Scelsi del 1966, che potete ascoltare qui, soprattutto al secondo movimento, in cui i due strumenti, più che duettare, si compenetrano.
Presumibilmente gli interpreti sono Ernesto Molinari al clarinetto e Uwe Dierksen al trombone.
Milton Babbitt non era fra i miei compositori preferiti, ma ne riconosco l’indubbia importanza come pioniere. Ha incarnato il serialismo integrale post weberniano negli USA ed è stato uno dei primi a credere seriamente nella musica elettroacustica fin dagli anni ’50. Qui abbiamo le Occasional Variations, scritte fra il 1968 e il ’71 per il sintetizzatore Mark II della RCA (vedi anche il Synth Museum), una macchina ancora analogica, ma la prima ad essere programmabile via nastro perforato.
Born in 1916 in Philadelphia Pennsylvania, has been one of the most prominent musical figures of the 20th century. His pioneering work with electronic tape, synthesized sounds, and his development of serial composition have established an essential place for him in musical history. As composer, writer, and teacher, he has greatly influenced the most important composers of his time, as well as created controversy, challenging his audience to rethink their very definition of music, and the relationship between a creative artist and his public.
Babbitt studied violin, clarinet, and saxophone as a child, but wished to follow his father’s footsteps and become a mathematician. He began his studies in math at the University of Pennsylvania, but soon felt a pull towards music as a career, these aspirations taking him to New York University where he studied composition, becoming very interested in the twelve-tone music. His studies then took him to Princeton University where he was a student of Roger Sessions.
He soon developed his own method of composing with the twelve-tone techniques of the Second Viennese School. In addition to pitch, he arranged other musical elements into a series, such as dynamics and rhythm, creating a “total serialism.” That and the introduction of other complex mathematical principals result in a dense and highly textured music. His innovations invited the attention of musicians, composers, and historians around the world, although these “complex, advanced, and problematical activities,” as he would call them, tended to alienate the public.
Babbitt has strong beliefs about his creative process and his relationship to his audience. He adopted the philosophy of Roger Sessions, who said that composers must:
abandon resolutely chimerical hopes of success in a world dominated overwhelmingly by ‘stars’, by mechanized popular music, and by the box-office standard, and set themselves to discovering what they truly have to say, and to saying it in the manner of the adult artist delivering his message to those who have ears to hear it. All else is childishness and futility.
Within the environmental sounds were small events – rhythms, quasi-melodic inflections, ringing harmonics – a fine, sub-rosa level brought out by electronic scans called transforms’. Heard through small-band “windows”, the two channels cross-modulate each other, creating a simple field in which everything affects everything, like the body’s perceptors transducting an outside sound. The sensation of a transform is like the feeling left after a sound has ended, or a concert is over.
The transforms heard here are
A Dream Without Images
The feeling behind the action. A telegraphic ringing relaxes into cascades of harmonics, acetylcholine neurons flash in the brain, calcium deposits from exploding stars leave traces in the synapses, and we dream of being helpful for no reason at all, while sferics sweep the atmosphere.
X Marks The Spot (Daydream)
This music occurs simultaneously in both forward, historical time and backward, daydream time. This is analogous to interior imagination and visual perception physically sharing the same pathways only moving in opposite directions (in the occipital parietal temporal lobes). Background and foreground positions gradually cross from one world to the next, and curious illusions occur at the exact midpoint of this crossing (‘X’). “X Marks The Spot” at which the inside and the outside meet.
AGGIORNAMENTO 15/02
La particolarità di questi brani risiede nel fatto che derivano da registrazioni di suoni ambientali derivati da comuni attività giornaliere. I suoni della vita di tutti i giorni vengono isolati, trattati, a volte utilizzati come sorgenti di controllo per altri suoni. È questo modo di trovare la musica nei suoni di tutti i giorni che trovo degno di nota.
Negli anni ’60, Stockhausen raccolse intorno a sè un piccolo gruppi di esecutori e tecnici con i quali lavorare e sperimentare. Con questo gruppo, che è quanto di più vicino a una ‘band’ si sia mai visto nella musica cosiddetta colta, aveva iniziato a sperimentare varie forme di improvvisazione più o meno controllata che ricadevano sotto l’etichetta di Musica Intuitiva.
Il massimo della musica intuitiva viene raggiunto nel 1968 con il ciclo Aus den sieben Tagen (dai 7 giorni: accenno evidente alla creazione). Le partiture dei 12 brani che lo compongono sono in realtà brevi testi di istruzioni sommarie che spesso richiedono all’esecutore anche un impegno meditativo non banale e a volte tale da portarlo anche vicino allo stato del Buddha («…arriva a uno stato di non pensiero…»).
Peraltro, alcuni dei brani sono decisamente belli, grazie evidentemente alla bravura degli esecutori e alla direzione di Stockhausen che partecipa alle esecuzioni.
Sul concetto di Musica Intuitiva Stockhausen afferma:
I call this music Intuitive Music, because with a text like the one for IT [citato sopra, in rosso; nota mia], one should exclude all the possible systems which are usually used for any kind of improvisation if one understands the term “improvisation” in the way it has always been used. I therefore prefer the term Intuitive Music. We shall see how Intuitive Music is going to develop in the future.
Question: Were there ever any performances which in your view were failures?
Stockhausen: Do you mean, in which we couldn’t play at all?
Question: No, in which something was played which to your musicians’ creative sense seemed to be rubbish? Or is there such a thing as rubbish?
Stockhausen: Absolutely. The first sign of rubbish is the emergence of clichés: when pre-formed material comes out; when it sounds like something which we already know. Then we feel that it is going wrong. There is a sort of automatic recording within us, which also automatically spits out all the recorded stuff also the garbage , and then one stops.
Question: Have you any way of eliminating acoustical rubbish from the creative process?
Stockhausen: Certainly. While playing Intuitive Music it becomes extremely obvious which musician has the most self-control; the musicians soon reveal whether they are critical, whether the physical and spiritual sides are in a certain balance etc. Some musicians are very easily confused, because they do not listen. That is the usual reason for rubbish rubbish in the sense that they produce dynamic levels which erode the rest for quite some time, without realising it themselves. In certain situations some become very totalitarian, for example, and that leads to really awful situations of ensemble playing. The sounds then become extremely aggressive and destructive; they operate on a very low level of communication, and destructive elements prevail (I hope we understand one another: I do not only mean simply “ugly” or “beautiful” when I say “low” level; I mean bodily, physically destroying each other). Then they all play at once. This is one of the most important criteria, that one must constantly remind oneself: “Do not play all the time”, and “Do not get carried away to act all the time”.
After several hundred years of having been forced to play only what was prescribed by the composers, once musicians now have the opportunity in Intuitive Music to play all the time, they do. The playing immediately becomes very loud, and the musicians do not know how to get soft again, because everybody wants to be heard. I mean, it is easy to get loud, but how can you get soft again? Finally you think: “Nobody hears me anyway, so I might as well stop”.
These are the general principles of group behaviour, of group playing.
Qui ascoltiamo due esecuzioni di Treffpunkt (punto di incontro) il cui testo base, che risale all’8/5/1968, è il seguente:
Everyone plays the same tone
Lead the tone wherever your thoughts
lead you
Do not leave it, stay with it
Always return
to the same place
Le due esecuzioni sono state registrate nello stesso giorno (27/8/1969).
Esecutori: Aloys Kontarsky (piano), Rolf Gehlhaar (tam-tam with microphone and bamboo flute), Carlos R. Alsina (piano), Michel Portal (tenor saxophone and clarinet), Vinko Globokar (trombone), Karlheinz Stockhausen (glissando flute, short-wave receiver, 1 filter and 2 potentiometers for tam-tam).
Somei Satoh 佐藤聰明 was born in 1947 in Sendai (northern Honshu), Japan. He began his career in 1969 with “Tone Field,” an experimental, mixed media group based in Tokyo. In 1972 he produced “Global Vision,” a multimedia arts festival, that encompassed musical events, works by visual artists and improvisational performance groups. In one of his most interesting projects held at a hot springs resort in Tochigi Prefecture in 1981, Satoh places eight speakers approximately one kilometer apart on mountain tops overlooking a huge valley. As a man-made fog rose from below, the music from the speakers combined with laser beams and moved the clouds into various formations. Satoh has collaborated twice since 1985 with theater designer, Manuel Luetgenhorst in dramatic stagings of his music at The Arts at St. Ann’s in Brooklyn, New York.
Satoh was awarded the Japan Arts Festival prize in 1980 and received a visiting artist grant from the Asian Cultural Council in 1983, enabling him to spend one year in the United States.
He has written more than thirty compositions, including works for piano, orchestra, chamber music, choral and electronic music, theater pieces and music for traditional Japanese instruments.
Somei Satoh is a composer of the post-war generation whose hauntingly evocative musical language is a curious fusion of Japanese timbral sensibilities with 19th century Romanticism and electronic technology. He has been deeply influenced by Shintoism, the writings of the Zen Buddhist scholar DT Suzuki, his Japanese cultural heritage as well as the multimedia art forms of the sixties. Satoh’s elegant and passionate style convincingly integrates these diverse elements into an inimitably individual approach to contemporary Japanese music.
Like Toshiro Mayazumi an Toru Takemitsu, the most well-known of contemporary Japanese composers outside Japan today, Satoh has succeeded in reshaping his native musical resources in synthesis with Western forms and instrumental sonorities. His work cannot, however, be considered within the mainstream of contemporary Japanese art music, for he writes in an unreservedly non- international style, remarkably free from any constraints of academism. This may be attributed to the fact that being primarily self-taught, he has never been subjected to a formal musical education. Satoh has on occasion, been referred to as a composer of gendai hogaku (contemporary traditional music). Much as Satoh is reluctant to be so classified, this assessment of his writing has some validity if one views him as reworking the traditional Japanese musical aesthetic in a broader, abstract context infusing it with a new vitality.
Minimalism, that Eastern-derived Western phenomenon born of the sixties, has much in common with the hypnotic, regular pulsations of rock. “Litania” and “Incarnation II”, among others of Satoh’s compositions which rely primarily on the prolongation of a single unit of sound, draw upon this repetitive element. In Satoh’s case, however, the repetitions are perceived more as vibrations because of the rapidity of the individual beats in conjunction with an extremely slow overall pulse. This creates the sensation of being in a rhythmic limbo, caught in a framework of suspended time which is typically Japanese. This experience can be summed up in the Japanese word ‘ma’ which may be defined as the natural distance between two or more events existing in a continuity. In contrast to the West’s perception of time and space as separate entities, in Japanese thinking both time and space are measured in terms of intervals. It is the coincidental conceptualization of these elements which is perhaps the main feature distinguishing Japan’s artistic expression from that of the West. In Satoh’s own words,
My music is limited to certain elements of sound and there are many calm repetitions. There is also much prolongation of a single sound. I think silence and the prolongation of sound is the same thing in terms of space. The only difference is that there is either the presence or absence of sound. More important is whether the space is “living” or not. Our [Japanese] sense of time and space is different from that of the West. For example, in the Shinto religion, there is the term ‘imanaka’ which is not just the present moment which lies between the stretch of past eternity and future immortality, but also the manifestation of the moment of all time which is multi-layered and multi-dimensional …. I would like it if the listener could abandon all previous conceptions of time and experience a new sense of time presented in this music as if eternal time can be lived in a single moment.
(from the liner notes by Margaret Leng Tan to New Albion’s release, “Litania” NA008)
Listen to
Somei Satoh 佐藤聰明 – Cosmic Womb (1975), for 2 pianos with digital delay – Margaret Leng Tan, piano
John Cage – In The Name of the Holocaust (1942), for prepared piano.
Like much of Cage’s early dance music (this to accompany a piece by Merce Cunningham), In the Name of the Holocaust was written for what Cage would later refer to as a ‘prepared piano’: a piano with screws, bolts, or other materials placed between certain strings to create a percussive effect.
The music features a number of new piano techniques, many of which Cage borrowed from his teacher Henry Cowell: notes held open for resonance, muted and plucked strings, and clusters played with the arm and flat of the hand. The title references World War II and comes from a pun on the Catholic liturgical phrase “In the Name of the Holy Ghost” found in James Joyce’s novel Finnegans Wake.
Shadowtime is an opera by Brian Ferneyhough dedicated to Walter Benjamin (first performance at the 2004 Munich Biennale).
Brian Ferneyhough’s vision of a philosopher – Walter Benjamin – in the Underworld…
Described as a “thought opera”, Brian Ferneyhough’s Shadowtime sets Charles Bernstein’s inventive and complex libretto based on the work, life and imagined death of philosopher and cultural critic Walter Benjamin: it includes a movement for a speaking pianist – Opus contra naturam, the opera’s fourth scene – a guitar concerto (Scene II) and ends in an ethereal haze of voices and electronics, Stelae for Failed Time.
A philosopher, a sociological and cultural critic, born to a wealthy Jewish family, Benjamin represented in his writings a unique, one might say mystical, synthesis of Marxism and Jewish mysticism. Bertolt Brecht, Georg Lukacs and Gershom Scholem were friends of his, representing these two strands. His most famous work is probably the essay “The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction,” and he was loosely affiliated with the Frankfurt School through Theodor Adorno. Benjamin was either killed or more likely committed suicide at the Spanish border while attempting to belatedly flee Nazi Germany.
Ferneyhough explains that he selected Benjamin for the subject of his first and only opera because he was neither hero, like Orpheus, nor anti-hero, like Wozzeck, but something more complex. Says Ferneyhough, “The image of a coherent whole is no longer accessible to us, because mediators and power itself have reduced it to tiny fragments.” Shadowtime is composed mainly of small fragments and short movements.
Hugues Dufourt – Saturne (1979), per 12 fiati, 6 percussioni, 2 chitarre elettriche, 2 organi elettrici e suoni elettronici.
Questo brano ha una storia particolare. Come racconta Dufourt
Ho creato, con Murail, una organologia elettronica, un insieme di strumenti. Data l’epoca [1979], abbiamo optato per le tecniche analogiche con qualche concezione modulare. Ma poi è stato sviluppato l’elaboratore come strumento compositivo e nel giro di 5 anni ha spazzato via tutto. Credevo di fare un’opera storica e invece mi sono completamente sbagliato.
Abbiamo fatto dei miracoli tecnici per ricostruirla. Se non altro per identificare il problema che era al tempo storico, tecnologico e di restauro. Non era possibile né digitalizzare integralmente i risultati sonori, né ricostruire gli strumenti dalla A alla Z. È solo grazie a dei suoni rielaborati 15 anni fa, quando ancora la memoria era fresca, che ci siamo salvati.
Saturne è l’immagine di una terra desolata, con sonorità fredde e lontane, ma affascinanti, che evolvono lentamente, come testimonia la durata (circa 43 minuti).
Ivor Darreg (vero nome Kenneth Vincent Gerard O’Hara; 1917 – 1994, contemporaneo di Harry Partch) è stato uno dei pionieri della musica microtonale, nonché inventore di appositi strumenti.
Ecco due dei suoi brani tratti dalla sua, a mia conoscenza, unica incisione: Detwelvulate!
In questo brano Harvey sperimenta la coesistenza di diversi tempi metronomici. A differenza di Gruppen di Stockhausen, che utilizza tre orchestre, ciascuna con il suo direttore, l’orchestra di Harvey è unica, ma esistono due direttori che battono diversi tempi con diversi metri e agli esecutori si chiede di seguire ora l’uno, ora l’altro. Inoltre il pianoforte segue una sua propria scansione temporale, cosicché vengono a sovrapporsi tre tempi.
Nel secondo movimento i due direttori si sincronizzano gradualmente, mentre nel terzo sono liberi di improvvisare sui propri tempi e metri.
Stockhausen è stato uno dei principali esponenti di quella scuola di Darmstadt che, nell’immediato dopoguerra, proponeva il serialismo integrale come tecnica organizzativa musicale storicamente necessaria. Nello stesso tempo, però. è stato uno dei primi a staccarsene, se non a livello programmatico, almeno come dato di fatto compositivo.
Per lui, il problema maggiore insito nel serialismo integrale e nel puntillismo è la staticità. È evidente, infatti, che la dispersione dei parametri attuata con questa tecnica implica l’assenza pressoché totale di evoluzione: se per ogni nota, durata e dinamica si deve seguire una serie che forza all’utilizzo di tutti i valori prima di una qualsiasi ripetizione, è evidente che il brano risultante difficilmente potrà avere una evoluzione interna, ma sarà solo la rappresentazione della sua organizzazione.
Questo fatto, in sé, non è necessariamente un male e non è nemmeno un effetto collaterale imprevisto. Il serialismo, infatti, nega l’evoluzione interna per contrapporsi all’estetica romantica e post-romantica in cui i brani hanno uno sviluppo drammatico, cioè cercano di far compiere all’ascoltatore un percorso emozionale, cosa che è considerata superata da Webern e dai suoi seguaci. Per questi ultimi, infatti, la musica deve rappresentare soltanto sé stessa e il proprio modello organizzativo. La cosa non è nuova: questa idea è comune anche a molta musica pre-romantica, basti pensare all’Arte della Fuga.
L’assenza di sviluppo, tuttavia, per Stockhausen è un problema e già nei suoi primi lavori escogita dei metodi spesso ingegnosi per aggirarlo, pur continuando a utilizzare la tecnica seriale. Per poterlo fare, deve agire su quei pochi parametri che non sono coinvolti nell’ossessione organizzativa integrale il più evidente dei quali è il registro in cui le note appaiono.
Per esempio, in Kreuzspiel, per oboe, clarinetto basso, pianoforte, 3 percussionisti (1951), lo sviluppo è confinato alla dimensione dell’ottava, ma esiste. All’inizio del brano (in realtà da batt. 14 in quanto il processo è preceduto da una breve introduzione), 6 note della serie appaiono nelle ottave superiori e le altre 6 in quelle inferiori; le ottave centrali sono vuote.
Nel corso delle prime 6 esposizioni della serie (corrispondenti alle prime 6 righe del quadrato di permutazione), molte note cambiano registro e si infiltrano nelle ottave centrali, un processo che viene reso più evidente anche dall’aumentato uso dei legni rispetto al pianoforte (l’idea iniziale era di impiegare voci femminile e maschile), fino al punto in cui, alla fine della 6a riga del quadrato di permutazione, tutte le ottave sono riempite in modo uniforme.
Poi, con le 6 righe seguenti, le note si ritirano nuovamente verso i registri estremi, ma effettuando un incrocio tale per cui le note che all’inizio si trovavano nel registro acuto finiscono in quello grave e viceversa. Questo processo è evidente all’ascolto e, se si considera che dà anche il titolo al pezzo, si può immaginare quale sia la sua importanza per il compositore.
Il lettore interessato può cliccare sull’immagine a destra ed esaminare lo schema dell’intero processo.
Bun No. 1 (trad. focaccina, ciambella, panino) è un brano del 1965, composto da Cornelius Cardew durante i suoi studi con Goffredo Petrassi come esercizio finale per il corso di perfezionamento in composizione.
Si tratta, per quanto ne so, di un lavoro seriale per orchestra senza percussioni. Un brano affascinante, molto timbrico, che rivela un aspetto di Cardew quasi sconosciuto anche perché questo pezzo non era stato praticamente mai eseguito fino alla prima londinese curata dalla Scottish Symphony Orchestra diretta da Ilan Volkov per la BBC il 20 Agosto 2010.
Ma perché Bun? in Contact no.26 (Spring 1983), John Tilbury ha spiegato
[Cardew} gave me two off-the-cuff reasons when I asked him: a bun is what you give to an elephant at the zoo, and that was how he felt when he gave the work to an orchestra to play; and the piece is like a bun – filling but not substantial!
Non badate all’immagine che con questo brano non c’entra assolutamente nulla
Crippled Symmetry, del 1983, è uno dei lavori di lunghezza epica tipici dell’ultimo Feldman. Circa 90 minuti; niente in confronto alle 5/6 ore del Secondo Quartetto, composto nello stesso anno.
Ciò nonostante, per la sua durata e per i limitati elementi musicali di cui fa uso, questo brano richiede un ascolto di tipo ben diverso da quello della musica da camera tradizionale o anche contemporanea.
L’aggettivo crippled significa “menomato, storpio”, ma anche “paralizzato, bloccato, danneggiato”. Ed è in questo senso che vanno cercate le simmetrie all’interno del brano. I tre esecutori, uno al flauto e flauto basso, uno a glockenspiel e vibrafono, il terzo al pianoforte e alla celesta, suonano brevi frammenti ripetuti che variano gradualmente nel tempo dando vita a schemi ritmici complessi in cui la coordinazione fra gli esecutori si palesa per un istante, per poi scomparire e dar vita ad un nuovo schema.
Tuttavia non si tratta di minimal music. Il lavoro di Feldman è lontano dagli stilemi di Reich, Glass e compagni, così come da quelli di Arvo Pärt o Giya Kancheli. In uno scritto del 1981, Feldman affermava che
Music can achieve aspects of immobility, or the illusion of it.
e poi
The degrees of stasis, found in a Rothko or a Guston, were perhaps the most significant elements that I brought to my music from painting.
Molti critici avvicinano il processo evolutivo di questi ultimi brani di Feldman a quello, lentissimo e invisibile, ma inesorabile, dei ghiacciai o delle entità geologiche. Personalmente, visto che in questi giorni mi trovo in luogo isolato circondato dalla natura (mi collego saltuariamente con un misero gsm), tendo a paragonarlo alla lenta mutazione invernale delle piante a confronto della quale sembra perfino veloce.
The main sound source for Wind Chimes is a set of ceramic chimes found in a pottery during a visit to New Zealand in 1984. It was not so much the ringing pitches which were attractive but rather the bright, gritty, rich, almost metallic qualities of a single struck pipe or a pair of scraped pipes. These qualities proved a very fruitful basis for many transformations which prised apart and reconstituted their interior spectral design. Taking a single sound source and getting as much out of it as possible has always been one of my key methods for developing sonic coherence in a piece. Not that the listener is supposed to or can always recognize the source, but in this case the source is audible in its natural state near the beginning of the piece, and that ceramic quality is never far away throughout. Eventually, complementary materials were gathered in as the piece’s sound-families began to expand, among them a bass drum, very high metallic Japanese wind chimes, resonant metal bars, interior piano sounds, and some digital synthesis. The piece is centered on strong attacking gestures, types of real and imaginary physical motion (spinning, rotating objects, resonances which sound as if scraped or bowed, for example), contrasted with layered, more spacious, sustained textures whose poignant dips hint at a certain melancholy.
Wind Chimes was composed in the Electroacoustic Music Studio of the University of East Anglia (UK) in 1987, with computer sound transformations carried out on the digital system of Studio 123 of the Groupe de recherches musicales (GRM) in Paris (France) in 1986. It was premiered during the Electric Weekend at the Queen Elizabeth Hall in London on September 11, 1987. This piece was first released in 1990 on the Computer Music Current #5 compact disc on the Wergo label (WER 2025-2). Wind Chimes was commissioned by the South Bank Centre, London (UK).
Ecco la prima parte di Traiettoria, le altre essendo Dialoghi e Contrasti, di Marco Stroppa.
Note di programma
Traiettoria per pianoforte e suoni generati al computer è un ciclo di tre pezzi Traiettoria…deviata, Dialoghi, Contrasti, composta tra il 1982 e 1984 e della durata di circa 45′.
Traiettoria può essere considerato come un concerto per pianoforte e orchestra, dove i suoni sintetici sostituiscono l’orchestra. In questo lavoro, il rapporto tra suoni sintetici e suoni concreti del pianoforte a volte è progettato in modo che si fondano in un’unica immagine e sensazione. Timbri inarmonici e armonia, in altre parole, “illusione” e realtà, tendono spesso a fondersi e trasformarsi l’una nell’altra.
La disposizione del pianoforte e del dispositivo di amplificazione è stata studiata con molta attenzione. I suoni sintetici provengono sia da un altoparlante posizionato sotto il piano che interferisce con la tavola armonica e le corde, sia da più altoparlanti disposti intorno al pubblico. A seconda alla soluzione scelta il volume del suono è ridotto oppure circonda il pubblico da tutti i lati in un impulso costante per tutto il pezzo. Per ragioni di equilibrio anche il pianoforte è amplificato.
La regia sonora di Traiettoria in concerto serve a modellare il suono sintetico in base alla partitura e alle caratteristiche acustiche della sala. Deve essere assicurata da un musicista la cui importanza è pari a quella del pianista.
Aura è il titolo del primo quartetto del compositore spagnolo Tomás Marco (1942).
Composto nel 1968/69, questo brano si è fatto notare per essere basato quasi esclusivamente su una sola nota, eseguita su varie ottave, con diversi modi di attacco, timbriche e sonorità a formare un tessuto cangiante nonostante l’esiguità del materiale.
Each of the 12 tracks on this album corresponds to a sign of the Zodiac and is composed of a series of vibrating bells, gongs, chimes, and petalumes (vibrating discs) among other atonal instruments. Perry’s unique, transcendent style has evolved from his origins as a free-jazz musician, and he uses that genre’s approach to deconstructing Western ideas of music for an Eastern effect. The songs aren’t played so much as conjured up out of the silence, slowly and beautifully, until various vibrational frequencies come together as one, then drift apart back into the abyss. This is perfect accompaniment for meditators to “Om” along to, harmonizing with the interlocking drones as a tool for aligning chakra energy and reaching a state of supernal calm. Perry’s instincts as a formally trained Western musician, along with his knowledge and passion for Eastern philosophy, unite on ZODIAC, making this a fine auditory gateway into the realm of the spirit.
Morten Riis is a danish composer. His work can be characterized as an electronic music that fuses elements of sound art with a more acousmatic and electro-acoustic approach.
Lately his artistic work has focused around the investigation of the myriad of errors that can arises when workingwith analog and digital systems.
Common for all of Morten Riis’s artistic endeavours is a fascination of working on the limits of what is technological possible when finding new sound material. Pushing computers to there limits to obtain an aesthetic that emphasizes the imperfections of modern technology.
Music television an 8 channel audio/visuel installation for 8 barco cm-33 tv monitors and powerbook g4. The audio inputs from the computer are feed to the video input of the tv monitors thereby creating various patterns on screens. The sound-material (all pure sine tones) is also feed to the build-in speakers in the tv-monitors but because of different distortion phenomena introduced by speakers the original sine tones are shaped in many different ways creating many exiting timbres.
Duration:18min26sec
Mi sono spesso lamentato della scarsa considerazione della chitarra elettrica, che io considero veramente un nuovo strumento musicale dotato di enormi potenzialità sonore, da parte dei compositori contemporanei. Il fatto è che non si può pretendere che persone che negli anni del boom di questo strumento, i roaring ’60, erano già adulti e in carriera, di colpo se ne possano rendere conto. Nello stesso tempo occorre anche che si formino degli strumentisti in gradi di interpretare partiture complesse come quelle contemporanee e per di più non standard, perché non esiste ancora una semiografia condivisa dedicata a questo strumento.
Fortunatamente oggi sono ormai attivi compositori nati negli anni ’50/60 per i quali la chitarra elettrica è un dato di fatto e ci sono anche solisti che hanno cercato di valorizzare lo strumento con un lavoro di ricerca sonora che va al di là dei generi tradizionali (citiamo Fred Frith o Henry Kaiser, fra tutti).
Ermes, che ringrazio, mi ha mandato il link di Trash TV Trance, un brano di Romitelli disponibile su internet in varie interpretazioni, che mi ha colpito perché, oltre alle qualità compositive che erano già note, rivela una notevole conoscenza dello strumento e delle sue possibilità anche sul versante degli effetti, naturalmente ammesso che il tutto sia prescritto in partitura e non lasciato all’esecutore.
Premetto che non conosco la partitura, ma il confronto fra le varie esecuzioni, tutte abbastanza simili, rivela che esistono delle indicazioni precise, sia sul materiale musicale che sull’effettistica.
Non avendo la partitura, non mi sento di giudicare la qualità delle esecuzioni, comunque quella di Gilbert Imperial è la mia preferita, se non altro perché mi sembra quella registrata meglio. Le altre, comunque sono di Yaron Deutsch e di Lucia D’Errico.
La Comunità Elettroacustica Canadese (CEC) pubblica un interessante articolo a firma Aki Pasoulas sulla partitura e la performance nella musica elettroacustica.
Il sito quasi ufficiale di Xenakis ha finalmente messo in linea un po’ di musica, anche se si tratta di estratti di circa 4′ ciascuno. Adesso c’è questa pagina con 15 player per ascoltare parti di altrettanti lavori di Xenakis, ognuno con un breve commento scritto.
La cosa divertente è che, all’inizio della pagina c’è la seguente avvertenza: “Arrêter la lecture d’un extrait en cours avant d’en lancer un autre (Fermare l’esecuzione dell’estratto in corso prima di lanciarne un altro)”. Tutto questo perché non sono stati capaci di bloccare il player corrente quando l’utente ne fa partire un altro. E in effetti si possono far partire tutti insieme moltiplicando per 15 la densità, già altissima, della musica di Xenakis. Effetto impressionante!
Una cosa molto più interessante è che si può scaricare il suo testo, Musiques Formelles, integralmente, nell’edizione originale in francese. Il libro è qui.
Tristan Murail – Territoires de l’oubli (1977) per piano solo – Marilyn Nonken piano.
È piuttosto difficile fare musica spettrale, basata sugli armonici e che spesso richiede quarti o anche sesti di tono, con il pianoforte, uno strumento a intonazione fissa, su cui l’esecutore non può influire per nulla.
L’unico modo è attraverso le risonanze delle corde lasciate libere che entrano in vibrazione per simpatia ed è quello che fa Murail in questo brano del ’77 che può essere considerato quasi uno studio sulla risonanza, infatti il pedale è costantemente premuto.
Secondo me si tratta di un brano dalle sonorità affascinanti seppure un po’ manieristiche e “facili” al di là del fatto che sia riuscito, o meno, come musica spettrale, della quale ho già avuto modo di criticare l’approssimazione.
Notes di Julian Anderson tratte dal CD Accord AC4658992 che non è quello di questa registrazione.
Territoires de l’oubli was written in 1977 for the French composer-pianist Michaël Lévinas, who gave the first performance in Rome, in 1978. This piece, Murail’s longest single-movement work to date, is a massive exploration of the piano’s resonance, unfolding in a huge curve of continuously evolving textures. Murail has remarked of the piece that “instead of considering the piano as a mere percussion instrument (hammers hitting strings), Territoires emphasizes a different idiomatic characteristic of the instrument: a group of strings whose vibration is caused by sympathetic resonance or by direct action of the hammers.” Murail further notes that the work is written “for the resonances, not the attacks which are considered as “scars” on the continuum.” For this reason, the sustaining pedal is held down throughout the entire piece. The work perpetually slides between regular, repetitive moments of stability, and chaotic, dense textures which often approach noise. The most stable moments often make a special feature of iambic, “heart-beat” rhythms. The work constantly plays upon the ambiguity between harmony and timbre – the harmony is chosen according to the resonance characteristics of the piano, producing several striking transformations of the piano’s sound: for example, at the end of the work, a form of “vibrato” is obtained by playing a fundamental simultaneously with an E-flat acting as its seventh harmonic. The true intonation of the seventh harmonic, heard in the resonance of the fundamental, beats against the equally tempered E-flat in the piano’s tuning. At several points in the piece, clusters of deep bass notes are heard, producing a mass of higher harmonics which form the basis of the harmony of the following section: in this way a continuous harmonic “chain” is built through out the work. The extreme continuity of Territoires does not prevent it from being one of Murail’s most evocative and dramatic pieces, especially in the wild cadenza of descending and ascending chords near the end.
Un altro video di Jon Weinel su cui, stavolta, abbiamo qualche informazione
This is my latest audio-visual work, a collage of different material created in Maya, Jitter, After Effects, Flash etc. It Uses hand-drawn animation as source material. The basic concept is to explore the idea of entoptic phenomena (spiral dot patterns experienced in altered states of consciousness), through the audio visual medium.
Kaikhosru Shapurji Sorabji – al secolo Leon Dudley Sorabji – (Chingford, 14 agosto 1892 – 15 ottobre 1988) è stato un compositore e pianista britannico, di origine Parsi.
Una delle sue opere più famose, l’Opus Clavicembalisticum, è considerato uno dei pezzi più difficili mai scritti per pianoforte per virtuosismo trascendentale e durata (a seconda dell’esecuzione può variare da oltre tre fino a cinque ore). Il suo lavoro mastodontico (oltre 11.000 pagine di partiture e 100 ore di musica) ne fa uno compositori più prolifici del XX secolo.
In questa playlist ne possiamo ancoltare una parte.
Questo brano è stato composto per l’anno internazionale dell’astronomia (2009) e per il convegno “Musica e Astronomia” organizzato dal Conservatorio Bonporti di Trento e Riva del Garda.
V’ger (pron. Vyger) è il nome che, nel primo film tratto dal serial Star Trek, i Borg danno a una fittizia sonda intelligente Voyager 6, lanciata dalla Terra e da loro recuperata dopo una serie complessa di peregrinazioni nello spazio esterno. Il tutto si rifà alle vere sonde Voyager 1 e 2, lanciate alla fine degli anni ’70 e destinate a perdersi nello spazio interstellare, dopo una serie di passaggi intorno ai pianeti esterni da cui ci hanno inviato non solo splendide immagini, ma anche suoni.
Per chi si chiedesse come sia possibile trovare dei suoni nel vuoto dello spazio, puntualizziamo che non si tratta di rumori udibili da orecchie umane, ma di vibrazioni rilevabili solo dalla strumentazione posta sulle sonde e derivano, ad esempio, dall’interazione del vento solare con la magnetosfera del pianeta, che rilascia particelle ioniche con una frequenza di vibrazione che ricade dell’estensione udibile, oppure sono radio-frequenza generate dai campi magnetici del pianeta e delle sue lune e in questo caso è stato necessario abbassarle di parecchie ottave per renderle udibili.
Per realizzare V’ger, di cui, per esigenze organizzative, viene presentato un “condensato”, i suddetti suoni sono stati analizzati e risintetizzati per renderli utilizzabili musicalmente, perché nella realtà la loro evoluzione si svolge in tempi circadiani (ore, a volte giorni). Questi suoni, poi, sono stati strutturati in “accordi” in base alle distanze medie dei pianeti dal sole, mentre la loro evoluzione è governata dalla legge di Newton (la gravitazione).
V’ger onora i viaggi dei due Voyager che, guidati solo dalla gravitazione, hanno percorso miliardi di kilometri e oggi sono gli oggetti più lontani che l’uomo abbia mai costruito (Voyager 1 si trovava a 16.560.484.000 km dalla Terra nell’Agosto 2009).
Io ho avuto il mio primo telescopio quando ero alle medie. Per chi, come me, già da bambino era solito passare qualche notte a scrutare il cielo ed era convinto che, nel 2000, avrebbe potuto farsi una vacanza su Marte come un semplice turista, l’avvento del terzo millennio è stata una vera delusione. Niente auto volanti. Niente androidi intelligenti che ci sostituiscono nel lavoro. Niente basi sulla Luna e su Marte. Uno skifo. A parte la musica, le missioni come quelle dei Voyager e delle sonde che li hanno seguiti sono le uniche cose che mi danno la percezione di una frontiera.
V’ger è stato composto utilizzando il software di composizione assistita AlGen, creato dal sottoscritto e sintetizzato in 4 canali tramite Csound.
La documentazione in forma estesa del brano si trova qui.
Una conferenza/concerto dedicata all’improvvisazione elettroacustica in cui illustreremo le nostre tecniche di creazione estemporanea, con particolare riferimento al software che le supporta, appositamente realizzato con Max/MSP.
Conservatorio Bonporti – Sede di Riva del Garda
Ore 15 Ingresso libero
d’incise (al secolo Laurent Peter, svizzero) è uno di quei musicisti i cui lavori, per quanto astratti, hanno per me sempre una certa componente emozionale.
Vi segnalo questo suo album del 2008 (con tzii) di natura elettroacustica e concreta. Un collage sonoro di suoni elettronici e naturali spesso elaborati, a tratti anche inquietante, ma mai banale.
From High Zero Festival: Tomoko Sauvage And M.C. Schmidt In Concert
Surrounded by porcelain bowls, a mixer, effects pedals and bottles of Perrier, we sat rapt with curiosity as Tomoko Sauvage took the stage of the Theatre Project with Matmos member M.C. Schmidt. Sauvage poured carbonated water into the bowl closest to her, and she manipulated and looped the movements of the water itself, accented by the tranquil clinks of porcelain. Suspended above her mic stands were paper cups filled with water; she tore them ever so slightly, periodically releasing drips into the bowls below. It was an elegant (and more palatable) solution to John Cage’s chance operations, responding to random droplets with loops and delays through a mixer.
Agnes Heginger, soprano e Karlheinz Essl, elettronico, hanno registrato poco meno di un anno fa, all’Essl Museum in Vienna, questo disco, dal titolo Out of the Blue.
Sei brani, di cui tre collaborazioni e tre soli. Lo stile è generalmente quello della free music europea, virtuoso, ma spesso destrutturato e a tratti manierista (esiste, naturalmente, un manierismo anche nella free music).
Ma c’è almeno un brano, questo Action rituelle, inciso in duo, che, a mio avviso, trascende il genere e conquista per la sua intensità.
Il disco è distribuito dalla netlabel portoghese XS Records e liberamente scaricabile anche dall’Internet Archive.
Nathan Davis, nato in Alabama nel 1973, è percussionista e compositore elettroacustico. Fra le altre cose, è cofondatore del duo elettroacustico violoncello e percussioni Odd Appetite dal cui sito traiamo questo estratto da Diving Bell (2002), un brano in cui tutti i suoni sono generati “dall’umile e meraviglioso” triangolo.
È il tipo di brano che, prima o poi, invito i miei studenti a fare perché lavorare su una singola sonorità aiuta a capire che c’è un universo complesso all’interno di ogni suono.
Note dell’autore:
Diving Bell invites the listener to delve deeply into the sound of the humble and magnificent triangle. By striking the triangles at different points and with different materials, and by using a handheld microphone, I extract and re-sculpt single overtones that are present in the overall sound of the instruments, hidden sounds that are normally only apparent when one holds the triangle up to their ear, like a tuning fork. With the help of tape delay modeling software, I layer these rich overtones in a structured improvisation.
Italian musician David Fungi returns to test tube with an old and curious recording. ‘Lost Lands’ was recorded nearly 10 years ago in an unusual place for doing so: a cave. Valganna, in Italy, has a series of caves well known for its acoustics, but David chose to record there not only because of that but also because a cave is a mystical an mythological place, believed to be a passage to unknown words, or unknown universes… Jules Verne, the science fiction pioneer, dreamed of it and wrote about it.
Essentially, ‘Lost Lands’ is an experimental piece which travels between a handful of different ‘ambiances’, from drone to calm and meditative based sequences, and near its end you can even feel a short sprout of soft clicks and cuts. This an excellent piece of great experimental music.
Tristan Perich sta facendo fortuna con il suo concetto di musica a 1 bit che non è altro che la ripresa, pari pari, della sintesi sonora utilizzata nei primissimi personal computer (il Commodore 64 era già più avanti, ma le sonorità sono simili).
In pratica, si utilizza un piccolo circuito con un flip-flop, cioè un dispositivo che alterna 1 e 0 a intervalli di tempo regolari, generando un’onda quadra. Se, per esempio, il flip-flop alterna uno e zero 440 volte al secondo, si genera un’onda quadra a 440 Hertz, cioè un LA, che però conterrà solo gli armonici dispari (così è l’onda quadra) e un po’ di quelli pari ma solo per distorsione armonica, con effetti temibili già sulle consonanze più lontane di 8va e 5a (ovvero praticamente tutte).
Questo sistema era usato nei vecchi pc per pilotare il piccolo e nefando altoparlante di sistema perché richiede risorse minimali. Era semplice, quindi, costruire circuitini di costo bassissimo in grado di produrre molte onde quadre a frequenze diverse contemporaneamente, come nel famigerato SID del Commodore 64 (il cui nome tecnico era 8580 SID chip, dove la sigla stava pomposamente per Sound Interface Device).
Peraltro, questo tipo di sintesi è già utilizzato da anni dai vari gruppetti che fanno quella che viene chiamata 8-bit music, proprio perché si rifà alle vecchie macchine a 8 bit.
Ora Perich ha ripreso questo disturbante suono realizzando varie installazioni e composizioni, alcune delle quali sono anche strutturalmente interessanti ma, per le mie orecchie, sono indelebilmente marchiate dal suono del C64 che mi fa venire voglia di piazzare un bel filtro passa-basso a valle di tutto l’audio.
La cosa buffa è che, quando eravamo piccoli, di cose del genere ne abbiamo fatte a tonnellate, ridendoci sopra. Però, ripeto, i casi della vita sono strani e oggi la gente trova un gran gusto nel farsi trapanare le orecchie dalle onde quadre.
Non so che dire. Esiste, nella vita, il fascino delle cose antiche riprese e riviste, che è anche quello che spinge della gente a suonare musica antica con strumenti d’epoca e corde di budello che però, proprio perché d’epoca, non stanno accordati per più di 5 minuti, costringendo l’interprete a suonare stonato per metà del pezzo (NB: non ce l’ho con la musica antica ma solo con quelli che fanno come sopra).
Ecco alcuni esempi fra i migliori (ne trovate altri sul suo sito), nonché il video della temibile 1-Bit Symphony.
All Possible Paths for clarinet, acoustic guitar, cello, double bass, marimba, piano, 5-channel 1-bit electronics (2008), commissioned by Bang on a Can’s People’s Commissioning Fund
Il danese Poul Ruders (1949, Ringsted) è un compositore piuttosto eclettico, la cui produzione spazia dall’opera a lavori orchestrali, passando attraverso brani da camera, vocali e soli. Qualcuno può anche obiettare che è normale per un compositore scrivere per varie formazioni e fin qui sono d’accordo. Il punto è che è così anche stilisticamente, passando, nel giro di un anno, dal pastiche vivaldiano del concerto per violino (1981) fino al modernismo di Manhattan Abstraction (1982). In effetti, è difficile da inquadrare perché non si inserisce decisamente in nessuna corrente.
Qui ascoltiamo Gong, tratto da Solar Trilogy del 1992, un brano per orchestra abbastanza magmatico (in senso sonoro), in cui il nostro passa dall’informale a sequenze di accordi quasi stravinskyane o a parti ritmiche sostenute, non disdegnando un po’ di spettralismo qua e là.
Nonostante lo stile non ben definito (ma anche questo è uno stile), il brano ha, comunque, parecchie parti interessanti e l’orchestrazione è condotta con una certa maestria.
A funny realization of Alvin Lucier’s “I am Sitting in a Room”, made by Christopher Penrose using the following text:
“I am standing in a long line at a crowded urban supermarket holding a bright yellow fly-swatter. I feel judged and mistrusted by many in the store as if I were brandishing a high-caliber firearm. There is even a dog here in the store barking at me. He knows that I am a premeditated killer of flies.”
Circuit bending involves taking cheaply available electronic soundmaking toys (in this case mostly Texas Instruments’ “Speak & Spell” human voice synthesizing toys from the late ’70’s, but also applicable to all sorts of keyboards, effects boxes and samplers) and adding extra wires, knobs and switches to make new connections between parts of the internal circuitry and chips. This sends data and electronic signals to previously unrelated circuit board points – inducing through a strange sort of “Data Rape”- astounding new sounds, chance evolving compositions and textures, phoneme freezing and looping, random glottal pulse and phoneme generation, complex lattice filtering and unique pitch shifting techniques.
Horatiu Radulescu – Piano Sonata No. 6, Op. 110 “Return to the Source of Light”: I. Use Your Own Light
Ian Pace, piano
Presented here is Radulescu’s last piano sonata, commissioned by the English pianist Ian Pace and premiered at the TRANSIT Festival, Leuven, Belgium, in October 2007. This is the first movement, “Use your own light”. The initial rhythmic motif, a rhythm in a bar of 5+4+4+4, reiterates a low D, with propulsive material in the right hand breaking into higher registers like sudden shafts of lightning. Subsequent sections introduce polyphonic treatments of Romanian folk melodies, often in the form of mensural canons. These melodies recur in Radulescu’s later works. The movement builds steadily to an almost manic intensity, with the pianist taxed to the limits of his dexterity.
K. Stockhausen, Ypsilon for a melodic instrument with micro-tones (1989, flute version).
Notes at Stockhausen Edition no. 28 by Sonoloco
“Ypsilon” is a Greek letter symbolically used to indicate variable quantity. Stockhausen’s composition with the same name from 1989 is scored for “a melody instrument with micro-tones”. The composition can be performed on any wind instrument that has keys or valves. Stockhausen has given the piece a graphical score in 16 pitches. He has indicated that the intervals between the pitches should be “as small as possible but clearly perceivable”. That is what he means by “variable quantities”, since the steps of the intervals depend on the instrument and the player. “Ypsilon” for flute was worked out by Kathinka Pasveer in 1990. Again the melody is that of the Eve-formula, here starting with the central pitch of “Dienstag aus Licht” (“Tuesday from Light”) but stretched to 9 minutes and compressed spatially into approximately a minor third.
The rattling of bells startles at first. The costume of the player is saturated with Indian bells (compare the costume of the birdman Miron of “Musik im Bauch”!). The clicking of the valves adds another dimension to this fabric of sounds, and the human sounds of kissing, combined with other human – vocal – sounds, further the impression. Small pauses are inserted into the progression of events, and sometimes the shaking of the Indian bells reign in supremacy. The player achieves this by shivering!
This is one strange piece of music, which easily transports the suggestive listener into alien levels of experience!
Robert Wyatt sings John Cage’s The Wonderful Widow of Eighteen Springs for voice and piano. The piano stay closed and is used as a percussion instrument.
The song was commissioned by singer Janet Fairbank, who later became known for pioneering contemporary music. Cage chose to set a passage from page 556 of Finnegans Wake, a book he bought soon after its publication in 1939. The composition is based, according to Cage himself, on the impressions received from the passage. The Wonderful Widow of Eighteen Springs marks the start of Cage’s interest in Joyce and is the first piece among many in which he uses the writer’s work.
The vocal line only uses three pitches, while the piano remains closed and the pianist produces sounds by hitting the lid or other parts of the instrument in a variety of ways (with his fingers, with his knuckles, etc.) Almost immediately after its composition the song became one of Cage’s most frequently performed works, and was several times performed by the celebrated duo of Cathy Berberian and Luciano Berio. Cage later composed another piece for voice and closed piano, A Flower, and a companion piece to The Wonderful Widow of Eighteen Springs, called Nowth upon Nacht, also based on Joyce’s book.
The viola d’amore is a beautiful instrument with an infinite numbers of possible sound worlds. It has six or seven main strings, bowed, and an equal number of sympathetic strings (click the image to enlarge).
In this album for the Sksh’s netlabel, Garth Knox explore this instrument using different tunings and techniques.
Conlon Nancarrow (October 27, 1912 – August 10, 1997) was born in the USA, but he lived in Mexico from 1940 to his death in 1997 because of his membership in the communist party.
It was in Mexico that Nancarrow did the work he is best known for today. He had already written some music in the United States, but the extreme technical demands they made on players meant that satisfactory performances were very rare. That situation did not improve in Mexico’s musical environment, also with few musicians available who could perform his works, so the need to find an alternative way of having his pieces performed became even more pressing. Taking a suggestion from Henry Cowell’s book New Musical Resources, which he bought in New York in 1939, Nancarrow found the answer in the player piano, with its ability to produce extremely complex rhythmic patterns at a speed far beyond the abilities of humans. So, he wrote studies of ever growing complexity, exploiting the mechanical nature of player piano system.
Nancarrow’s first pieces combined the harmonic language and melodic motifs of early jazz pianists like Art Tatum with extraordinarily complicated metrical schemes. The first five rolls he made are called the Boogie-Woogie Suite (later assigned the name Study No. 3 a-e). His later works were abstract, with no obvious references to any music apart from Nancarrow’s itself.
Many of these later pieces (which he generally called studies) are canons in augmentation or diminution or prolation canons. In music, a prolation canon or mensuration canon is a musical composition wherein the different voices play the same melody at different speeds (or prolations, a metrical term that dates to the medieval and Renaissance eras).
While most canons using this device, such as those by Ockeghem, Desprez or J.S. Bach, have the tempos of the various parts in quite simple ratios, like 2:1 or 3:2, Nancarrow’s canons are in far more complicated ratios. The Study No. 40, for example, has its parts in the ratio e:pi (i.e. 2.71828:3.14159, an irrational time ratio unplayable by humans), while the Study No. 37 has twelve individual melodic lines, each one moving at a different tempo.
He became better known in the 1980s, and was lauded as one of the most significant composers of the century. The composer György Ligeti called his music “the greatest discovery since Webern and Ives … the best of any composer living today“.
Here you can listen to the full playlist. By going to YouTube you can select them one by one
In C continues to receive numerous performances every year, by professionals, students, and amateurs. It has had repeated recordings since its 1968 LP premiere, and most are still in print. It welcomes performers from a vast range of practices and traditions, from classical to rock to jazz to non-Western. Recordings range from the Chinese Film Orchestra of Shanghai—on traditional Chinese instruments—to the Hungarian “European Music Project” group, joined by two electronica DJs manipulating The Pulse. It rouses audiences to states of ecstasy and near hysteria, all the while projecting an inner serenity that suggests Cage’s definition of music’s purpose—”to sober and quiet the mind, thus making it susceptible to divine influences.” In short, it’s not going away.
[Robert Carl]
Tristan Murail – Vampyr! for electric guitar, from Random Access Memory (1984), Wiek Hijmans electric guitar.
To be honest, I know little about this piece. It’s the sixth track from Random Access Memory, a cycle that includes a set of solo pieces for various instruments and a gold dust in the contemporary academic music where the electric guitar is seldom used.
Vampyr! is one of several works in Murail’s catalogue that do not employ spectral techniques. Rather, in the performance notes, the composer asks the performer to play the piece in the manner of guitarists in the popular and rock traditions, with a heavy overdriven rock sound. In the preface to the work, Murail writes: “The desired sound is rather like that of the solo guitar as played by Carlos Santana, Eric Clapton etc.“. And then, in bold type and with an exclamation mark: “The player should put into Vampyr! all the energy of rock music and that includes the appropriate number of decibels!” Would like to see the whole score.
The rather striking title refers to horror movies and sci-fi B-films; other titles in the cycle do so as well. This subject matter is clearly recognizable in the saturated guitar sound and the frequent, hysterical use of the tremolo arm.
Here Wiek Hijmans effortlessly transforms his Gretsch 1967 model Chet Atkins Tennesean into a ruthless yawing, squealing and screaming board.
Vache Sharafyan (Վաչե Շարաֆյան): Devotion No. 2 (1999) for Tar, Kemanche, Dhol, Tam-Tam, Piano and string quartet.
Tar, Kemanche, Dhol are musical instruments adopted by various middle eastern cultures like Iran, Armenia, Azerbaijan, Georgia to the Indian subcontinent. Click the names to read details from wikipedia.
Gerd Kühr: Trans, from Revue instrumentale et electronique (2004/5 according to the composer’s site, not 2007 as stated in the video)
Austrian composer Gerd Kühr is a professor of composition at the Universität für Musik und darstellende Kunst in Graz; he also works as a conductor and once studied with Sergiu Celibidache. Kühr has also taken composition with Hans Werner Henze.
Kühr’s piece Revue instrumentale et electronique is divided into six sections. It is scored for nine spatially divided instrumental groups and electronics.
The transitions between the electronics and live sections is seamless; you are listening and you gradually realize “we are hearing electronic music now” as opposed to the live instruments. Kühr is very effective at devising novel instrumental timbres, such as the palpitating percussion and fleeting winds in the opening “Intro” and in the alien atmosphere of sustained notes in “Trans.”
And this is the second pièce from the cycle Du Cristal…à la fumée, by Kaija Saariaho.
The last sound of Du Cristal – a cello trill played sul ponticello – becomes retrospectively the first sound of its successor, …à la fumée, which features solo parts for cello and amplified alto flute in addition to large orchestra. Saariaho has commented that
to my way of thinking, Du Cristal … à la fumée is a single work, two facets of the same image, but both fully drawn in, living and independent.
The difference between the two works is already manifest in the title: crystal is a classic example of repeated order, symmetrical, tense, stable mass. Smoke, on the other hand, changes its form constantly, an unpredictable, developing state. Crystal and smoke, like order and entropy, chaos. The title is inspired by a book by Henri Atlan, Entre le cristal et la fumée (Between the Crystal and the Smoke).
The single most important element in the music of Kaija Saariaho is tone colour, attached inseparably to harmony. In this sense she can be thought of as continuing the French orchestral tradition. Her music does not, however, only feast on beautiful sounds. The starting point of composition for her comes from a carefully studied theoretical basis. The origin of her music is a single sound which she penetrates, trying to uncover its structure and the laws that govern it. With these laws, just by changing the scale, the composer builds colours, harmonics, forms, rhythms – music. This starting-point ensures that all the works of Kaija Saariaho have a strong sense of unity. Elements that seem different fit together, because they are basically born from the same source.
Rather than associate Kaija Saariaho’s music with mathematical formulae or computer programs, it is more fruitful to compare it with nature – its biological and physical models. The composer herself has spoken of arctic lights, water-lilies, crystals, spirals: forms and materials which in themselves are perfect and beautiful and create aesthetic experiences, but which offer endless grounds for even scientific study. Observation of how the inner relations of organisms are built, how they change and multiply; how forms that seem simple and natural are of endless variety when examined closely: chaos and order can be closer to each other than we first suspect.
The tensions in Kaija Saariaho’s music, its dramaturgy, are built on pairs of contrasts. One important pair of contrasts is formed by sound and noise. This is manifested, for instance, in the sonority of the cello: when the bow is moved towards the bridge, adding bow pressure, the sound breaks and turns into noise. On the flute, when you blow into the tube you can create noise (which has its own tone colour) and which changes into a sound when the air hits the mouthpiece at the right angle. In rhythm, a simple pair of contrasts is created between repetitive and irregular patterns. Gradual movement between two opposites, interpolations, create and release tensions in the same way as do chordal functions in traditional tonal music.
It is no surprise that the soloists in …a la fumée are flute and cello. These would appear to be Saariaho’s favourite instruments given that many of her solo pieces have been written for them (for the flute, Canvas, Laconisme de l’aile, NoaNoa; for the cello, Petals and Près). …a la fumée however, is not a normal double concerto, in which the solo instruments are contrasted with the orchestra. In this work, flute and cello are like microscopes with which the composer penetrates deep into her material, shedding light from different angles and changing the scale.
György Ligeti, with whose earlier music Kaija Saariaho’s works have certain points in common, has spoken about a phenomenon familiar to most of us. When we go up in an aeroplane, we do not feel ourselves in motion. At the same time, details of the scenery disappear and merge into a whole. A meadow, swarming with inner energy, changes first into fields of colour, then into a bare point in the distance. The amplification of the alto flute and the cello serves this purpose: a whisper from the flute can grow to the scale of a big orchestra, a harmonic from the cello can be outlined above the whole landscape of sound. Is not one of the meanings of music, and all art, simply this? To create illusions, presentiments of a world that could be true.
Kaija Saariaho – Du Cristal, 1989 – for large orchestra.
Du Cristal was commissioned jointly by the Los Angeles Philharmonic Orchestra and the Helsinki Festival, and it was first performed by the Finnish Radio Symphony Orchestra conducted by Esa-Pekka Salonen in September 1990.
It is scored for a standard large symphony orchestra with the addition of an important part for synthesizer, and featuring a highly prominent percussion section. None of Saariaho’s major works to date is without some kind of electronic element, and the presence of the synthesizer is significant in the light of Saariaho’s remark that she tends to the orchestra itself ‘as if it was a huge synthesizer’. The standard form of electronic synthesis is ‘additive’ – that is, each sound is created by piling innumerable pure tones upon each other.
Transferred to the medium of the orchestra, this means that it is as if each individual instrument were analogous to a pure tone in a synthesizer, merely a tiny part of a large, slowly evolving mass of sound. Thus there is no polyphony, nor any melody in the conventional sense, although the music is frequently lyrical in its gestures and the activity within the textures may momentarily suggest polyphony; the important thing to follow is the overall drift of the orchestral mass, and to relate the individual details to that.
It’s an approach which owes something to the dense, multi-layered orchestral works of György Ligeti, such as “Atmosphères and Lontano”, as well as to the so-called ‘spectral-music’ of French composers Tristan Murail and Gérard Grisey, all of whom Saariaho has acknowledged as influences on her music; but her won style is nevertheless thoroughly personal and has distinctly brooding, ‘Northern’ character quite distinct from any of the afore-mentioned.
The harmonic character of Du Cristal is especially focused and clearly defined as the work is dominated by the bell-chord with which it opens. During the first seven minutes, this chord is slowly and methodically dissected: all its internal components are highlighted as its orchestration is progressively shaded and softened, although the basic character of the chord remains essentially unchanged.
There follows an eruption of some violence which breaks up the harmonic continuity of the music; a dialogue ensues between onslaughts of unpitched percussion and further bell sounds from tuned percussion and synthesizer.
After this the texture thins somewhat and the rate of harmonic change increases; melodic tissues briefly emerge on the violins and the woodwind. The increased rate of change precipitates the principal climax of the work, again featuring untuned percussion prominently: chaotic, irregular rhythms gradually merge into a hammeringly regular series of ostinatos for the full orchestra – the simplest and clearest music in the piece – and out of these the sound spectrum is gradually narrowed until a single note (a unison A flat) is heard
As this fades into filigree passages for solo strings, the music drifts closer to the harmonic world of the opening, and the original chord is itself twice restated; far from subsiding, however, the music suddenly veers back to the hammering ostinato of the climax – as if the form of the whole piece thus far had been telescoped into some two minutes. Only now can the music progress to the coda, underpinned by a series of wave-like crescendos on bass drum and synthesizer as the textures dwindle to a single cello trill.
This trill will be the starting point for second work of the cycle called …à la fumée. Saariaho took her title from a book by the French writer Henri Atlan, “Entre le cristal et la fumée”, and for her it signifies the way the same acoustic material is developed in sharply different ways in the two pieces, the turbulent energy and almost expressionist outbursts of Du Cristal subsiding into the capricious, playful double concerto of…à la fumée.
Petri Alanko, alto flute; Anssi Karttunen, cello, Los Angeles Philharmonic Orchestra, dir. Esa-Pekka Salonen
Solo for Viola d’Amore by Georg Friedrich Haas performed live by Garth Knox in Graz.
This is the second half of the piece. In the final section, the sympathetic strings are plucked and bowed directly, an unusual and striking effect. These are the second set of strings on the viola d’amore, usually not played directly, only there to resonate passively. In this piece they are amplified, and controlled by a volume pedal.
Vache Sharafyan: Morning scent of the acacia’s song for duduk & string quartet (2001), commissioned by Yo-Yo Ma’s Silk Road Project Inc. publisher G. SCHIRMER/ (excerpt)
performers: Gevorg Dabaghyan, Shirly Laub, Colin Jacobsen, Daniel Heim, Jeroen den Herder, Brussels philharmonic hall rehearsal – 2002
The duduk is a traditional woodwind instrument with double reed, popular in Caucasus. Extension goes from the F# on first space to the A over the staff in treble G clef.
Jonathan Harvey: “Vivos Voco” (1980) for concrete sounds processed by computer.
Born in Warwickshire in 1939, Jonathan Harvey was a chorister at St Michael’s College, Tenbury and later a major music scholar at St John’s College, Cambridge. He gained doctorates from the universities of Glasgow and Cambridge and also studied privately (on the advice of Benjamin Britten) with Erwin Stein and Hans Keller. He was a Harkness Fellow at Princeton (1969-70).
An invitation from Boulez to work at IRCAM in the early 1980s has resulted in eight realisations at the Institute, or for the Ensemble Intercontemporain, including the tape piece Mortuos Plango Vivos Voco, Ritual Melodies for computer-manipulated sounds, and Advaya for cello and live and pre-recorded sounds. Harvey has also composed for most other genres: orchestra (including Madonna of Winter and Spring, Tranquil Abiding and White as Jasmine), chamber (including three String Quartets, Soleil Noir/Chitra, and Death of Light, Light of Death, for instance) as well as works for solo instruments.
December 1952 is the notorious Earle Brown’s score consisting only by horizontal and vertical lines varying in width (see it on the video). It’s a landmark piece on graphic notation. The player must translate the symbols in music.
John Zorn: “Goetia” (2002) for solo violin. Jennifer Koh, violin.
Goetia is in fact a demon’s invocation closely tied to numerology. The piece consists of eight variations for solo violin. The work’s guiding feature is that each of the eight movements utilizes the same sequence of 277 pitches transformed by tempo variations, octave displacements, and modifications in rhythm and intensity.
Lei Liang (b.1972) is a Chinese-born American composer whose orchestral, chamber and stage works have been performed throughout the world.
The recipient of a Guggenheim Fellowship and an Aaron Copland Award, Lei Liang’s commissions and performances have come from the New York Philharmonic, the Heidelberger Philharmonisches Orchester, the Taipei Chinese Orchestra, the Fromm Music Foundation, Meet the Composer, Chamber Music America, Mary Flagler Cary Charitable Trust, the Manhattan Sinfonietta, the Arditti, Ying and Shanghai Quartets, the Meridian Arts Ensemble, San Francisco Contemporary Music Players, New York New Music Ensemble, Boston Musica Viva, pipa virtuoso Wu Man, percussionist Steven Schick, among others.
Lei Liang’s music is recorded on Telarc, Mode, Innova, GM and New World (forthcoming) Records. As a scholar, he is active in the research and preservation of traditional Asian music. Lei Liang studied composition with Sir Harrison Birtwistle, Robert Cogan, Chaya Czernowin, and Mario Davidovsky, and received degrees from the New England Conservatory of Music (BM and MM) and Harvard University (PhD).
He was named Junior Fellow at the Society of Fellows at Harvard University; taught in China as a Distinguished Visiting Professor at Shaanxi Normal University College of Arts in Xi’an; served as Honorary Professor of Composition and Sound Design at Wuhan Conservatory of Music and as Visiting Assistant Professor of Music at Middlebury College. Since 2007, he has taught as Assistant Professor of Music at the University of California, San Diego.
After the Marco’s master, I publish here the link to the IRCAM video about his works for solo instrument and chamber electronics.
Here you can find excerpts from …of silence, hist whist and I will not kiss you f.ing flag. You can also see Arshia Cont, the creator of the astonishing score and tempo following software Antescofo.
I already posted this link on Dec. 12 2009, but now I point out again because here the students can see some applications of the systems that Marco described in his lecture.
Tōru Takemitsu (武満 徹, Takemitsu Tōru, October 8, 1930 – February 20, 1996) was a Japanese composer and writer on aesthetics and music theory. Though largely self-taught, Takemitsu is recognised for his skill in the subtle manipulation of instrumental and orchestral timbre, drawing from a wide range of influences, including jazz, popular music, avant-garde procedures and traditional Japanese music, in a harmonic idiom largely derived from the music of Claude Debussy and Olivier Messiaen.
In 1951 Takemitsu was a founding member of the anti-academic Jikken Kōbō (実験工房, “experimental workshop”): an artistic group established for multidisciplinary collaboration on mixed-media projects, who sought to avoid Japanese artistic tradition. The performances and works undertaken by the group introduced several contemporary Western composers to Japanese audiences. During this period he wrote Saegirarenai Kyūsoku I (“Uninterrupted Rest I”, 1952: a piano work, without a regular rhythmic pulse or barlines); and by 1955 Takemitsu had begun to use electronic tape-recording techniques in such works as Relief Statique (1955) and Vocalism A·I (1956).
During his time with Jikken Kōbō, Takemitsu came into contact with the experimental work of John Cage. Although the immediate influence of Cage’s procedures did not last in Takemitsu’s music, certain similarities between Cage’s philosophies and Takemitsu’s thought remained. For example, Cage’s emphasis on timbres within individual sound-events, and his notion of silence “as plenum rather than vacuum”, can be aligned with Takemitsu’s interest in ma (a japanese concept usually translated as the space between two objects). Furthermore, Cage’s interest in Zen practice (through his contact with Zen Master Daisetz Teitaro Suzuki) seems to have resulted in a renewed interest in the East in general, and ultimately alerted Takemitsu to the potential for incorporating elements drawn from Japanese traditional music into his composition:
I must express my deep and sincere gratitude to John Cage. The reason for this is that in my own life, in my own development, for a long period I struggled to avoid being “Japanese”, to avoid “Japanese” qualities. It was largely through my contact with John Cage that I came to recognize the value of my own tradition.
In particular, Takemitsu perceived that, for example, the sound of a single stroke of the biwa or single pitch breathed through the shakuhachi, could
so transport our reason because they are of extreme complexity […] already complete in themselves.
This fascination with the sounds produced in traditional Japanese music brought Takemitsu to his idea of ma which ultimately informed his understanding of the intense quality of traditional Japanese music as a whole:
Just one sound can be complete in itself, for its complexity lies in the formulation of ma, an unquantifiable metaphysical space (duration) of dynamically tensed absence of sound. For example, in the performance of nō, the ma of sound and silence does not have an organic relation for the purpose of artistic expression. Rather, these two elements contrast sharply with one another in an immaterial balance.
So we can see this strange situation: an eastern composer that first avoid the eastern music, reconcile with it thanks to a western composer.
About 30 years ago I had a book by Walter Zimmermann called Desert Plants. It was a book of conversations with 23 american composers. A self made book whose pages seem to be the xerox-copy of the sheets the author typed on his typewriter while listening to a tape recorder.
I loved this book because, beyond the interesting conversations, it taught the way of subsistence.
How to SUBSIST during a time where practically no attention is paid to individuals if they are not useful for any commercial tools. And what puts these Individuals into a situation where they are challenged to think about the nature of their integrity, and that because of their integrity become alienated. From there they are getting to understand the necessity to do everything to reduce alienation.
Like a desert plant.
Over the years, Desert Plants get lost in the normal life affairs (loans, moves and so on), but now that it is out of print, it respawn as a free book from the site of Walter Zimmermann itself. If you don’t know Desert Plants, you should. Click here and scroll a little.
G. F. Haas – Blumenstück (2000).
after texts from “Siebenkäs”
For choir (32 voices 8×4), bass tuba, and string quartet
Performed by Tom Walsh on tuba, the Quintett Rigas Kamermuziki, and the Latvian Radio Choir, Wolfgang Praxmarer conductor
ToBeContinued…
Mercoledì 24 marzo dalle ore 0:00 alle 24:00 (GMT+1)
In occasione della giornata mondiale della lotta alla tubercolosi, l’Officina Globale della Salute di Topolò presenta ToBeContinued, concerto live in streaming della durata di 24 ore con artisti provenienti da tutto il mondo. Per ascoltare basta collegarsi al sito www.stazioneditopolo.it
24 ore di suoni e musiche che percorrono il mondo e che si potranno ascoltare dalla propria casa collegandosi a un sito ora in preparazione. TBC è evidente acronimo di ToBeContinued e anche di Tubercolosi, malattia che uccide 4.500 persone ogni giorno; trascurata perché ritenuta sconfitta, in verità sempre più presente anche nei Paesi più sviluppati. L’Officina Globale della Salute, diretta da Mario Raviglione, autorità mondiale nel campo della lotta a questo flagello, intende creare un ponte tra il mondo della ricerca artistica e le problematiche legate alla salute. La Giornata Mondiale per la lotta alla Tubercolosi ci vede impegnati, lo facciamo a modo nostro, nell’informare circa i danni che la TBC comporta. Nelle 24 ore si ascolteranno suoni e musiche di generi molto diversi ma il flusso non cesserà mai. Per l’occasione la Stazione/Postaja si trasferirà a Trieste, ospitata negli spazi del Teatro Miela che ringraziamo. A coordinare i collegamenti, Antonio Della Marina (che ha dato l’incipit all’idea) e Moreno Miorelli. A breve, la scaletta degli interventi e altre info.
Live from 00.00 hours of March 24th to the midnight of the same day (GMT+1), in occasion of the World TBC Day. Topolo’s Global Health Incubator creates a musical medley linking live the Topolonauts shattered around the Planet… Go to www.stazioneditopolo.it
24 hours of sounds and music that will cover the World and will be listenable from anywhere through the Internet connection to a website we are currently setting up. TBC is obviously the acronym of both, ToBeContinued and Tuberculosis, the sickness that is responsible for 4.500 deaths every day, ignored because it has been considered defeated, it is actually spreading even in highly developed countries.
The Global Health Incubator wants to create a bridge between the world of artistic research and the one of health related issues. The World TBC Day is for us, and we will do it in our own way, an occasion to inform about the reality of this terrible disease. During the 24 hours there is going to be an uninterrupted stream of various sounds and musical genres. For the occasion Stazione/Postaja will move to Trieste, kindly hosted by Teatro Miela, which we thank. The coordination of the connections will be in the hands of Antonio Della Marina (who started the idea) and Moreno Miorelli. The program of the event and more information will soon be available.
Romanian-French composer Horaţiu Rădulescu (1942-2008) was a spectral music composer. But Radulescu’s music differs greatly from the french school (Grisey, Murail, Dufourt, Levinas). This latter uses the sound spectrum analysis to get informations by which to build a musical form.
Instead the work of Radulescu focuses on the exploration of what he considers to be the ultimate sonic archetype: the harmonic spectrum. His compositional aim, as outlined in his book Sound Plasma (1975) was to bypass the historical categories of monody, polyphony and heterophony and to create musical textures with all elements in a constant flux. Central to this was an exploration of the harmonic spectrum, and by the invention of new playing techniques to bring out, and sometimes to isolate, the upper partials of complex sounds, on which new spectra could be built.
Here we can listen to his fifth String quartet, subtitledBefore the universe was born (1990/95)
Austrian composer Georg Friedrich Haas (b. 1953) truly experiments with sound. His extraordinary constructions of micro-intervals and pure harmonics create beautiful and opalescent soundscapes that move in ways that seem at once mysterious and obscure.
Here is the String Quartet No. 2 [1998] played by the Kairos Quartett.
Tactus performs Arabia Felix by Charles Wuorinen at the Manhattan School of Music. Mary Kerr – Flute, Rachel Field – Violin, Anne Rainwater – Piano, Jakob van Cauwenberghe – Guitar, Mike Perdue – Vibraphone, Matthias Kronsteiner – Bassoon, Conductor: John Ferrari
Morton Feldman’s elegant chamber work dedicated to the painter “De Kooning” and scored for horn, percussion, piano, violin, and cello was composed in 1963.
After composing works in the early 1950’s that were in graphic notation and left most of the musical parameters (pitch, duration, timbre, event occurence) to the discretion of the performers, Feldman became dissatisfied with the result because although this manner of composing freed the sounds it also freed the kind of subjective expression of the performers that could not create the kind of pure sound-making that Feldman envisioned.
He briefly returned to strictly notated works, found these too confining, and then created works in which most of the parameters were given except for duration and, consequently, coordination among the parts (“The O’Hara Songs” [1962], “For Franz Kline” [1962]). Following this, Feldman began to create works, like “De Kooning”, “False Relationships and the Extended Ending” (1968) and others, which alternate fully determined and indeterminate sections within the same work.
In “De Kooning”, there are coordinated chords (verticalities) and isolated events (single tones and intervals … verticalities stretched out horizontally or melodically) of a duration determined by the performers. The sequence of these single events is given however and players must enter before the last event has died out. These open sequences alternate with traditionally notated measures of rest with exact metronome markings, treating sound and silence in equivalent importance.
The total duration of “De Kooning” is open but tends to be between 14 and 1/2 minutes and 16 minutes. Tiny bells, tubular bells, and vibraphone are mixed with high piano tones and icy string harmonics creating a crystalline texture, that contrasts with a more muted texture of low tympani and bass and tenor drum rolls, pizzicati, low cello tones, low vibraphone notes, lower piano aggregates and sustained horn pitches. The materials are limited to a few gestures on each instrument and create “identities” of a sort (for example, the repeated “foghorn”-like horn notes, the percussion rolls, and so on) that can easily be followed by the ear. The variety of timbre combinations is astonishing and the tempo of their unfolding gives the listeners plenty of time to appreciate their quality. No particular programme is intended, but the changing timbres may spontaneous stimulate imagery for the listener. Or, for another listener, the joy may simply be in sheer richness of the sonic experience, for the sounds themselves.
The Drawing Center (35 Wooster Street, New York) opens a large show (nearly 100 works) of drawings by Iannis Xenakis (1922-2001), including mathematical renderings, architectural plans and sketches for compositions.
I know that it’s a little away from here, but see this page for drawing examples with video and audio.
The Wet Ink Ensemble is a New York-based new music collective. Our mission is to present innovative programs of contemporary music, with a focus on creating, promoting, and organizing adventurous American music.
Fortunatamente sono sfuggito al festival nazional-popolare, ma ho passato la serata di sabato prima dormicchiando e poi riflettendo sulla vicenda di Giacinto Scelsi e del suo principale trascrittore, Vieri Tosatti. Riflessioni stimolate da una bella conferenza di Franco Sciannameo a cui ho assistito, nel pomeriggio, al Conservatorio di Trento, dove insegno.
La vicenda è ben nota agli addetti ai lavori (o almeno dovrebbe esserlo), ma vale la pena di riassumerla. In breve, Giacinto Scelsi (1905 – 1988), ormai riconosciuto come uno dei più importanti compositori contemporanei e anticipatore sia della minimal music che dello spettralismo (con i famosi Quattro pezzi per orchestra su una nota sola del 1959), in realtà non ha mai scritto materialmente una nota. Il suo lavoro, invece, consisteva nel registrare su nastro l’essenza delle proprie idee musicali eseguendole (spesso improvvisando) sull’ondiola (nome originale ondioline), una tastiera elettronica inventata dal francese Jenny, in grado di produrre anche quarti e ottavi di tono.
I nastri venivano poi passati a dei trascrittori che, in concerto con il compositore, trascrivevano il materiale su pentagramma, curando anche l’orchestrazione. Il principale fra costoro fu Vieri Tosatti (1920 – 1999) che, in verità, dopo la morte di Scelsi, creò anche una polemica con la dichiarazione “Scelsi c’est moi”, ma il cui contributo passò rapidamente in secondo piano.
E invece, secondo gli studi e i ricordi di Sciannameo, che fu violinista nel quartetto che curò la prima esecuzione dei brani orchestrati da Tosatti per questo organico, dovrebbe essere rivalutato perché il suo sodalizio trentennale con Scelsi lo pone in una posizione che va sicuramente al di là di quella del semplice trascrittore, al punto che molti critici che osannano la genialità sonora di Scelsi, dovrebbero invece ricordare che il “rendering audio” dei lavori di Scelsi è in gran parte opera di Tosatti, essendo quest’ultimo “l’arrangiatore” che ha materialmente orchestrato il materiale di base.
In realtà, anche secondo me, è giusto affermare che i nastri originali andrebbero stampati e diffusi (mi dicono sia in corso un lavoro di catalogazione e “pulitura” del suddetto materiale da parte della Fondazione Scelsi) perché sono proprio questi ad essere storicamente testimoni dell’idea originale di Scelsi, mentre la musica stampata dovrebbe essere considerata come una “trascrizione approvata dal compositore”.
Ma mi chiedo anche se sia proprio così. Il problema è: in che misura i nastri sono depositari dell’idea compositiva? Rappresentano la composizione in quanto unica testimonianza originale, oppure sono soltanto un ulteriore elemento di passaggio verso la formalizzazione di una idea musicale?
Sciannameo ha portato alla luce una corrispondenza risalente agli anni ’30 fra Scelsi e Walter Kline (descritto spesso come allievo di Schoenberg, ma, secondo Sciannameo, amico di Schoenberg, forse allievo di Berg) che testimonia come l’impostazione compositiva di Scelsi sia stata da sempre un po’ particolare, basata com’era sulla produzione di una idea musicale, lasciando a dei collaboratori il compito di orchestrare e a volte anche di sviluppare il concetto originario.
Questo metodo di lavoro, forse derivante anche dalla condizione aristocratica di Giacinto Scelsi, a mio avviso non ne sminuisce la genialità, ma induce a riflettere sulla genesi e sulla effettiva paternità dell’opera d’arte che, nella tradizione occidentale, è considerata un prodotto del tutto individuale, mentre spesso (e attualmente sempre di più) si rivela essere il prodotto dell’interazione di più di una mente.
Personalmente, devo aggiungere che, alla fine, quello che mi dispiace un po’ in questa vicenda è proprio il fatto che, a causa di un pregiudizio legato alla tradizione individualistica della composizione, il sodalizio Scelsi – Tosatti sia stato tenuto nascosto per molto tempo e sia ancora fonte di studi e polemiche, mentre, secondo me, sarebbe stato vissuto molto meglio dai protagonisti (soprattutto da Tosatti) se fosse stato trasparente e socialmente accettato come una collaborazione perfettamente normale fra due persone, ognuno con il proprio ruolo.
Karlheinz Stockhausen, “Mixtur 2003 (Forward Version)”
for 5 orchestra groups, 4 sine-wave generator players, 4 sound mixers, with 4 ring modulators and sound projectionist
From the Musica Viva Festival
Bavarian Radio Orchestra, Lucas Vis
Recorded January 27, 2008
Muffathalle, Munich
The essential aspect of MIXTUR is, on one hand, the transformation of the familiar orchestra sound into a new, enchanting world of sound. It is an unbelievable experience, for example, to see and hear string players bowing a sustained tone and to simultaneously perceive how this tone slowly moves away from itself in a glissando, the pulse accelerates, and a wonderful timbre spectrum emerges. Orchestra musicians are astonished when they hear the notes they play being modulated timbrally, melodically, rhythmically, and dynamically. All shades of the transitions from tone to noise, noise to chord, from timbre to rhythm and rhythm to pitch come into being from such ring modulations, as if by themselves.
Finest micro-intervals, extreme glissandi and register changes, percussive attacks resulting from normally smooth entrances, complex harmonies (also above single instrumental tones), and many other unheard-of sound events result from this modulation technique and from the variable structuring.
Secondly, the ring modulation adds new overtone- and sub-tone series to the instrumental spectra, which can be clearly heard, especially during sustained sounds in MIXTUR. Such mixtures do not occur in nature or with traditional instruments. Through these mirrored overtone harmonies, one is moved by alien, haunting sensations of beauty, which are completely new in art music.
Only such renewal in how music affects us imbues new techniques with meaning.
The sound of Akashic Crow’s Nest begins with the use of an image synthesizer which turns very long photographic images into audio output, in the manner of a piano roll. The initial part of composing this music is thus designing the picture. For this latest project, the first audio output is converted to midi and run through a different softsynth, before being subjected to a battery of effects to get to the sounds you hear on this album.
The English netlabel INTERLACE devotes to concerts featuring free improvisation, live electronic music, interactive composition, and, of course, a mixture of it all. It is a continuous series of concerts aiming at 3 or 4 times per year.
Excerpts from the Interlace archives: three improvisations from the concert dated 18 July 2009
Tom Johnson is really a minimalist composer; in fact, he coined the term while serving as the new music critic for the Village Voice.
He works with simple forms, limited scales, and generally reduced materials, but he proceeds in a more logical way than most minimalists, often using formulas, permutations, predictable sequences and various mathematical models.
The Four Note Opera (1972) is a work written using four notes only (D, E, A, B). It is scored for 5 singers and a piano (no orchestra) and the singers play the role of singers in a way similar to Pirandello’s Six Characters In Search of an Author:
The only sure thing is that the crucial moment in the evolution of the piece was that evening very long ago when I read, with great excitement, Luigi Pirandello’s Six Characters In Search of an Author. Normally characters are not even conscious of their existence on a stage. They are completely obedient to the author, they conform totally to the world the author creates, and they have no thoughts of their own. But Pirandello’s masterpiece was different. His characters knew they existed in a theatrical space, and only for a couple of hours. They were aware of the audience, and of the author as well. It was not the kind of theatre that asks you to believe something that is not true. It was the kind of theatre that you have to believe, because everything is true.
Pirandello’s vision had a strong impact on me, and for years one question lingered in the back of my mind: what would happen if, instead of Six Characters in Search of an Author, there happened to be some opera characters looking for a composer? It happened that some opera characters were looking for a composer, and about 10 years after reading Pirandello they found me and came to life in The Four Note Opera.
[Tom Johnson]
Prof. Vincenzo Lombardo, from the Department of Computer Science of the University of Turin, and his team have done an extraordinary job of unearthing the secrets of the legendary Philips Pavilion.
In 1958, Philips Industries commissioned Le Corbusier to build their pavilion for the World’s Fair to be a showcase of their technology. Iannis Xenakis was working for Le Corbusier at the time and ended up designing the building as well as writing music for some of the spaces (Concret P.H.).
Le Corbusier designed the visuals for the inside and chose Edgar Varèse to create the music for the main space. It was an extremely complex installation with 350 speakers, all sorts of lights, slide and film projectors, sculpture and more. Xenakis’ music and architecture was heavily based on mathematics, especially hyperbolic paraboloid shapes.
Edgar Varèse worked in Philips new sound studio in Eindhoven with two full-time technicians to create the main musical piece. Le Corbusier worked with his firm to create the visuals.
Now, the virtual recreation by Prof. Lombardo and his team give new life to this legendary space. His site it’s well worth a (long) visit enjoying all the materials archived online.
John Cage, Freeman Études for solo violin (1977). A piece whose form is due to a set of misunderstanding.
In 1977 Cage was approached by Betty Freeman, who asked him to compose a set of etudes for violinist Paul Zukofsky (who would, at around the same time, also help Cage with work on the violin transcription of Cheap Imitation). Cage decided to model the work on his earlier set of etudes for piano, Études Australes. That work was a set of 32 etudes, 4 books of 8 études each, and composed using controlled chance by means of star charts and, as was usual for Cage, the I Ching. Zukofsky asked Cage for music that would be notated in a conventional manner, which he assumed Cage was returning to in Études Australes, and as precise as possible. Cage understood the request literally and proceeded to create compositions which would have so many details that it would be almost impossible to perform them.
In 1980 Cage abandoned the cycle, partly because Zukofsky attested that the pieces were unplayable. The first seventeen études were completed, though, and Books I and II (Études 1-16) were published and performed (the first performance of Books I and II was done by János Négyesy in 1984 in Turin, Italy). Violinist Irvine Arditti expressed an interest in the work and, by summer 1988, was able to perform it at an even faster tempo than indicated in the score, thus proving that the music was, in fact playable. Arditti continued to practice the études, aiming at an even faster speed, apparently misreading Cage’s indication in the score to play every measure in “as short a time-length as his virtuosity permits”, in which Cage simply meant that the duration is different for each performer. Inspired by the fact that the music was playable, Cage decided to complete the cycle, which he finally did in 1990 with the help of James Pritchett, who assisted the composer in reconstructing the method used to compose the works (which was required, because Cage himself forgot the details after 10 years of not working on the piece). The first complete performance of all Études (1-32) was given by Irvine Arditti in Zurich in June 1991. Négyesy also performed the last two books of the Etudes in the same year in Ferrara, Italy. [wikipedia]
Princeton Laptop Orchestra (PLOrk) is a visionary new ensemble of laptopists, the first of its size and kind.
Founded in 2005 by Dan Trueman and Perry Cook, PLOrk takes the traditional model of the orchestra and reinvents it for the 21st century; each laptopist performs with a laptop and custom designed hemispherical speaker that emulates the way traditional orchestral instruments cast their sound in space. Wireless networking and video augment the familiar role of the conductor, suggesting unprecedented ways of organizing large ensembles.
In 2008, Trueman and Cook were awarded a major grant from the MacArthur Foundation to support further PLOrk developments. Performers and composers who have worked with PLOrk include Zakir Hussain, Pauline Oliveros, Matmos, So Percussion, the American Composers Orchestra, and others. In its still short lifetime, PLOrk has performed widely (presented by Carnegie Hall, the Northwestern Spring Festival in Chicago, the American Academy of Sciences in DC, the Kitchen (NYC) and others) and has inspired the formation of laptop orchestras across the world, from Oslo to Bangkok.
“Connectome” Performed by the Princeton Laptop Orchestra (PLOrk) (Director Jeff Snyder), PLOrk[10] concert, May 3 2017 Composition: Mike Mulshine Neuron model audio synthesis: Jeff Snyder and Aatish Bhatia Projection: Drew Wallace
The pack comes with 20 tracks, with everything from ambient to minimal to cheesy techno to synth-generated halloween sound fx. All of the original source code is included in case you are curious to see what these compositions look like in their original state.
Dmitri N. Smirnov: String of Destiny (Piano Sonata No.4) Op.124 (2000). Alissa Firsova – piano
One-movement piano Sonata No. 4 was completed on 15th of April 2000 at St Albans. I played it to my daughter Alissa Firsova whom I dedicated it. Alissa liked the piece but criticised me for the boring title. She suggested immediately “String of Destiny”, explaining that she feels the piece as an expanding string, which leads to some important point. I did not argue and accepted the new title. Alissa played the Sonata publicly for the first time on 10th of February 2001 at The St Albans Music Club. She also recorded it on CDs (Megadisc MDC-7818, Meladina MRCD-40).
A twitter. An SMS. That’s the challenge. Writing a piece of electronic digital music using only 140 chars of code.
It started as a curious project, when live coding enthusiast and Toplap member Dan Stowell started tweeting tiny snippets of musical code using SuperCollider. Pleasantly surprised by the reaction, and “not wanting this stuff to vanish into the ether” he has recently collated the best pieces into a special download for The Wire.
Of course, to satisfy such a constraint, you need a very compact programming language and SuperCollider is the best choice (see also here). It is an environment and programming language for real time audio synthesis and algorithmic composition. It provides an interpreted object-oriented language which functions as a network client to a state of the art, realtime sound synthesis server.
SuperCollider was written by James McCartney over a period of many years, and is now an open source (GPL) project maintained and developed by various people. It is used by musicians, scientists and artists working with sound. For some background, see SuperCollider described by Wikipedia.
You can download the code snippets here. Note that many of these pieces are actually generative, so if you have a working SuperCollider environment and re-run the source code you get a new (i.e. slightly different) piece of music.
The Fauxharmonic Orchestra produces concerts and recordings of orchestral music at the highest level of aesthetic and technical quality. This “orchestra” consists of the world’s finest sample-based instruments, performed in concert halls and recording studios, directed by conductor Paul Henry Smith.
Using digital instruments The Fauxharmonic Orchestra’s mission is to bring fresh and artistically meaningful experiences of orchestral music to a diverse, world-wide audience.
The conductor, Paul Henry Smith studied conducting with Leonard Bernstein at Tanglewood and with Sergiu Celibidache at the Curtis Institute of Music and in Munich. He has studied orchestration and composition with Richard Hoffmann, Lukas Foss and Steven Scott Smalley. His career is devoted to promoting and improving the digital performance of orchestral music.
Since 2003 he has been perfecting his digital orchestra, accompanying soloists, performing live concerts and creating recordings for composers and filmmakers. His live performances have been supported by Bang & Olufsen and the Baltimore Chamber Orchestra.
Now listen to
Edgar Varèse – Ionisation, performed live by The Fauxharmonic Orchestra at Brandeis University on October 4, 2009. Paul Henry Smith conductor.
Daphne of the Dunes, by Harry Partch, is here recorded for the first time live. Originally the sound track for Madeline Tourtelot’s film Windsong, Partch recorded it alone, by the process of overdubbing. The film, a modern rendering of the ancient myth of Daphne and Apollo, is a classic of the integration between visuals and sound. Partch explains his approach to the score:
“The music, in effect, is a collage of sounds. The film technique of fairly fast cuts is here translated into musical terms. The sudden shifts represent nature symbols of the film, as used for a dramatic purpose: dead tree, driftwood, falling sand, blowing tumbleweed, flying gulls, wriggling snakes, waving grasses.”
Melodic material is short, haunting, and reoccurs motivically. Arpeggiated harmonic texture contrasts melodic sections. Meter is ever changing, almost measure for measure, with pulse sub-divisions of five, seven, and nine common. A trio of the Bass Marimba, Boo. and Diamond Marimba written in 31/16 meter is structured with 5 unequal beats per measure, the beats sub-divided into sixteenths of 5-5-7-9-5. A duet of the Boo and Harmonic Canon is written in a polymeter of 4/4-7/4 over 4/8-7/8. – Notes by Danlee Mitchell
The instruments heard in this recording:
DAPHNE OF THE DUNES
Adapted Viola
Spoils of War
Kithara II
Gourd Tree
Surrogate Kithara
Diamond Marimba
Harmonic Canons II and III
Boo (Bamboo Marimba)
Chromelodeon I
Bass Marimba
Cloud-Chamber Bowls
Pre-recorded Tape
(Note: No more than four instruments are used simultaneously.)
Anthèmes 2 (1997), by Pierre Boulez, has evolved from Anthèmes, a substantially shorter piece for solo violin.
Andrew Gerzso has for many years been the composer’s chief collaborator on works involving live electronics and the two men regularly discuss their work together. He describes the way in which all the nuances in this nucleus of works were examined in the studio in order to find out which elements could be electronically processed and differentiated. As a result, the process of expanding these works is based not only on abstract structural considerations (such as the questions as to how it may be possible to use electronic procedures to spatialize and to merge or separate specific complexes of sound),but also on concrete considerations bound up with performing practice: in a word, on the way in which the instrument’s technical possibilities may be developed along figurative lines.
As a result, Anthèmes 2 provides us with both an analysis and an interpretation of Anthèmes: it is a text in its own right and the same time a sub-text of the earlier piece.
Charles Amirkhanian interviews Pierre Boulez and Andrew Gerzso as part of the Speaking of Music series. Boulez discusses the pros and cons of microtonal music, spatial music, as well as delving into the technical details of his latest work, “Répons”.
Dall’Internet Archive vi segnalo l’Other Minds Archive che contiene materiale storico e contemporaneo, registrato in più di 50 anni di attività e accomunato dall’etichetta di avanguardia.
Da questa collezione vi faccio ascoltare Touch di Morton Subotnick. Composto nel 1969 per il Buchla Electronic Music System, quadrifonico in originale, questo brano si distingue per la qualità audio, notevole per l’epoca e riascoltandolo a tanti anni di distanza, non sembra così invecchiato come molte produzioni di 40 anni fa.
Other Minds Archive is a unique new music resource providing access to historical and contemporary material recorded over a fifty year-plus span. This collection is a not-for-profit service presented by Other Minds, Inc. of San Francisco.
From the Other Minds Archive
Morton Subotnick – Touch (1969, Buchla Electronic Music System, stereo from original quad)
Toru Takemitsu: “Rain Tree Sketch” (1982) – Roger Woodward, piano.
Di Takemitsu abbiamo già parlato. anche perché, sebbene non sia un compositore fondamentale per la musica occidentale (anche se è un personaggio chiave nel suo paese), mi piace. Il suo è uno strano caso: quello di un autore che riesce ad esprimere l’animo orientale utilizzando un linguaggio così lontano dall’oriente come è quello della musica contemporanea occidentale. Ne risulta un’atmosfera che non è né occidentale né orientale, ma conserva dei tratti di entrambe le culture.
L’origine di questo brano per pianoforte solo risale ad un’altra opera di Takemitsu: Rain Tree, per trio di percussioni, del 1981. Quest’ultima, a sua volta, si ispira a una novella di Kenzaburo Oe in cui è descritto un albero con molte piccole foglie, in grado di trattenere l’acqua della pioggia mattutina, tanto da rilasciarla gradualmente durante il giorno, cosicché, anche se il temporale è passato, sotto quell’albero piove (頭のいい雨の木, racconto del 1980 non tradotto; il titolo significa L’intelligente albero della pioggia).
Rain Tree Sketch è fortamente influenzato da Messiaen, compositore che Takemitsu ha sempre amato, tanto da dedicargli un Rain Tree Sketch II dopo aver appreso della sua morte.
Qui Takemitsu usa i modi a trasposizione limitata del compositore francese per definire le altezze. Dinamiche e accenti, così come la pedalizzazione, sono precisamente notati al fine di creare una varietà di sfumature e di risonanze.
I paint the white as well as the black, and the white is just as important. What the American painter Franz Kline (1910-62) said about his paintings – brusque, black brush gestures on a white background – can be applied equally to Morton Feldman’s compositions. Composition means defining sound space, and this is done just as much with the “black” of the notes as, ex negativo, with the “white” silence, the absence of sound. In its reduction of sound elements, its new balance of sound and not-sound, Feldman’s music attains the magical, floating quality that the composer admired in the early – nonfigurative – paintings of his painter-friend Philip Guston (1913-80): the complete absence of gravity of a painting that is not confined to a painting space but rather existing somewhere in the space between the canvas and ourselves, as Feldman once wrote. Again and again, Feldman noted that the illusion of stasis in his scores could only be understood in the context of his intensive engagement with the visual arts: Stasis, as it is utilized in painting, is not traditionally part of the apparatus of music. […] The degrees of stasis found in a [Mark] Rothko or Guston were perhaps the most significant elements that I brought to my music from painting.
Thus, unlike the graph pieces, the intervals in the sextet For Franz Kline are precisely determined, though the coordination of the sounds is not: The duration of each sound is chosen by the performer, as it says in the foreword to the score. The orientation points on this floating sound canvas are given by recurring phenomena like an unchanging violoncello arpeggio and the b-f#”’ interval that is struck seven times by the piano. If in this piece the uncoordinated simultaneity of sounds is the focus, then in De Kooning (1963) – yet another acoustic homage to a painter – and in Four Instruments (1965), which has similar instrumentation, Feldman is working with the contrast of simultaneous and successive sound events – coordinated chords and loose chains of isolated events. In the case of the latter, a performer is supposed to choose his entrance such that the previous note has not yet faded out: the temporal canvas shouldn’t have any rips in it. Feldman’s balancing act between determinacy and indeterminacy becomes apparent in the seemingly hairsplitting details of the notation: in De Kooning rhythmically free, unbarred passages containing successions of sounds and simultaneous events are interposed with measures of rests with precise indications of tempo (!) – the white is no less important than the black (to return to Franz Kline) and is more precisely structured than the “application of the paint”.
[Peter Niklas Wilson, excerpt]
For italian readers:
Chi legge l’italiano può riferirsi anche a questo saggio di Gianmario Borio da cui traggo questa illuminante dichiarazione dello stesso Feldman:
Il mio interesse per la superficie è il tema della mia musica. In questo senso le mie composizioni non sono affatto ‘composizioni’. Si potrebbe paragonarle a una tela temporale. Dipingo questa tela con colori musicali. Ho imparato che quanto più si compone o costruisce, tanto più si impedisce a una temporalità ancora indisturbata di diventare la metafora per il controllo della musica. Entrambi i concetti, tempo e spazio, sono stati impiegati nella musica e nelle arti figurative come in matematica, letteratura, filosofia e scienza. […] Al mio lavoro preferisco pensare così: tra le categorie. Tra tempo e spazio. Tra pittura e musica. Tra costruzione della musica e la sua superficie.
“Music,” says Toshio Hosokawa, “is the place where notes and silence meet.” This identifies his aesthetic concept as a genuinely Japanese one. It is found both in Japanese landscape painting and in the music, such as the courtly gagaku, in which audible sound always stands in relation to nonsound, i.e. to silence. In their rhythmic proportions Hosokawa’s compositions are oriented around the breathing methods of Zen meditation, with their very slow breathing in and very slow breathing out: “Each breath contains life and death, death and life.”
Hosokawa Toshio (細川俊夫) è nato nel 1955 a Hiroshima. Ha studiato composizione in Europa, a Berlino e Friburgo con Isang Yong e Klaus Huber.
Di lui conoscevo solo Circulation Ocean per orchestra. Poi ho trovato questi pezzi per fisarmonica e shō (un organo a fiato tipicamente asiatico; esiste in varie fogge dall’India alla Cina; vedi wikipedia).
Alcuni di essi, come quello che potrete ascoltare, derivano da brani tradizionali del Gagaku, altri sono stati composti da Hosokawa, ma tutti sono modellati su un ritmo lentissimo, con i suoni dei due strumenti, quasi sempre nel registro acuto, che diventano praticamente indistinguibili.
Chaya Czernowin è una compositrice israeliana nata nel 1957. Vive in Austria.
Vi faccio ascoltare Ina, un buon brano con sonorità particolari, per flauto basso e 6 altri flauti (basso e ottavino) preregistrati.
Ulteriori informazioni su di lei si trovano nella sua pagina.
Chaya Czernowin – Ina, per flauto basso e 6 flauti preregistrati
Pacific Fanfare (1996) è un breve brano di Barry Truax composto per celebrare il 25° anniversario della Vancouver New Music Society e del World Soundscape Project, di cui abbiamo parlato qualche giorno fa.
È basata su 10 “soundmarks” registrati nell’ambito del WSP vari anni prima (chi ascolta le nostre proposte sonore riconoscerà subito la sirena della nave con cui iniziava “Entrance to the Harbor” nel post di cui sopra.
Il concetto di “soundmarks” è fondamentale nel lavoro del WSP e designa quei suoni che caratterizzano un determinato paesaggio sonoro. Questi suoni riproposti in Pacific Fanfare sia nella loro versione originale che elaborata mediante riduonatori digitali (una riverberazione artificialmente colorata) e time-stretching (allungamento temporate del suono di solito senza alterazione della frequenza).
George Crumb completed the final revisions for Zeitgeist (Six Tableaux for Two Amplified Pianos, Book I) in 1989. The work is approximately twenty-eight minutes in duration. It was commissioned by the Degenhardt-Kent piano duet. The first performance took place at the Charles Ives Festival in Duisburg, Germany in 1988.
After that. the composer reworked the piece to his liking. Like the rest of the Crumb catalog, this work includes enigmatic sounds and titles for the movements, such as “The Realm of Morpheus (” … the inner eye of dreams”).” The extended techniques involves the players reaching into the piano to attack the strings directly in order to achieve specific timbres that would not otherwise be available from without.
Like many of the composer’s earlier works, elements of the work suggest a coherent and exotic belief system or world view in all its eccentricities. Like his Makrokosmos series for amplified piano(s) in the 1970s, the listener is often drawn to the poetic allusions as potential clues to unlocking the arcane secrets of the composer’s mind.
The sound suggests some very concrete ideology or mystic purpose behind his clear yet unique musical formations. Webern had his naturalist Catholicism; Crumb’s point of departure is anybody’s guess. Part of its enduring interest is its lack of posturing. Scriabin, for example, reveled in the role of the eccentric, mystic genius, and played it up. Satie did something similar, though in a more modern and self-stylized way that was grounded in the Rosicrucians. It was less of a romantic cliché than was the hackneyed persona of his Russian peer.
Crumb has all the interior components of a similarly mystical artistic personality but none of the mannerisms or apparent affiliations. He is the anchor of his own spirit, and nothing else resembles his art, with the exception of a plethora of imitators.
When listening to a work such as Zeitgeist, being a world famous artist does not sound preoccupying to the composer. There is compassion to his music that does reflect back upon him as a leader of any wounded aesthetic congregation, as if he does not regard himself as the vital part of an equation consisting of listener, performer, and composer.
Above all, Crumb’s music is American. More precisely, it is nocturnal, pastoral Americana of the highest caliber, revealing a deeply compassionate, inquisitive, and independent imagination. A work such as Zeitgeist does not have more in common with the work of most composers from the United States than it does with the Europeans, with the exception of Charles Ives.
There is little in the scores themselves that verify this connection, but both demonstrate a relationship to the land that is difficult to pin down but easily recognized. Crumb uses fewer indigenous references than Ives, though the Zeitgeist’s fifth movement contains bits of an Appalachian folk song. It could be said that both composers felt less bound to music history than other composers; neither man sounds determined to either break with tradition or serve it.
The music simply is, and that is a rare quality. Even if the listener accepts these rather speculative conjectures, questions remain. Why Zeitgeist? What is the deeper meaning of its movements’ individual titles? It is the apparent importance of these questions that proves that the music is engaging. Many listeners are rarely satisfied to know a piece works. The rigor of Boulez’s syntax has everything to do with why the music works, and one can detect what is working by recognizing its nature, if not its particulars. Crumb’s music remains a mystery, a beautiful one, even with repeated listening.
[All Music Guide]
Excerpts: I have already published a post about the 3rd mov. (Monochord) here. Now go listen to the 4th and 6th.
George Crumb – Zeitgeist (Six Tableaux for Two Amplified Pianos, Book I)
Questo, che a prima vista sembra un pianoforte normale (cliccare l’immagine per ingrandire), è in realtà accordato a 16mi di tono.
Sì. Al posto dei normali 2 semitoni, ci sono 16 suddivisioni. Di conseguenza, fra un Do e un Do#, che di solito sono contigui, qui troviamo ben 7 tasti.
La cosa è evidente ingrandendo (click) l’immagine a destra, in cui si vede chiaramente l’intervallo fra un fa (f) e un fa# (fis).
Questo strumento microtonale è costruito dalla Sauter rifacendosi alle teorie del messicano Julian Carrillo (1875 – 1965) che, nel 1895, iniziò a occuparsi di accordature microtonali. Nel 1925 ideò un sistema di notazione e fondò un ensemble che eseguiva brani microtonali insieme a Stokowski, con il quale andò in tour negli anni ’30.
Nel 1940, dopo aver depositato i brevetti di almeno 15 pianoforti microtonali, contattò la Sauter che gli costruì alcuni prototipi presentati, nel 1958, all’Expo di Bruxelles. Oggi due suoi pianoforti, accordati risp. a 1/3 e 1/16 di tono, si trovano al Conservatorio di Parigi. Altri sono a Nizza e a Mexico City.
Il piano a 1/16 di tono è accordato in modo che l’intervallo di quinta corrisponda a un semitono. Di conseguenza, l’intera tastiera copre circa una ottava, il che è sicuramente un limite. Sarebbe interessante pensare a un gruppo di 6/8 strumenti di questo tipo accordati su ottave diverse (ma mi viene un brivido immaginando la fattura dell’accordatore).
Il suono si può ascoltare in un disco da cui vi presento due estratti. Nel primo è subito evidente la peculiarità dello strumento. Val la pena di raccontare che, quando l’ho ascoltato senza sapere niente, ho subito pensato a un pianoforte elaborato digitalmente e mi sembrava interessante dal punto di vista sonoro. Solo quando ho avuto il disco mi sono reso conto che in realtà era uno strumento naturale. Il secondo, invece, non punta immediatamente sull’effetto sonoro. Alla prima nota, sembra un pianoforte normale, ma, dopo pochi accordi, chi ha un orecchio musicale si chiede cosa diavolo stia accadendo (è un po’ spiazzante, in effetti).
Mauricio Kagel – Fürst Igor, Strawinsky (1982)
for bass voice, English horn, French horn, tuba, viola and two percussionists
“Fürst Igor, Strawinsky” was commissioned for the Biennale in Venice on the occasion of the centenary of Stravinsky’s birth. It received its premiere performance in the church on the cemetery-island San Michele, where Stravinsky is buried. As hinted in Kagel’s note for the Biennale programme, the sacred, theatrical ambience of this location was a lasting source of inspiration to the composer, who is especially susceptible to spectular sites. However, it proved impossible to carry out Kagel’s original vision of a funeral procession of gondolas transporting the audience to the performance: a thunderstorm erupted at precisely the wrong moment, bringing this cortege to nought. All that remained was the concert in the cemetery chapel.
The piece is scored for a chamber ensemble of bass voice, English horn, French horn, tuba, viola and two percussionists. The instruments lie in the middle and low registers, creating a plush, darkening sound. Besides the conventional percussion instruments, there is also a series of unusual sound-producing devices of indefinite pitch such as iron chains, cocoanut shells, the roaring of lions, wooden planks, an anvil, ratchets and metal tubs. These too have largely a muffled timbre. Kagel – who once referred to timbre as the “paramount material” of a work – here proceeds from a precisely conceived sound-image with associations related to the meaning of the composition. This sound-image is expressed not only in the choice of instruments, but also in the numerous performance instructions included in the score with the aim of making the composer’s intentions as unambiguous as possible.
The text derives from Borodin’s opera “Prince Igor”. Apart from a few repetitions to heighten the expression and a cut required for the sake of compression, the composer retains the whole of the text to Igor’s aria in Act 2, in which the captive Prince sings of his despair at his own fate and that of prostrate Russia. A comparison of Kagel’s setting and Borodin’s original, however revealing of Kagel’s methods, cannot be undertaken here. However, we can at least give a rough sketch of the way in which the picture of Igor changes in this re-composition. In Borodin’s work the Prince, though imprisoned, is still in possession of his traits as a ruler, while Kagel’s work reduces him to a complainer who has sacrificed, if not his dignity, at least any sense of his station. He gives free rein to his feelings in a Lamento with pronounced elements of self-castigation; ultimately, his deep despair borders on insanity. This is apparent, for example, in a key passage beginning with the words “geschändet ist mein Ruhm” (my fame has been desecrated), to which Kagel devotes three times as much time as Borodin, and also in the dynamic and expressive climax of the work, just after the half-way point, where the soloist, at the words “und dafür gibt man mir die Schuld” (and I am held guilty of this), is told to break out into “desperate, distorted laughter”. In the long crescendo which precedes this climax the voice part, which had previously been notated precisely, is rendered only in approximate pitch-curves – the inner turmoil bursts the form.
Although this piece is unusually expressive by Kagel’s standards, it cannot simply be pigeon-holed as an “expressive composition”. Kagel’s espressivo capsizes into the grotesque. One sign of this is the nagging, crazed, laughing sounds required of the instruments; another is the direction to the soloist during the preceding crescendo to be “excessively dramatic”, and Kagel’s helpful suggestion that he try to caricature classical Japanese theatre. Seriousness and irony, tragedy and ridiculousness merge in this paradoxical piece, and Kagel makes use of the shifting expression like a mask behind which lie his feelings, now hidden, now exposed. It is not only in the pun of the title, in the neo-classical figures such as scalar passages and parallel 7th chords, but also in this masquerade that Kagel reveals his spiritual affinity with the secretive dedicatee of his piece.
Max Nyffeler (Translation: J. Bradford Robinson)
Mauricio Kagel: Speech delivered on 5 October 1982 in the Chiesa di San Michele in Isola, located in San Michele Cemetery, Venice, on the occasion of the world premiere of “Fürst Igor, Strawinsky”.
Dear Friends and Strangers,
The news of Stravinsky’s burial in Venice gave me pause at the time to consider whether a touch of the master’s irony might also be buried in this wish of his. He was so fond of the damp – especially of that kind which is surrounded by glass – that it must have given him untold pleasure to have found his final resting place in this unique city where dampness is ever-present. We, too, who honour his memory today in our jovial manner, should take satisfaction in his decision: Stravinsky is ideally preserved in Venice, and forever within easy reach of one of the most crucial necessities of his former daily existence.
And yet – what ambiguity!
For it was precisely in the dryness, the objectivity of his music that Stravinsky – that grandseigneur of the mind and body, never content unless food and service were of the highest calibre – discovered that dimension which enabled him to turn his eye inward with such infinite profundity. His works are living documents of an apparent dichotomy. Passion and computation, unfettered inspiration and rational ingenuity, the sacred and the heathen – all mutually fertilize each other to produce an oeuvre which is well described by several expressions from the musicians’ lingua franca :sempre con passione ma senza rubato; con molta tenerezza ma non piangendo; con piacere, mai a piacere; musica pratica ma non tanto, musica poetica al piu possibile, musica viva da capo al fine.
For me, it is of course a great distinction to honour Stravinsky on this occasion and in this public forum. I belong to a generation of composers who were left with the unpleasant legacy of a family feud to which, pro or contra, we had in fact nothing new to contribute. The choice posited in Schoenberg’s canon “Tonal oder Atonal” has long, indeed has always been a question of sensibility and intelligent application rather than a hard and fast principle. Today, we no longer bother our heads by confusing a method of composition with the aesthetic of craftsmanship. I hope this will remain so in music history for a long time to come.
Stravinsky had much to offer all of us who practice music as a mental discipline. For this reason, we composers – who view the possibility of musical expression as a confirmation for many things that make our lives worth living – are very much in his debt. The very existence of a classical composer – particularly (sarcasm notwithstanding) a “classical modern” composer – is a clear challenge to anyone dedicated to the discovery of new, present worlds of music. It is my firm hope that my “Fürst Igor, Strawinsky” will prove to our honoured forebear that a goodly portion of his ‘attitude and doctrine consisted nor merely of contradictions and opposites, but also of a high-minded twinkling of the eye. In this sense my work is intended as an homage, without ambiguity: senza doppio (colpo) di lingua.
Questo brano è ben noto ai cultori di musica contemporanea, ma lo proponiamo per la sua importanza storica. Il testo è tratto da wikipedia inglese (nella vers. italiana non c’è).
Threnody to the Victims of Hiroshima (Tren ofiarom Hiroszimy in Polish) is a musical composition for 52 string instruments, composed in 1960 by Krzysztof Penderecki (b. 1933), which took third prize at the Grzegorz Fitelberg Composers’ Competition in Katowice in 1960. The piece swiftly attracted interest around the world and made its young composer famous.
The piece-originally called 8’37” (at times also 8’26”)-applies the sonoristic technique and rigors of specific counterpoint to an ensemble of strings treated unconventionally in terms of tone production. Penderecki later said “It existed only in my imagination, in a somewhat abstract way.” When he heard an actual performance, “I was struck by the emotional charge of the work…I searched for associations and, in the end, I decided to dedicate it to the Hiroshima victims”. Tadeusz Zielinski made a similar point, writing in 1961, “While reading the score, one may admire Penderecki’s inventiveness and coloristic ingeniousness. Yet one cannot rightly evaluate the Threnody until it has been listened to, for only then does one face the amazing fact: all these effects have turned out to serve as a pretext to conceive a profound and dramatic work of art!” The piece tends to leave an impression both solemn and catastrophic, earning its classification as a threnody. On October 12, 1964, Penderecki wrote, “Let the Threnody express my firm belief that the sacrifice of Hiroshima will never be forgotten and lost.”
The piece’s unorthodox, largely symbol-based score directs the musicians to play at various vague points in their range or to concentrate on certain textural effects, and they are directed to play on the wrong side of the bridge, or to slap the body of the instrument. Penderecki sought to heighten the effects of traditional chromaticism by using “hypertonality”-composing in quarter tones-to make dissonance more prominent than it would be in traditional tonality. Another unusual aspect of Threnody is Penderecki’s expressive use of total serialism. The piece includes an “invisible canon,” in 36 voices, an overall musical texture that is more important than the individual notes, making it a leading example of sound mass composition. As a whole, Threnody constitutes one of the most extensive elaborations on the tone cluster.
Longplayer is a one thousand year long musical composition. It began playing at midnight on the 31st of December 1999, and will continue to play without repetition until the last moment of 2999, at which point it will complete its cycle and begin again. Conceived and composed by Jem Finer, it was originally produced as an Artangel commission, and is now in the care of the Longplayer Trust.
Longplayer can be heard in the lighthouse at Trinity Buoy Wharf, London, where it has been playing since it began. It can also be heard at several other listening posts around the world, and globally via a live stream on the Internet.
Longplayer is composed for singing bowls – an ancient type of standing bell – which can be played by both humans and machines, and whose resonances can be very accurately reproduced in recorded form. It is designed to be adaptable to unforeseeable changes in its technological and social environments, and to endure in the long-term as a self-sustaining institution.
At present, Longplayer is being performed by a computer. However, it was created with a full awareness of the inevitable obsolescence of this technology, and is not in itself bound to the computer or any other technological form.
Although the computer is a cheap and accurate device on which Longplayer can play, it is important – in order to legislate for its survival – that a medium outside the digital realm be found. To this end, one objective from the earliest stages of its development has been to research alternative methods of performance, including mechanical, non-electrical and human-operated versions. Among these is a graphical score for six people and 234 singing bowls. A live performance from this score is being prepared for September 2009. See here for more information.
Longplayer was developed and composed by Jem Finer between October 1995 and December 1999, with the support and collaboration of Artangel.
A 56kbps live stream can be heard by clicking (or right-clicking) here:
Per ascoltare un live stream del brano, cliccate qui:
Negli anni ’70, Cornelius Cardew, fino ad allora uno dei più importanti compositori inglesi, pioniere dell’utilizzo di partiture grafiche e dell’improvvisazione, assistente di Stockhausen dal 1958 al 1960, ebbe una improvvisa conversione politica al Comunismo (per la precisione aderì al Communist Party of England (Marxist-Leninist)) che lo portò a condannare lo sperimentalismo come elitista (att.ne: non etilista), a scrivere il suo famoso libello “Stockhausen Serves Imperialism” e a scrivere musica per le masse, ideologicamente orientata, come questa:
Cantéodjayâ was written in 1948. Messiaen had long been interested in Hindu rhythms, relying on the listing of 120 such rhythms in the thirteenth-century Sangitaratnākara of Sarngadeva.
The score includes names drawn from this work and from Karnatic musical theory, the latter including the title of the work, indicating the element with which the piece opens, interspersed with intervening material.
The sixth appearance of this characteristic rhythm and figuration is followed by three brief refrains, a first couplet, a return of the first refrain and a second couplet. There follows the second refrain and third couplet, including a six voice canon. The first and third refrains are heard before the final return of the original cantéyndjayâ.
The work contains elements further explored in the Mode de valeurs et d’intensités. At a first hearing a listener unfamiliar with the style of writing might do worse than keep in mind the opening phrases, although the general form is one rather of superimposition than extensive repetition and development.
[Keith Anderson]
Neumes rythmiques (Neumi Ritmici) è il terzo dei Quattro Studi sul Ritmo di Olivier Messiaen, che comprendono anche il famoso Modi di Valori e di Intensità, ma è stato il primo ad essere terminato (1949).
In realtà il termine Neuma Ritmico è paradossale, perché i neumi sono una notazione melodica, ritmicamente indefinita, o, almeno, non definita con precisione. Qui, però, Messiaen opera una trasposizione e descrive così il brano:
Osservando le differenti figurazioni dei neumi nel canto piano, ho avuto l’idea di cercare delle corrispondenze ritmiche. La sinuosità melodica indicata dai neumi si muta in gruppi di durate. Ogni neuma ritmico è provvisto di una intensità fissata e di risonanze cangianti, più o meno chiare o scure, sempre contrastanti.
Traduzione mia:
come sentirete chiaramente, questo brano è formato da vari elementi melodico/armonici ben distinti. Ogni elemento è caratterizzato da un certo colore armonico fisso, una certa durata, che in partenza è fissa, e una data intensità, anch’essa fissa.
Così ogni elemento è, per Messiaen, un neuma. In tal modo, la successione dei neumi si tramuta in una successione di elementi, ciascuno con caratteri ben precisi e soprattutto, con una durata fissata. Di conseguenza, una serie di neumi determina una serie di eventi di colore armonico e intensità diverse, ognuno dei quali ha una precisa durata, caratteristica, quest’ultima, importante per il Messiaen dei Quattro Studi sul Ritmo, come il titolo suggerisce.
A complicare le cose, le durate subiscono delle mutazioni nel corso del brano. In una serie di neumi si espandono di un piccolo valore fisso, in un’altra cambiano seguendo una serie di numeri primi, mentre in una terza restano fisse.
Al di là della curiosità, questo studio è molto importante perché deriva dalla Cantéodjayâ, un lavoro basato sui talas (ritmi) indù che vi presenterò più avanti e anticipa l’inserimento dei canti degli uccelli, ognuno dei quali è assimilabile a un “neuma ornitologico”, nel senso che è un oggetto in sé dotato di caratteristiche ben precise.
Morton Feldman – The Turfan Fragments (1980), for chamber orchestra
The Turfan Fragments is pitched for a reduced chamber orchestra and marks the beginning of a pause in Feldman’s writing for orchestra that lasted a half decade (until he resumed it with Coptic Light).
The title refers to a significant trove of manuscripts in various languages discovered by German researchers in the early 20th century along the ancient Silk Road and which had been hidden away during the war. Feldman likely saw some of the collection when parts of it were again made available in Berlin, where he lived in the early 1970s. Feldman’s delicate stitching together of fragmentary but elusively repetitive particles hints at the enigmatic character of their namesake.
Feldman’s score repeatedly asks for an intensely subdued dynamic field (ppppp) which belies the tension of its chromatic blurs of dissonance and shifting pulsations. There are no violins to sweeten the palette, giving Feldman’s pointillist chords a tangier sound. Like Rothko’s lozenges of color, the musical fabric slowly draws out slight variations in perspective as fragments intersect and become absorbed into the whole, leaving us to savor their resonance.
A series of archaeological expeditions to East Turkestan, conducted by Sir Aurel Stein in the early part of this century, unearthed several fragments of knotted carpets dating from the third and sixth centuries. Though these fragments were too small to indicate either its design or provenance, they did convey a long tradition of carpet weaving. This is to a large degree the extended metaphor of my composition: not the suggestion of an actual completed work of “art”, but the history in Western music of putting sounds and instruments together.
Luigi Nono A Carlo Scarpa architetto, ai suoi infiniti possibili (1984)
per orchestra a microintervalli.
Sinfonieorchester des Südwestfunks, Michael Gielen, direction.
A Carlo Scarpa architetto, ai suoi infiniti possibili è opera dell’ultima vertiginosa stagione creativa del compositore veneziano, segnata dall’assoluta libertà formale, da un tessuto musicale fatto di lancinanti frammenti e importantissimi silenzi divarie sfumature, di anticipi e tensioni a quello che ancora mancao a quello che a fatica si ode. Dopo i trent’anni di una splendida stagione creativa, dai contenuti umanissimi e politici, Nono approda all’Unklangbar di Wittgenstein, alla violenza espressiva dell’irresonabile (come può tradursi il neologismo wittgensteiniano). Il compositore, anima autenticamente rivoluzionaria, intesse le sue partiture di pianissimo (sino a sette p!) contro la violenza non solo acustica del quotidiano contemporaneo ma anche contro la violenza di un passato musicale spesso subìto, cerca un “mondo lontanissimo e misterioso […] per sognare vari possibili futuri”. Il lavoro compositivo è sempre più fatto con altri, che sia l’Iperuranio di menti elevate che abitano gli studi, le letture e il lavorìo intellettuale del compositore, che sia fisicamente il lavoro sperimentale fatto con i musicisti interpreti, ormai consustanziale all’idea creativa: “ascoltare nel silenzio gli altri l’altro”. Il suono si carica del senso dell’essere e la sua naturale evidenza, non piegata da ragioni formali, crea una condizione di tensione permanente sentita come l’unica autenticamente umana. Evidentemente non c’è nulla di superfluo in questi luoghi sonori di arrischiata immaginazione. Se già del Canto sospeso erano stati rilevati la concentrazione eloquente e il riserbo, le isole di suono dell’ultima produzione, “infiniti colori-suoni-echi-spazi”, sono le illuminazioni di un mistico. E Nono trova il motto del suo ultimo ciclo di lavori, “caminantes, no hay camino, hay que caminar” a Toledo nel chiostro di un convento francescano del XVIII secolo.
In A Carlo Scarpa risuona l’utopia degli infiniti possibili, in perfetta consonanza col lavoro creativo dell’architetto amico, che parimenti usava dello spazio come elemento compositivo. Una natura aristocraticamente artigianale, il genio per i dettagli tecnologici, la raffinata sensibilità materica e la tensione creativa verso spazi possibili (e impossibili) avvicinano Scarpa a Nono, che nell’opera in memoria dell’amico realizza i suoi frammenti su due sole note mosse da microintervalli di 1/4, 1/8 e 1/16 di tono, sugli aloni e gli “infiniti colori-suoni-echi-spazi” derivati da una impressionante gamma di dinamiche: “Microintervalli di altezza e di dinamica sono tecnicamente possibili evitando banali approssimazioni ed effetti inquinanti di ottave, articolando tecnica e qualità del suono, vari gradi di sua presenza-pensiero, varie gradualità possibili tante, tutte da poter ascoltare”.
L’orchestra è attentamente pensata: mancano gli oboi e la tuba e sono rafforzati i flauti e i tromboni, il gruppo ascetico delle percussioni (campane, timpani e 7 triangoli di diversa altezza) è come un’orchestra Zhou (Cina 1075-221 a.C.) e gli archi senza secondi violini sono otto per sezione. Ne nasce un’opera ieratica, di spazi cupi e sacri che potrebbero essere occupati da silenziosi e misteriosi rituali.
Non si può tacere il nome di Scelsi parlando di un lavoro sulle variazioni microtonali di due unici suoni, e tutto sommato il nome di Scelsi getta luce sul percorso estremo di Nono legato a tante fascinazioni alchemiche, al confine del non poter dire – un processo che Cacciari, che così spesso ha trovato all’ultimo Nono le
parole per dire, definisce kenotico, di svuotamento. Dunque anche Nono verso una riduzione che apre l’ascolto di tempi e spazi inauditi; il ricercare luoghi sonori abitati da una tensione verso l’infinito avvicina Nono a Scelsi, e a Scarpa, come Scelsi più consapevole dell’Oriente presente in tale percorso. Eppure per Nono, diversamente che per Scelsi, non si tratta di una liberazione dal mondo ma di una liberazione del mondo, dall’imposizione che lo condanna al male dell’insignificanza o alla meccanicità dell’accadere, sognando un futuro concretamente possibile, come gli infiniti di Carlo Scarpa, per “non dire addio alla speranza”.
[Luciana Galliano]
Luigi Nono: A Pierre. Dell’Azzurro silenzio, inquietum (1985)
a più cori, per Flauto contrabbasso in Sol, Clarinetto contrabbasso in Si bemolle e live electronics(1985)
Possibilmente ascoltatelo con qualcosa di meglio delle cassettine da computer.
Dedicato a Pierre Boulez per i suoi 60 anni (compiuti il 26 marzo 1985), A Pierre. Dell’azzurro silenzio, inquietum fu eseguito per la prima volta il 31 marzo 1985 a Baden-Baden, con Roberto Fabbriciani, Ciro Scarponi e la realizzazione live electronics dell’Experimentalstudio di Friburgo. La partitura porta la data 20 febbraio 1985.
La collaborazione con Fabbriciani (flauto) e Scarponi (clarinetto) e l’indagine sui loro strumenti ha un posto di grande rilievo nella ricerca dell’ultimo decennio di Nono, nello scavo nella vita interiore del suono compiuto con l’aiuto dell’elettronica dal vivo e di alcuni interpreti congeniali. La ricchezza di armonici del flauto contrabbasso è uno degli aspetti indagati nel pezzo, dove l’apporto degli strumentisti dal vivo e quello del live electronics è difficilmente distinguibile, perché si persegue una compiuta integrazione, una fusione tra suoni dal vivo e suoni elaborati elettronicamente: insieme formano una fascia sonora ininterrotta caratterizzata da un continuo fluttuare, da una mobilità interna delicatissima e incessante, composta nello spazio e per lo spazio, alle soglie tra il suono e l’ “azzurro silenzio”.
Mobilità e spazialità sono aspetti decisivi e spiegano perché Nono può usare a proposito di un pezzo per due strumenti l’espressione ‹‹a più cori››, riprendendo la terminologia veneziana del secolo dei Gabrieli, da lui usata in molte altre occasioni (ad esempio chiamò “cori” i sette gruppi strumentali di No hay camino, hay que caminar…Andrej Tarkovskij).
Scrisse nel breve testo di presentazione:
Più cori continuamente cangianti per formanti di voci-timbri-spazi interdinamizzati e alcune possibilità di trasformazione del live electronics ‹‹Più cori continuamente cangianti››: di questo appunto si tratta. Nella parte dei due solisti, con dinamiche quasi sempre comprese tra “piano” (p) e “pianissimo” (ppppp), con rare incursioni fino al “mezzo forte”, è richiesta una continua varietà di modi di emissione, dal suono in emissione ordinaria a quello in cui prevale il rumore d’aria, con presenza variabile o assenza di altezze determinate, dai sovracuti suoni “eolien”, ai suoni con fischio, ai cluster, ai bicordi di armonici, dove talvolta dovrebbe apparire, come intermittente, discontinuo “suono ombra”, il suono fondamentale dei bicordi.
L’elettronica, determinante per l’articolazione nello spazio, aiuta a rendere percepibili i suoni degli strumenti, di incorporea levità, li trasforma e se ne appropria attraverso il “delay”, facendo in modo che con breve “ritardo” il suono registrato entri a far parte del suono complessivo. Con il delay il suono dello strumento si ascolta anche quando il solista tace, e anche in questa continuità si riconosce un aspetto della fusione tra strumenti ed elettronica che è determinante nel pezzo.
[Paolo Petazzi in cematitalia]
Nota mia:
Il ritardo di cui sopra non è propriamente breve, musicalmente parlando. Si tratta di due delay di 12 secondi, a tratti utilizzati anche in serie per un totale di 24 secondi. In questo modo si crea il continuum sonoro.
Era tempo che qualcuno diffondesse una nuova versione di alcuni brani del ciclo Aus den sieben Tagen, eseguendola indipendentemente dall’autore. In realtà di esecuzioni ce ne sono state, ma poche sono state registrate e diffuse, al di fuori di quelle dirette dallo stesso Stockhausen (oggi ne possiamo vedere alcune grazie a YouTube).
La difficoltà è data dal fatto che i brani che fanno parte di Aus den sieben Tagen, composti nel Maggio 1968, sono definiti dall’autore come “musica intuitiva”, cioè musica prodotta mediante l’intuizione, più che dall’intelletto.
La partitura di ciascuno di essi si compone unicamente di una breve serie di istruzioni comportamentali, spesso di carattere esoterico, che richiedono all’esecutore anche un impegno meditativo non banale, a volte tale da portarlo vicino allo stato del Buddha («…arriva a uno stato di non pensiero…»).
Un esempio è il seguente, che si riferisce a Setz die Segel zur Sonne:
Play a tone for so long
until you hear its individual vibrations
Hold the tone
and listen to the tones of the others
– to all of them together, not to individual ones –
and slowly move your tone
until you arrive at complete harmony
and the whole sound turns to gold
to pure, gently shimmering fire
Ora un gruppo di improvvisatori francesi, noto con il nome di Le Car de Thon, ha eseguito tre brani pubblicati dalla netlabel Insubordinations. Qui vi faccio ascoltare la loro versione di Setz die Segel zur Sonne (att.ne: inizia pianissimo e cresce). L’intero album è scaricabile qui.
Le Car de Thon – Setz die Segel zur Sonne
Esecutori:
Yannick Barman: trompette
Brice Catherin: violoncelle et électronique
Vincent Daoud: saxophone
Jean Keraudren: spatialisation et effets
Christian Magnusson: trompette
Benoît Moreau: clarinette
Luc Müller: percussions
Cyril Regamey: percussions
Jocelyne Rudasigwa: contrebasse
Sonorità Liquide è una proposta del gruppo Handmade Music, dedito alla progettazione e costruzione di strumenti elettroacustici e sculture sonore.
Il filmato, che spiega anche il funzionamento delle sculture sonore, si riferisce alla rassegna del 2007, rinnovata, con altre installazioni, pochi giorni fa, il 15 luglio, sempre alla Casa da Música a Porto.
I patch di composizione algoritmica e di sintesi sono sviluppati in Max/MSP mentre i sensori sono stati elaborati basandosi sull’Arduino board. Ideazione e realizzazione di Rui Penha con la collaborazione di Luís Girão.
Dopo una visita alla Biennale di Venezia, Andreas Bick ha composto un brano formato unicamente dai suoni dei vaporetti. I vaporetti sono una parte fondamentale del paesaggio sonoro veneziano e spesso sono vissuti con fastidio (io li chiamavo “grande sforzo, piccolo movimento”), ma qui diventano una sogente sonora ricca e interessante.
Music that is tonal and intensely contrapuntal inspired by New Orleans and classical music traditions.
Se così fosse, non sarebbe molto interessante per me. Ma poi, invece, estrae dal cappello un brano come questo:
Sonic rainbows descend from the clouds of the Eroica. The beginning of Beethoven’s Third Symphony hyper-spatially paraphrased through time extension, pitch warpings and deep space phase-shifting effects; immensely vast, sublime, beyond…
[…]
Credits: Ludwig van Beethoven, musical vision. Realized in part with SuperConductor software. Eroica Symphony interpeted by Dr. Manfred Clynes. Adjuctant consultant/composer Elsie Russell. Csound realization with reverb and phase-shifting orcs by Sean Costello; Feedback Delay Network Reverb model from Julius O. Smith, III.
Queste bellissime immagini (clicca per ingrandire) si riferiscono a un sintetizzatore modulare + sequencer & switchboard in perfetto stile steampunk. A quanto ho capito, questo oggetto è stato costruito da tale Christian Günther per Moritz Wolpert, già noto per il suo Heckeshorn, uno strumento a corde pizzicate o percosse, di foggia altrettanto steampunk, di cui potete vedere alcuni video qui sotto.
Si tratta, in pratica, di una slide guitar arricchita da un capotasto mobile al posto del tubo infilato nel dito. La musica è banalmente tonale, ma è talmente minimale e priva di fronzoli da risultare piacevole.
The music does proceed in traditional ritornello fashion, with statements by the violin being followed by answers from the orchestra, and so on. Rarely does the soloist play with the full orchestra. Xenakis had by this point written a number of pieces for the violin, both as a solo instrument (Mikka, Mikka “S”) and in a chamber context (Dikhthas, Ikhoor, Tetras, etc.). The solo part, then, is extraordinarily virtuosic, as any good concerto should be, but many of the technical difficulties are peculiar to this composer’s style. After a lengthy hiatus from using his characteristic sliding string glissandi (the solo violin piece, Mikka (1971), is nothing but glissandi!), Xenakis reintroduced the glissando in this piece. Indeed, this style of playing is one of the main features of the solo part in Dox-Orkh. The music proceeds episodically, the sinewy, at times frenetic, lines of the violin trading off with dense orchestral sonorities. Xenakis uses clusters widely, playing off the bright colors of high woodwinds with massive string blocks and aggressive brass sounds. There is what might be thought of as a typical “slow” movement in the middle of this continuous piece. The texture thins, leaving the violin and the horns to unfold a rather plaintive, modal-sounding melody. The melody is also the harmony, a tricky feat achieved by overlapping the instruments and having each sustain its melodic note past the next one. The violin, too, is asked to sustain a note on one string while playing the next note on an adjacent string, holding the first one until the note following. No doubt it is difficult for the violinist to keep fingers from getting tied in knots! The strings fill out a background pad at different points in this section, gradually increasing the activity until the texture changes definitively. As the music builds momentum and density, Xenakis inserts a funny little dance break, with cluster chords being bounced around the orchestra in rhythmic fashion. Not regular rhythms, but it certainly seems so at first hearing. The music winds up, building to a powerful orchestral passage, then dissipates, finishing with grating double-stops in the violin, and soft, slow-moving clusters in the orchestral strings.
Gubaidulina’s entire piano output belongs to her earlier compositional period and consists of the following works: Chaconne (1962), Piano Sonata (1965), Musical Toys (1968), Toccata-Troncata (1971), Invention (1974) and Piano Concerto “Introitus” (1978). Some of the titles reveal her interest in baroque genres and the influence of J.S. Bach.
The Piano Sonata is dedicated to Henrietta Mirvis, a pianist greatly admired by the composer. The work follows the classical formal structure in 3 movements: Allegro (Sonata form), Adagio, and Allegretto. Four motives (pitch sets) are utilized throughout the entire sonata, which also constitute the cyclical elements upon which the rhetoric of the piece is constructed. Each motive is given a particular name: “spring”, “struggle”, “consolation,” and “faith.”
There are two elements in the primary thematic complex of the first movement: (1) a “swing” theme, characterized by syncopation and dotted rhythms and (2) a chord progression, juxtaposing minor and major seconds over an ostinato pattern in the left hand. The slower secondary theme introduces a melodic element associated with the ostinato element of the previous theme. In the development section, these sets are explored melodically, while the dotted rhythm figure gains even more importance. In the recapitulation, the chord progression of the first thematic complex is brought to the higher registers, preparing the coda based on secondary theme cantabile element, which gradually broadens. The second movement shifts to a different expressive world. A simple ternary form with a cadenza-AB (cadenza) A, the B section represents an acoustic departure as the chromatic figurations in the left hand, originating in section A, are muted. In the cadenza the performer improvises within a framework given by the composer, inviting a deeper exploration of the secrets of sound. It consists of two alternating elements- open-sounding strings, stroke by fingers, with no pitch determination, and muted articulation of the strings in the bass register-separated by rests marked with fermatas. The third movement is constructed of 7 episodes, in which there is a continuous liberation of energy accumulated during the previous movement.
Musical expression in this work is achieved through a variety of means. Rhythm is a very important element in the construction of the work, articulating a distinct rhetoric, as well as in the development of the musical material. Exploration of a wide range of sounds, within the possibilities of the instrument, involving both traditional and nontraditional methods of sound productions are another important mean.
Some examples of the nontraditional sounds produced are a glissando performed with a bamboo stick on the piano pegs against a cluster performed on the keyboard, placing the bamboo stick on vibrating strings, plucking the strings, glissando along the strings using fingernail, touching the strings creating a muted effect.
Two distinct aspects of the sonata-the driving force and the meditative state-can be seen through the architecture of the work as portraying the image of the cross. The first movement is related to the “horizontal” line, which symbolizes human experience while the second movement reflects the “vertical” line, which represents man’s striving for full realization in the Divine. The meeting point of these two lines in music happens at the end of second movement, and that reflects transformation of the human being at crossing this two dimensions. The third movement “celebrates the newly obtained freedom of the spirit”.
Nel Buddismo Theravada, Anagamin significa “uno che ritorna una sola volta”, cioè qualcuno che è sfuggito al ciclo delle morti e delle rinascite ed è destinato a reincarnarsi soltanto una volta ancora, prima del Nirvana [Britannica online].
Dal punto di vista musicale, si tratta di un brano per 12 archi composto nel 1965, una meditazione intorno a una sola nota, tema caro a Giacinto Scelsi.
Questa volta la nota centrale è il SIb che si riflette anche nell’accordatura del due violoncelli, l’uno innalzando la corda più acuta, LA, a SIb, mentre l’altro abbassa di un tono il DO grave.
The new album by Vladislav Makarov “Multiplying Real – Multicello”, (c) makART rec. 038
Makarov is a pioneer free improvised music in Russia, the known cellist-experimentalist, this is a solo work, but not quite usual. 20 short pieces recorded with using the usual analog delay, but with mass author’s preparations such as the objects in strings, wooden, bamboo and plastic sticks, combs, straightedges of the miscellaneous format, as well as makarov’s branded receiving playing on cello as on guitar, referring us from hard-rock to technic great english musician Derek Bailey. The album as a whole carries the experimental character, but many acceptances Makarov used repeatedly above-ground performances. All the pieces have a different invoice and expression, but collected in conceptual album, subordinated powerful direction of the author. Many the tracks can cause the shock and perplexity, but the electric cello here sounds as whole orchestra in spirit of avantgarde composer Xenakis or Stokhausen. Stylistic and genre of the work it is difficult to define, it obviously much broader notorious free improvisation, but is an colours by the palette all radical styles our time from freejazz, avant-rock up to noise and drone…
“Written in 2003, On a Windy Day was inspired by wind chimes in Buddhist temples set deep in the mountains of Korea, where I used to visit as a child. I vaguely remember one afternoon hearing the chimes start to ring so softly and randomly that at first I didn’t even notice them. Then the wind got gustier and gustier, and the chimes got louder and faster along with the sound of leaves on the trees surrounding the temple, eventually creating this mass of loud, intense, intricate sound. Then, as soon as the wind calmed down, everything went back to its serene surroundings, yet left me with all those tingling sounds lasting in my ears.
“To emulate this experience, I wrote a descriptive score for metallic percussion and had it performed live a few times by various players; the end result was never satisfactory. However, as soon as I heard John Hollenbeck’s incredible interpretation of this score in a studio, I was more than ecstatic. An idea came to me to add Ikue Mori’s unique electronic sounds and bring even more depth and surrealism to the piece. The final recording is better than I’d ever imagined and feels just like revisiting that windy day from my long-gone childhood.”
[Okkyung Lee]
Okkyung Lee (b. 1975) is a composer and cellist whose music fuses her classical training with improvisation, jazz, traditional Korean music, and noise. Lee was born and raised in Daejon, Korea, and attended arts schools in Seoul. In 1993 she moved to Boston, Massachusetts, where she studied at Berklee College of Music and with Hankus Netsky at the New England Conservatory of Music. Since relocating to New York City in 2000, Lee has been very active in the downtown music scene, performing and recording with artists such as Derek Bailey, Nels Cline, Anthony Coleman, Shelley Hirsch, Eyvind Kang, Christian Marclay, Thurston Moore, Ikue Mori, Jim O’Rourke, Zeena Parkins, Marc Ribot, Elliott Sharp, and John Zorn, among others.
Okkyung Lee – On a Windy Day (2003), for percussion and electronics
Chris Brown‘s (b. 1953) music stems from the intersection of many different musical traditions and styles, including classical music, traditional Indonesian, Indian, Afro-American, and Cuban musics, and contemporary American experimental music. He has worked extensively with electronics, from amplified acoustic devices and analog sound modification to custom-made interactive computer systems. Collaboration and improvisation have played a significant role in the development of his work.
This [Retroscan] is the final section of a larger solo work Retrospectacles, in which the whole range of sounds possible from the piano, including sounds made directly on the strings, the frame, as well as the keyboard, provide sources for live electronic transformation by an interactive computer program. The music is a narrative about memory: each sound evolving out of the last, each playback with constantly varying pitch/time of sounds that have recently passed.
[Chris Brown]
Chris Brown – Retroscan (2003), for piano & live electronics
Chris Brown, piano, live electronics
For Irving Lippel è una composizione del 2004 di John Link (1962), compositore di Boston, allievo di Elliott Carter, aperto a varie esperienze: ha composto lavori per diversi media (orchestra, formazioni cameristiche, jazz ensembles, rock band e sistemi elettroacustici).
Questo brano è una fantasia che esplora le suggestive potenzialità della combinazione chitarra – vibrafono.
Oggi ci occupiamo di Lewis Nielson (che giovane non è, essendo nato nel 1950) e di una sua composizione per orchestra del 2005, chiamata St. Francis preaches to the birds.
Lewis Nielson’s compositional influences include the music of Luciano Berio, Edgard Varèse, and Iannis Xenakis. He is also heavily influenced by a wide range of philosophers including Edmund Husserl, Karl Marx, and Ludwig Wittgenstein, as well as painting, poetry, and film.
Grants and awards for Nielson’s music include the Cleveland Arts Prize, Delius Trust, Groupe de Musique Expérimentale de Bourges in France, Ibla Foundation of Italy, International Society of Bassists, Meet the Composer, and National Endowment for the Arts. Nielson taught for 21 years at the University of Georgia in Athens, and since 2000 he has been on faculty at the Oberlin Conservatory of Music, where he is director of the composition division. His work is recorded on the aca Digital, Albany, Capstone, Centaur, innova, and MMC labels.
Di questo brano l’autore scrive
“The piece is one long phrase. The single ‘phrase’ is kept in motion (perhaps suspension is a better word) through layering and elision of material within the layers … [There is a] gradual transformation from pitched, to less-pitched, to essentially non-pitched material in the solo violin part which, in turn, radiates in widely varying and sometimes very surprising ways throughout the sub-groupings and ‘sections’ of the ensemble.
“The piece is also like a funnel, or thresher, collecting seemingly disparate material, combining it and recombining it, turning one kind of music into another, winnowing out some aspects of an idea and transforming it into something new, resulting a continuous overlapping of ideas … Alternately in support and in contrast to the solo violin music, the other instruments also make musical contributions of their own, even in the act of assimilating or transforming themselves in light of what the soloist provides.
“Two general concepts govern structural growth: communication (or lack or inability thereof) between the soloist and the various ‘sections’ of the ensemble … and transformation of musical material within and between instruments and sections. The work is a long conversation among many individuals and groups, aiming less for a convenient sense of dialogue or dependent relationship between soloist and the rest than for the maintenance of a balance within the various musical ‘languages’ generated. […]
“While I do not intend any kind of direct correlation, the actual legend of St. Francis and his sermons to the birds … can provide, by way of analogy, some approaches to the workings of the piece and some various ways to listen to it … Whether or not one believes other aspects of the St. Francis legend, it’s clear that he sought to hold the birds’ attention, and that they were as eager to understand him as he them. Equally, as he listened to them he took away knowledge of a kind that resists codification while being very meaningful to him. […]
“It will be noted that the work concludes in an unusual manner: to wit, with the soloist leading the ensemble and the conductor seated, playing celesta with the percussionists. Besides making an historical ‘tip of the hat’ to the original leadership functions of the Baroque solo concerto, the soloist at the end embodies the catalytic and transformational agent he has been all along. […]
Eleven Echoes of Autumn was composed during the spring of 1966 for the Aeolian Chamber Players (on commission from Bowdoin College). The eleven pieces constituting the work are performed without interruption:
Echo 1. Fantastico
Echo 2. Languidamente, quasi lontano (“hauntingly”)
Echo 3. Prestissimo
Echo 4. Con bravura
Echo 5. Cadenza I (for Alto Flute)
Echo 6. Cadenza II (for Violin)
Echo 7. Cadenza III (for Clarinet)
Echo 8. Feroce, violento
Echo 9. Serenamente, quasi lontano (“hauntingly”)
Echo 10. Senza misura (“gently undulating”)
Echo 11. Adagio (“like a prayer”)
Each of the echoes exploits certain timbral possibilities of the instruments. For example, echo 1 (for piano alone) is based entirely on the 5th partial harmonic, ehco 2 on violin harmonics in combination with 7th partial harmonics produced on the piano (by drawing a piece of hard rubber along the strings). A delicate aura of sympathetic vibrations emerges in echoes 3 and 4, produced in the latter case by alto flute and clarinet playing into the piano (close to the strings). At the conclusion of the work the violinist achieves a mournful, fragile timbre by playing with the bow hair completely slack.
The most important generative element of Eleven Echoes is the “bell motif” — a quintuplet figure based on the whole-tone interval — which is heard at the beginning of the work. This diatonic figure appears in a variety of rhythmic guises, and frequently in a highly chromatic context.
Each of the eleven pieces has its own expressive character, at times overlaid by quasi-obbligato music of contrasting character, e.g., the “wind music” of the alto flute and clarinet in echo 2 or the “distant mandolin music” of the violin in echo 3. The larger expressive curve of the work is arch-like: a gradual growth of intensity to a climactic point (echo 8), followed by a gradual collapse.
Although Eleven Echoes has certain programmatic implications for the composer, it is enough for the listener to infer the significance of the motto-quote from Federico García Lorca: “… y los arcos rotos donde sufre el tiempo” (“… and the broken arches where time suffers”). These words are softly intoned as a preface to each of the three cadenza (echoes 5-7) and the image “broken arches” is represented visually in the notation of the music which underlies the cadenzas.
Di Toru Takemitsu, vi presento questo delizioso Textures del 1964, recuperato da un vecchio vinile.
In questo brano, l’orchestra di 73 elementi è divisa in due gruppi uguali, piazzati da parti opposte rispetto al pianoforte, sistemato in posizione centrale. Questo espediente, coadiuvato dalla scrittura, serve ad ottenere un marcato effetto stereofonico.
La scrittura, inoltre, è solistica fino al livello del singolo esecutore per creare tessiture sonore elaborate e cangianti.
Non è un errore di stampa. Jean Dubuffet (1901-1985), scultore e pittore francese di fama mondiale, ha scritto anche della musica. Più che scritto, però, bisognerebbe usare il termine “realizzato”, trattandosi di musica concreta, in parte di origine strumentale, della quale non esiste alcuna partitura.
Oltretutto, lo stesso Dubuffet dichiara:
I find that true music should not be written, that all written music is a false music, that the musical notation which has been adopted in the west, with its notes on the staves and its twelve notes per octave, is a very poor notation which does not permit to notate the sounds and only allows the making of a totally specious music which has nothing to do with true music. It is impossible to write true music, except with a stylus on the wax, and this is what they do now in recordings.
This is a way of writing and the only one that’s proper to music.
Il suo metodo compositivo, infatti, consisteva nell’improvvisare liberamente con diversi strumenti occidentali e orientali, nonché con oggetti trovati, registrando il tutto, per passare, poi, a una fase di montaggio usando vari registratori e un mixer.
In realtà, Dubuffet aveva studiato musica da giovane, ma poi non l’aveva mai praticata o studiata con continuità. La sua attenzione era stata risvegliata, alla fine del 1960, da una serie di improvvisazioni fatte per divertimento con l’amico Asger Jorn. Ma poi la passione si era risvegliata al punto che
I transformed a room in my house into a music workshop and in the periods between our get-togethers with Asger Jorn I became a one-man band, playing each of my fifty-odd instruments in turn. Thanks to my tape recorder I was able to play each part successively on the same tape and have the machine play everything back simultaneously.
E poi
The subsequent recordings are the result of two diverging approaches which I hesitated between and which are probably both apparent in at least some pieces. The first was an attempt to produce music with, a very human touch, in other words, which expressed people’s moods and their drives as well as the sounds, the general hubbub and the sonorous backdrop of our everyday lives, the noises to which we are so closely connected and, although we don’t realize it, have probably endeared themselves to us and which we would be hard put to do without. There is an osmosis between this permanent music which carries us along and the music we ourselves express; they go together to form the specific music which can be considered as a human beings. Deep down I like to think of this music as music we make, in contrast to another very different music, which greatly stimulates my thoughts and which I call music we listen to. The latter is completely foreign to us and our natural tendencies; it is not human at all and could lead us to hear (or imagine) sounds which would be produced by the elements themselves, independent of human intervention.
Dubuffet dichiara anche:
In my music I wanted to place myself in the position of a man of fifty thousand years ago, a man who ignores everything about western music and invents a music for himself without any reference, without any discipline, without anything that would prevent him to express himself freely and for his own good pleasure.
Da queste improvvisazioni sono nati due dischi che potete trovare in formato flac su AGP74 e AGP79.
L’opera più rappresentativa di François Bayle (di cui abbiamo già parlato qui) messa in linea da Avant Garde Project. Ve la presentiamo qui in un’unica playlist della durata di circa 36′ (putroppo ci può essere un piccolo intervallo fra un brano e l’altro).
L’intera composizione può essere scaricata in formato flac da AGP sia in 16 che in 24 bit.
Lo schema del brano, tratto dalle note di programma, è il seguente:
Appel…
…aux lignes actives
The simplest concrete element, the line, thin and melodic arrives fastest at an abstraction of qualities. Active, passive, or intermediate, the true line is, according to Klee, the line subjected to a strong tension.
…aux notes repetées
Brief, equal, clear values scrabled by the patter of bells emitting call signals. Rigid, transposed, very tense repetition. Followed by a third, deep, abbreviated repetition. Transition, interrupted rubato.
…au jardin
A polyphony of space and colors. Contrast between very brief, delicate fragments–dry versus fluid – and ample quivering sheets having harmonic colors – static versus moving.
…figures doubles
Combination of symmetries. Two contrasting parts – like male and female – organized in series of paired cells. These are varied up to the eighth repetition, where the first element is then brought to a completion. The mirror-repeats are enriched with successive transformations through added harmonics.
Then a new, very dynamic element appears – a man’s mask bringing tidings…
…grande polyphonie
A brief moment in the guise of a preface prepares the final “rappell”. Seven interconnected sections [a me sembrano 5, nota mia; le sezioni sono 7 in tutto] – though it is not immediately clear how they are related. Various sound signals are heard at frequent intervals, making it manifest that the role of the previous polyphonies was to lead up to the final combination. This makes it possible to listen in a musical way with a great deal of freedom, independence, superposing different voices. All the sound spaces used here resemble each other, from the more artificial and abstract ones to the totally concrete ones, which range from bird calls and songs to human calls and songs.
And finally, the initial call signal dissolves in a long breath,
Le ultime due parti di Echoes of Time and the River (Echoes II), di George Crumb ripulite, per quanto possibile, dalle impurità del vecchio vinile. Si intitolano Collapse of Time e Last Echoes of Time.
The most free and fantastic movement is the portentous Collapse of Time. Like the celebrated amphibians of Aristophanes, the string players croak out the nonsense syllables “Krek-tu-dai! Krek-tu-dai!” while the xylophone taps out the name of the composer in Morse code. As the movement proceeds and the underlying pulse falls away, the music heads off into a wide range of special effects – quasi-improvised fragments passed around among the various soloists, notated in circular patterns in the score. The descent into the solitude of the finale, Last Echoes of Time, comes at first as a relief and relaxation from all the foregoing; once the listener is convinced of the retrospective nature of these last pages, he can begin to explore more securely the implications in these echoes of all that has gone before. [Robert McMahan]
Ritual Melodies è una composizione del 1990 di Jonathan Harvey realizzata all’IRCAM.
A dispetto delle sonorità, alcune delle quali a un primo ascolto possono sembrare strumentali, si tratta invece di pura computer music. Tutti i suoni sono generati e manipolati dal computer. Nessuno è stato campionato, se non per fini di analisi e risintesi.
Questo procedimento è stato attuato per creare un materiale sonoro in continua trasformazione. I suoni base del brano sono risintesi di strumenti di origine cerimoniale e/o rituale (es: oboe indiano, campane tibetane, flauto di bambù, frammenti vocali di diversa origine…) le cui caratteristiche vengono poi alterate in fase di sintesi per creare suoni intermedi.
A mio avviso è decisamente un bel brano, sia dal punto di vista compositivo che da quello tecnico. L’unico lato che per me è un po’ disturbante è costituito da alcune sonorità di tipica marca IRCAM, come quel maledetto scampanio sulle frequenze alte, che sarà anche bello a un primo ascolto, ma ormai si trova in quasi tutti i brani realizzati laggiù.
Summer 1981, Lukas Foss began to compose SOLO, his first piano piece in twenty-eight years, for the pianist Yvar Mikhashoff who premiered it in Paris in March 1982. An initial twelve-tone motive reigns. Yet this is not twelve-toone music. The motive is like a theme which undergoes constant change. Nor is this minimal music; in spite of insistent repetitions, each repetition also contains a change implying development, growth and forward movement. Solo is a long development section, “senza sonata”; lumbering, struggling eighth-notes, circling, spiralling, forging ahead, always on the way, never pausing, never giving up, forever closing in on…
In the Spring of 1982, Lukas Foss and the Lincoln Center Chamber Players premiered a new version of Solo at the New World Festival in Miami, Florida. This version has an extended coda in which three other instruments join the piano, after some ten minutes of silent observing of the solo part. The three instruments are a keyboard instrument, a harp or cello and percussion.
The score has the word “Fine” written a bar before the end. This paradox should be explained: the last bar is like an appendage or error–the piano playing on without its master or the phonograph needle (metaphorically speaking) returning to the opening automatically, as the engine stops.
and here the 1982 version, called Solo Observed, with the add of cello (or harp), vibraphone (or marimba), and electric organ (or accordion) after 9/10 minutes.
Un altro brano di Lukas Foss, questa volta per fisarmonica, uno strumento poco comune nella musica contemporanea (con alcune eccellenti eccezioni, es. Gubaidulina).
Il titolo, Curriculum Vitae, si spiega con il fatto che questo pezzo contiene alcune reminiscenze autobiografiche risalenti alla gioventù del compositore che ritroviamo sotto forma di citazioni: una delle Danze Ungheresi di Brahms, la Marcia Turca, l’inno nazista.
Al di là di questi flashback, però, nel brano non ci sono altre citazioni. Anche se alcune sembrano esserlo, come il frammento di tango, in realtà sono false e opera di immaginazione.
È un brano interessante, insieme tragico e comico, tonale e atonale, semplice e complesso.
Lukas Foss, Curriculum Vitae (1977), per fisarmonica sola
Guy Klucevsek, fisarmonica
Lukas Foss, compositore nato a Berlino nel 1922 ed emigrato negli USA con la famiglia per sfuggire al nazismo. Deceduto il 1 febbraio di quest’anno a 86 anni, Foss è tanto conosciuto e apprezzato negli USA quanto poco in Europa.
Eccovi il suo furioso String Quartet no. 3 del 1975, nell’esecuzione del Columbia Quartet (Benjamin Hudson, violin; Carol Zeavin, violin; Janet Lyman Hill, viola; Andre Emelianoff, cello).
Alcune note:
STRING QUARTET NO. 3 is Foss’ most extreme composition; it is themeless, tuneless, and restless. It is probably the first quartet without a single pizzicato since Haydn. The four strings are made to sound like an organ furiously preluding away. The sound vision which gave birth to this quartet may be the most merciless in the quartet literature.
Though some of the pages of the music may look unusual (see image, click to enlarge), QUARTET NO. 3 is notated in every detail. There are no performer choices, except for the number of repeats of certain patterns. Repetition? Actually something is always changing, even in the introduction, which contains only two pitches, A and C, combining in various ways – a kind of prison from which the players are liberated by a sudden all-interval flurry. There follows an extended fortissimo section of broken chord-waves with ever-changing rhythmic inflections. This leads into a rigidly structured pianissimo episode of accelerating and retarding twenote cells. The idea of an exhausting fortissimo followed by an equally unalleviated pianissimo is reminiscent of Beethoven’s Grosse Fuge, a work for which Foss has a special passion. Foss’ pianissimo section is however unmelodic and active. At one point near the end, the musicians are granted the one and only sustained sound; then the frantic waves and counter waves resume, this time in rhythmic unison, each moment of change cued by the first violin. The closing C major chord is neither a peaceful resolution nor a joke, but rather like an object on which the music stumbles, as if by accident, causing a short circuit, which brings the rush of broken chord patterns to a sudden halt.
STRING QUARTET NO. 3 was written for the Concord Quartet who obtained a grant from the New York State Council toward the commission of the piece and premiered it at Alice Tully Hall, New York on March 15, 1976.
La seconda parte di Echoes of Time and the River (Echoes II), di George Crumb. Anche questa “ripulita” dalle impurità del vecchio vinile.
The second movement, Remembrance of Time, begins with the most distant and delicate sounds imaginable (piano, percussion, harp), echoed by a phrase from García Lorca (“the broken arches where time suffers”). Fragments of joyful music erupt from various wind and brass players on stage and off, and the commotion eventually gives way to a kind of Ivesian reminiscence, evoked by serene string harmonics: “Were You There When They Crucified the Lord?”
Nel 1970, mentre l’Europa era in pieno strutturalismo e in America impazzavano minimalismo e grafismi vari, George Crumb scriveva questo Echoes of Time and the River (Echoes II), per orchestra, un brano fortemente emozionale in quattro parti. Il titolo reca l’indicazione Echoes II perché precedentemente Crumb aveva composto Echoes of Autumn (1965).
Qui vi presentiamo il primo movimento Frozen Time che
features a collage of mysterious and muted textures in overlapping 7/8 metric patterns. After a time, three percussionists make their way ritualistically across the stage intoning the motto of the state of West Virginia: “Montani semper liberi?” (Mountaineers are always free); the “ironic” question mark has been added by the composer. The music swells to an intense fff in the middle section with glissandos in all the string parts. As if in answer, the mandolinist exits playing and whispering the same motto darkly as he disappears off stage
[from program notes]
Il brano è stato recuperato da un vecchio vinile molto rovinato. L’ho pulito per quanto possibile, senza intaccare l’incisione, ma la provenienza si sente.
George Crumb – from Echoes of Time and the River, Frozen Time
Octandre è rappresentativo di un modo di comporre tipico di Edgar Varèse, sviluppando e variando piccoli frammenti sonori. Lo stesso compositore lo descrive mediante una analogia con la crescita di un cristallo.
Questo modo di procedere è ben visibile nel corso del primo movimento, mentre il secondo si sviluppa per accrescimento. Gran parte del materiale del terzo, invece, deriva dai primi due, come il tema della tromba del primo movimento o il duetto di oboe e fagotto del secondo.
Octandre, peraltro, è l’unica opera di Varèse divisa in movimenti i cui tempi sono: Assez lent, Très vif et nerveux, Grave-Animé et jubilatoire. Ognuno si apre con uno strumento diverso: oboe, ottavino e fagotto.
Altra cosa interessante in questo brano è l’assenza totale di percussioni, cosa inusuale per Varèse. Il suo tipico ritmare nervoso, però, non scompare ed è affidato ai fiati, nella maggior parte dei casi ai tre ottoni.
Edgar Varèse – Octandre
per flauto, clarinetto, oboe, fagotto, corno, tromba, trombone e contrabbasso (1923) ASKO Ensemble, Riccardo Chailly (1997).
Edgar Varèse – Density 21.5
per flauto solo
Gino Maini, flauto
Scarica articolo: Varese_Maini.pdf
Edgar Varèse – Déserts
per ensemble di strumenti a fiato, percussioni ed elettronica
Ensemble dell’Arena di Verona
Direttore Jukka Isakkila
Mauro Graziani, regia del suono
Installazioni video di Piero Matarrese
Scarica articolo: varèse_déserts.pdf
Olivier Messiaen – Fantasia per violino e pianoforte
Oleksandr Semchuk, violino
Leonardo Zunica, pianoforte
Olivier Messiaen – Oiseaux Exotiques
per pianoforte, ensemble di strumenti a fiato e percussioni
Leonardo Zunica, pianoforte
Ensemble dell’Arena di Verona
Direttore Jukka Isakkila
Scarica articolo: stranocasomessiaen.pdf
…consiste nel fatto che un uomo corpulento, gioviale e ciarliero si metta a scrivere della musica ai limiti dell’udibile. In un secolo rumoroso come il nostro, Morton Feldman ha scelto di essere silenzioso e soffice come la neve.
Feldman iniziò a comporre già negli anni Quaranta, sebbene i suoi lavori giovanili (spesso marcati da una certa influenza di Alexander Scriabin) siano stilisticamente molto differenti da quello che avrebbe composto più tardi, e che lo avrebbe reso universalmente noto per il suo linguaggio affatto personale, differente dalla maggior parte dei compositori a lui coevi.
Fu dopo il suo incontro con John Cage che Feldman iniziò a scrivere musica che non era correlata con le tecniche del passato, né con quelle in voga in quegli stessi anni (in particolare modo lo strutturalismo), utilizzando sistemi di notazione musicale non convenzionali (spesso basati su “griglie” o altri elementi grafici), delegando all’interprete (o al caso) la scelta di determinati parametri (talvolta Feldman determinava in partitura soltanto il timbro ed il registro, lasciando libera la scelta delle altezze all’esecutore, altre volte invece semplicemente specificando il numero di note che debbono essere suonate in determinati momenti, senza specificare quali).
In quell’epoca segnata dal suo interesse nei confronti dell’alea, Feldman applicò anche elementi derivati dal calcolo delle probabilità alle sue composizioni, traendo in questo senso ispirazione da certe opere di Cage come Music of Changes.
A partire dalla metà degli anni Cinquanta, e poi definitivamente dal 1967, per necessità di maggiore precisione nel controllo della sua musica, e per evitare che la particolare notazione venisse travisata come un invito all’improvvisazione, ritornò alla notazione musicale tradizionale. Per il suo frequente utilizzo di ripetizioni, fu spesso ritenuto un precursore del minimalismo.
Trovò spesso ispirazione nel lavoro degli amici pittori legati all’espressionismo astratto, tanto che negli anni Settanta compose numerosi brani (spesso con durate attorno ai venti minuti) sotto questo specifico influsso (tra cui Rothko Chapel del 1971, brano scritto per l’omonimo edificio che ospita opere di Mark Rothko, che potete ascoltare nel video. I dipinti sono, appunto, opera di Mark Rothko, che si vede anche in persona alla fine del video. L’organico è soprano, contralto, coro, viola, percussioni e celesta).
Nel 1977 compose la sua unica opera, Neither, su testo di Samuel Beckett.
A partire dalla fine degli anni Settanta iniziò a produrre lavori molto lunghi (raramente più brevi di mezz’ora, ed anzi spesso molto più lunghi), generalmente composti da un movimento unico, dove la concezione della durata viene dilatata fin quasi a voler annullare la stessa percezione del tempo; questi lavori comprendono Violin and String quartet (1985, due ore circa), For Philip Guston (1984, quattro ore circa), fino all’estremo String quartet II del 1983, la cui durata supera abbondantemente le cinque ore (senza nessuna pausa). La sua prima esecuzione integrale fu data nel 1999 presso la Cooper Union di New York dal Flux Quartet, il quale ha pure registrato lo stesso brano nel 2003 (per una durata totale di 6 ore e 7 minuti). Com’è tipico della sua tarda produzione, questo brano non presenta nessun cambiamento d’umore, rimanendo per la sua quasi totalità su dinamiche estremamente ridotte (piano o pianissimo); Feldman del resto negli ultimi anni ha dichiarato che i suoni di bassa intensità (quiet sounds) erano gli unici che lo interessavano.
[in parte da wikipedia]
Morton Feldman – Neither, Opera in one act (1977)
text by Samuel Beckett
Sarah Aristidou, soprano
ORF Radio-Symphonieorchester Wien
Roland Kluttig, conductor
François Bayle, francese, nato nel Madagascar, allievo e poi assistente di Schaeffer (dal 58 al 62) è uno dei principali esponenti della musica concreta di cui porta avanti la tradizione anche oggi. Ha diretto l’INA/GRM (Marseille) dal 1975 al 1997. Lasciata la direzione dell’INA, ha fondato un proprio studio chiamato Magison in cui lavora attualmente.
Fra i fondatori del movimento acusmatico (musica in cui scompaiono sia l’oggetto generatore del suono che l’interprete). Acusmatiche erano le lezioni di Pitagora, che i suoi discepoli ascoltavano celato da una tenda, senza vederlo restituendo “all’udito la totale responsabilità di una percezione che normalmente si appoggia ad altre testimonianze sensibili”, come scriveva Pierre Schaffer nel suo “Traité des objets musicaux”. L’acusmatica isola il suono dal contesto visivo e lo propone come fenomeno di per se stesso.
Here you can listen to the Espaces inhabitables, d’après Bataille et Jules Vernes (1967)
Continuo’s weblog recupera una bella incisione Wergo del 1985, ormai fuori catalogo, dedicata alle sculture sonore.
I costruttori degli oggetti sonanti rappresentati nel disco appartengono tutti all’area austro-tedesca, selezionati dal critico Klaus Hinrich Stahmer. Vi si trovano compositori come Anestis Logothetis, di origini greco/bulgare, naturalizzato austriaco, già noto per le sue partiture grafiche degli anni ’70, o costruttori di strumenti come Hans-Karsten Raecke, fino a Herbert Försch-Tenge, con un bel brano generato suonando le proprie sculture.
Monochord è una parte di Zeitgeist di George Crumb, una suite per due pianoforti amplificati composta nel 1988, quindi 10 anni dopo l’ultimo libro del Makrokosmos da cui eredita la ricerca sonora fatta di suoni delicati prodotti manipolando direttamente le corde del pianoforte e ascoltabili grazie all’amplificazione.
Registrazione effettuata a Lecce nel 2007. Esecutori Andrea Rebaudengo, Carlo Palese.
The title Vortex Temporum indicates the beginning of the system of rotation, repeated arpeggios and their metamorphosis in various transient passages. The problem here is to enter the depths of my recent research on the use of the same material at different times. The three basic forms are the original event – a sinusoidal wave – and two continuous events, an attack with or without resonance as well as a sound held with or without crescendo. There are three various spectra: harmonics, ‘stretched disharmonics’ and ‘compressed disharmonics’; three different tempos: basic, more or less expanded, and more or less contracted. These are the archetypes that guide Vortex Temporum.
In addition to the initial introductory vibration formula taken directly from Daphnis et Chloe, ‘Vortex’ suggested to me harmonic writings focused around the four tones of the diminished seventh chord, a rotational chord par excellence. Treating each of these tones as leading ones, we obtain the possibility of multiple modulations. Of course, we aren’t dealing here with the tonal system but rather with considerations of what might still be relevant and innovative in this system. The chord about which I’m speaking is thus a common part of the three previously written spectra and determines other displacements.
The piano used in the work is tuned a quarter tone lower, which changes the sound of the instrument, at the same time facilitating the integration within microintervals, which are essential in this work. In Vortex Temporum the three archetypes described above revolve around one fragment and the other in temporary intervals, differing among themselves as among people (the tempo of speech and breathing), whales (spectral time of sleeping rhythms), and birds or insects (extremely contracted time, whose contours become obliterated). Thanks to this imagined microscope, the notes become sound, a chord becomes a spectral complex, and rhythm transforms into a wave of unexpected duration.
The three portions of the first part, dedicated to Gérard Zinsstag, develop three aspects of the original wave, well known to acoustic engineers: the sinusoidal wave (vibration formula); the square wave (dotted rhythm) and the jagged wave (piano solo). They develop the tempo, which can be defined as ‘joyful’, the tempo of articulation, rhythm of human breathing. The isolated piano section reaches the boundaries of virtuosity.
The second part, dedicated to Salvatore Sciarrino, approaches the same material in expanded time. Initial Gestalt appears here only once, spreading throughout the entire part. I tried here to create the feeling of the confused speed inside the slow tempo.
Part three, dedicated to Helmut Lachenmann, introduces a long process allowing the creation of interpolation, which appears between the various sequences. Continuity gradually establishes, and expands, finally becoming a kind of widely conceived projection of the events from the first part. The spectra originally developed in the harmonic discourse of part two expand here to an extent degree, enabling the listener to detect the structure and entrance into other time dimension.
Short interludes are planned between the parts of Vortex Temporum. A few breaths, noises and discrete noises colour the awkward silence, and even the discomfort of the musicians and listeners, who hear their own breathing between he parts. Treating waiting time this way, linking the time of the audience with the time of the work, refers to some of my earlier works, for example Dérives, Partiels or Jour, Contrejour. Here, of course, these tiny noises are allied with the morphology of Vortex Temporum.
Overthrowing the material in favor of pure endurance is a dream, which I have been carrying out for many years. Vortex Temporum is perhaps only a history of the arpeggio in time and space – from the point of view of our ears.
Vortex Temporum was commissioned by the French Ministry of Culture, Ministerium für Kunst Baden-Würtemberg and the Westdeutsche Rundfunk Köln, at the special request of ‘Ensemble Recherche’.
Una delle composizioni più materiche del polacco Krzysztof Penderecki (1933) questa De Natura Sonoris per orchestra che esiste in due versioni, la prima del 1966 e la seconda del 1971. In realtà si tratta di due composizioni diverse, accomunate dalla medesima ispirazione legata alla varietà degli aspetti della natura e al loro evolvere.
Come già nella famosa Threnody, del 1960, per 52 archi (probabilmente il suo brano più noto), Penderecki si adopera per creare nuove sonorità strumentali, soprattutto con gli archi e fa un uso esteso di alcune delle sue tecniche compositive favorite, come quella che si basa sulla libera combinazione di piccole frasi melodiche assegnate dapprima a un ristretto gruppo strumentale, per estendersi, poi, gradualmente a tutta l’orchestra.
Nel secondo brano, inoltre, il compositore utilizza vari effetti percussivi, come quello ottenuto da una sbarra di ferro colpita con un martello e con una sega.
È una musica semplice sotto l’aspetto formale, basata più sull’effetto fonico che su una rigorosa struttura, ma rimane comunque affascinante.
Tierkreis (1974) è una composizione unica nell’universo di Stockhausen perché, da un lato fa un passo deciso verso una semplicità fino a quel momento sconosciuta nella sua produzione, mentre dall’altro è collegata allo Stockhausen più visionario e radicale, quello che si diceva in contatto diretto con il cosmo, arrivando fino a sostenere con decisione il proprio essere alieno.
In origine si trattava di un ciclo di 12 melodie, con uno scarno sviluppo armonico, collegate ai segni zodiacali – il titolo si traduce, appunto, con Zodiaco – destinate ad incarnarsi in forma di carillon inclusi in una pièce teatrale chiamata Musik im Bauch e così uscirono all’epoca su LP DGG.
Il loro ruolo, però, non era destinato ad esaurirsi qui: esse acquistarono in breve una dignità di opera autonoma, da eseguirsi con un qualsiasi strumento melodico, a tastiera o combinazione dei due. La partitura prescrive che l’esecuzione inizi dal segno zodiacale di quel momento per proseguire seguendo l’ordine dello zodiaco fino a tornare al segno di partenza, con il vincolo che ogni melodia deve essere eseguita almeno da tre a quattro volte con variazioni e improvvisazioni.
Di conseguenza, ne furono create molte versioni, con formazioni anche diverse da quella prescritta, alcune per iniziativa di Stockhausen, ma altre sviluppate da vari gruppi di esecutori che spesso si prendono libertà che travalicano le istruzioni del compositore.
In questo modo Tierkreis ha assunto il carattere di opera semiaperta, passibile sia di interpretazione rigorosa, che utilizzabile come materiale da elaborare, al punto che le molte versioni hanno durate ben diverse, che vanno dai 12 ai 63 minuti. L’opera, comunque, mantiene sempre la sua impronta stockhauseniana anche perché le singole melodie pervadono la successiva produzione del compositore.
Stockhausen, infatti, le ha impiegate in altri lavori di ampia portata come l’intera sezione centrale di Sirius, un’opera per soprano, basso, tromba, clarinetto basso e otto canali di musica elettronica del 1975-77, in cui quattro messaggeri stellari giungono da Sirio per portare musica e pace agli uomini. In modo analogo, frammenti delle melodie di Tierkreis si ritrovano anche nella colossale Licht, una serie di opere, ciascuna dedicata a un giorno della settimana.
C’è da dire, in effetti, che la struttura stessa delle melodie è intimamente collegata al pensiero musicale di Stockhausen. Tanto per cominciare, ognuna di esse è centrata intorno ad una nota diversa, perché, se 12 è il numero dei segni zodiacali, 12 è anche il numero delle note nell’ottava. Così, la serie inizia dal LA per il Leone (il segno di Stockhausen), per passare al LA#/SIb per la Vergine, SI per la Bilancia, DO per lo Scorpione, eccetera.
Inoltre la loro velocità metronomica è collegata alla nota di base rovesciando la frequenza di quest’ultima in durata, secondo l’idea dell’unità tempo/altezza espressa da Karlheinz nel suo famoso saggio del 1957 “…Wie die Zeit vergeht …” (…come scorre il tempo…). In questo scritto teoretico, Stockhausen considera il fatto, ben noto alla fisica, che, essendo l’altezza data da una ripetizione ciclica dell’onda sonora, ad ogni nota può essere associata una durata temporale pari all’inverso della sua frequenza. Di conseguenza, ogni fenomeno ciclico può essere visto come una nota, pur se troppo bassa per essere udibile.
Così Tierkreis diventa una nuova “Musica delle Sfere”, riproponendo un’unità che va dall’universo fino alla nota emessa da uno strumento musicale, vista come atto creatore in quanto metafora della vibrazione primordiale che pervade il cosmo.
Piano Ètudes by Jason Freeman è un altro esempio di opera aperta via web in cui l’utente crea un brano seguendo un percorso fatto di frammenti. Andate qui.
Notate:
dopo aver scelto uno studio, cliccando “settings” potete vedere le note o il piano roll
cliccando “sharing” potete salvare la vostra creazione
potete apporre il vostro nome come autore accanto a quello di Jason Freeman cliccando “Anonymous”
Note dell’autore:
Inspired by the tradition of open-form musical scores, I composed each of these four piano etudes as a collection of short musical fragments with links to connect them. In performance, the pianist must use those links to jump from fragment to fragment, creating her own unique version of the composition.
The pianist, though, should not have all the fun. So I also developed this web site, where you can create your own version of each etude, download it as an audio file or a printable score, and share it with others. In concert, pianists may make up their own version of each etude, or they may select a version created by a web visitor.
I wrote Piano Etudes for Jenny Lin; our collaboration was supported, in part, with a Special Award from the Yvar Mikhashoff Pianist/Composer Commissioning Project. Special thanks to Turbulence for hosting this web site and including it in their spotlight series and to the American Composers Forum’s Encore Program for supporting several live performances of this work. I developed the web site in collaboration with Akito Van Troyer.
Philippe Manoury è attualmente uno dei più importanti ricercatori e compositori francesi. Attivo da anni nell’area della musica elettroacustica, avvalendosi della collaborazione di Miller Puckette, ha scritto alcuni dei primi lavori per strumento e elaborazione effettuata totalmente in tempo reale (Jupiter, 1987 e Pluton, 1988, entrambi inseriti nel ciclo Sonus ex Machina).
Qui vi presentiamo due estratti di Neptune (op. 21, 1991) per tre percussionisti ed elettronica. I percussionisti suonano 2 vibrafoni MIDI, tam-tam e marimba e sono elaborati e contrappuntati in tempo reale.
I musicisti rappresentati sono in gran parte sconosciuti ai più, ma tutti sono impegnati ad estendere le possibilità di questo strumento spesso grazie anche all’inserimento dell’elettronica. E secondo me questo è uno dei casi in cui l’elettroacustica di confine supera nettamente la ricerca “accademica”. Mentre quest’ultima è ancora impegnata a porsi il problema dell’inserimento dell’elettronica in composizioni in gran parte acustiche, con relative problematiche come la standardizzazione della partitura, questi tipi, ai quali vanno sicuramente affiancati anche musicisti come l’Hans Reichel di qualche post fa e personaggi come Fred Frith, invece, agiscono.
Certo si può obiettare che forse il loro livello di progettualità è scarso, ma quando esiste la ricerca sonora, la progettualità la segue; è solo questione di elaborare delle idee a partire dai materiali sonori.
This is the equipment HK most typically uses when performing or recording
ELECTRIC GUITARS
Steve Klein Custom Electrics – Danny Ransom guitars – Modulus Graphite Neck guitars – Moonstone M-80 – Moonstone Z-80 – James L. Mapson 7-string – Tom Anderson Cobra – Tom Anderson Classic strat type – Rick Turner Model T
BASS GUITARS
Jerry Jones 6 string bass – Rick Turner Rennaisance fretless bass
Monteleone Eclipse – Dana Bourgeois Anniversey Model – Dana Bourgeois Bourgeois Blues – Stefan Sobell 12 fret – Bohmann 12 fret – Ralph Bown baritone – Ralph Bown 12 fret – Danny Ferrington baritone – Santa Cruz Koa D – Marc Silber K&S Leadbelly Model 12 string
AMPS
Dumble Overdrive Special – Dumble Steel String Singer – ADA Cobra – Fender Super Champ – THD V-Front – Trainwreck Rocket – Trainwreck Liverpool
Nel vedere questo estratto del Concert for Toy Piano and Orchestra (2005) di Matthew McConnell, brillantemente eseguito da Keith Kirchoff, sembra che un incantesimo abbia colpito pianista e pianoforte.
Il piano giocattolo, invece, è uno strumento con un repertorio specifico (fra gli altri, Cage, che peraltro non è l’unico).
New England Conservatory Symphony Orchestra. Sergio Monterisi, conductor. Recorded in NEC Jordan Hall
Gordon Mumma è una figura storica della musica elettroacustica negli USA, Fondatore dell’Ann Arbor’s Cooperative Studio for Electronic Music con Robert Ashley, ha lavorato per la Merce Cunningham Dance Company (con John Cage e David Tudor) ed è stato membro della Sonic Arts Union con Ashley, Alvin Lucier e David Behrman.
Qui vi propongo due brani: Epifont (1984), un breve studio dalle sonorità sostenute scritto in memoria del compositore George Gacioppo e il monumentale Megaton for William Burroughs del 1963, che meriterebbe di essere visto più che ascoltato, dato che gli esecutori (Robert Ashley, Harold Borkin, Milton Cohen, George Manupelli, Joseph Wehrer, Tony Dey e Gordon Mumma) sono alle prese con varie sculture sonore.
Megaton for Wm. Burroughs is a theatrical live-performance electronic-music composition with ten channels of sound. An ensemble of electro-acoustical sculpture,performed by five players, is heard from four of the channels. Six channels of composed tape are heard from the remaining loudspeakers. The performance takes place in the center of the space, with the audience surrounding the sculpture ensemble. All ten channels are heard from loudspeakers surrounding the audience.
“The thunderous four-minute introduction begins abruptly with a blackout. As the introduction fades, the sculpture gradually becomes visible, illuminated so that the performers are isolated from each other in the space. The performers communicate with each other by means of aircraft headsets. This communication coordinates the performance and is not heard by the audience.
“The live-performance section with the sculpture, which grows out of the fading introduction, occupies nearly half of the piece. The performers, isolated in space but communicating by their headsets, develop an increasingly complex sound montage with the electro-acoustical sculpture. Invisible taut-steel wires above the audience carry speeding, projectile-like flashing objects. The movement of these objects sets the overhead wires into vibrating resonances which, when amplified, become part of the sonic montage.
“As the illumination fades near the end of this live-performance section, a drone emerges and becomes recognizable as that of an aircraft squadron. The isolated images of the performed sculpture evolve through the drone into the sounds of World War II bomber crews communicating with each other from isolated parts of their aircraft during the course of a raid.
“The piece has evolved gradually but directly from its thunderous, abstract beginning through the electro-acoustical montage and into a cinema-real air raid. A brief burst of heroic movie music introduces the closing sequence: in an entirely different part of the space, in an isolated pool of light a lone drummer quietly rides his traps.”
Keith Rowe, forse il prototipo dei chitarristi improvvisatori di scuola anglosassone, esegue un brano di Cornelius Cardew tratto dall’album “A Dimension of Perfectly Ordinary Reality” del 1990.
Solo prepared guitar recording from the AMM member who pioneered the table-top guitar technique in his free improvisations back in the ’60s and thus influenced everyone from Syd Barrett through to Fred Frith and Jim O’Rourke. A Dimension of Perfectly Ordinary Reality is a live recording of Rowe solo outside of the AMM context he shares with percussionist Eddie Prevost and pianist John Tilbury. The array of sounds that the Englishman coaxes from the mere six string instrument is phenomenal, and his art is to extend upon the prepared piano techniques pioneered by John Cage and apply them to the electric guitar. As ecstatic as Derek Bailey, the comparison stops there as Rowe scarcely even puts his fingers on the string, instead opting for radio feedback, arco, and any number of kitchen implements to attack the guitar. To the uninitiated this may sound like clattering mess of noise. A Dimension of Perfectly Ordinary Reality is certainly far from it, as the dexterity with which he approache…s abstraction is prodigal. It is no doubt then that everyone from Sonic Youth, Henry Kaiser, and even Frank Zappa could accredit Rowe as inspirational. His activities on recordings increased dramatically in the year 2000, with the proto-noise artist directing MIMEO and collaborating with improv mainstay Evan Parker on numerous recordings. This CD is a great document of one of his scarce solo performances.
[Martin Walters, All Music Guide]
Cornelius Cardew (Arr. K. Rowe) – Ode Machine No. 2
K. Rowe prepared guitar, voice
Recorded at the Holywell Music Room, Oxford on 5 July 1989
Audiogrammes è un brano di Benoit Moreau il cui titolo si rifà ai Calligrammi (poesie in forma grafica datate 1913) di Guillaume Apollinaire. Si tratta di musica in parte scritta e in parte improvvisata che esiste in due versioni:
AUDIOGRAMMES I : versione per quattro solisti
flauti dolci
sassofoni
percussioni
elettronica
AUDIOGRAMMES II: versione per quattro solisti e quattro ensembles
flauti dolci solo + flauto traversiere, violino, contrabbasso
sax solo + clarinetti, trombone, violoncello
percussioni solo + viola, percussioni
elettronica solo + pianoforte
Qui ascoltiamo Audiogrammes II, eseguita il 7 Giugno 2008 al Conservatorio di Ginevra.
Nato nel 1929 a Malmédy, in Belgio, e divenuto un affermato esponente della scuola di Darmstadt insieme a Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Bruno Maderna e Luciano Berio, è stato uno dei primi a contaminare il serialismo e lo strutturalismo tipici dell’epoca con altri stilemi, seguito a breve da altri colleghi.
Da sempre interessato alla musica elettronica, ha lavorato negli studi di Colonia e di Milano, in cui ha realizzato lo storico Scambi del 1957, per poi fondare, nel 1958, lo studio di Bruxelles.
Ci siamo incontrati qualche volta, l’ultima nel 2002 a Verona. Eravamo nello stesso concerto. Pousseur presentava uno dei suoi Seize Paysages planétaires (musica elettroacustica). In quell’occasione parlammo a lungo, più di tutte le altre volte. Gli confessai che i suoi Trois Visages de Liège erano tra i brani che più mi avevano colpito quando ero ragazzino. Lui sorrideva.
L’AGP rilancia un vecchio vinile che contiene i risultati di un esperimento realizzato durante l’edizione del 1967 dei corsi estivi tenuti da Stockhausen a Darmstadt (il disco è stato poi realizzato nel 1971).
12 compositori sono stati invitati a scrivere dei brani per strumento solista e nastro o trasmettitore a onde corte (1 solo esecutore), tali da poter essere eseguiti simultaneamente. Per soddisfare questa condizione, i pezzi non dovevano essere dei prodotti finiti, bensì una collezione di interventi sonori suscettibili di dilatazioni e/o spostamenti temporali.
L’elenco di strumenti, compositori ed esecutori è:
Instrument
Composer
Musician
Flute
Tomas Marco
Ladislav Soka
Oboe
Avo Somer
Milan Jezo
Clarinet
Nicolaus A.Huber
Juraj Bures
Basoon
Robert Wittinger
Jan Martanovic
French horn
John McGuire
Jozef Svenk
Trumpet
Peter R.Farmer
Vladimir Jurca
Trombone
Gregory Biss
Frantisek Hudecek
Violin
Jurgen Beurle
Viliam Farkas
Violoncello
Mesias Maiguashca
Frantisek Tannenberger
Double Bass
Jorge Peixinho
Karol Illek
Percussion
Rolf Gelhaar
Frantisek Rek
Hammond Organ
Johannes G.Fritsch
Aloys Kontarsky
Gli esecutori sono stati poi divisi a gruppi di 2/3 i cui output venivano inviati a uno di quattro mixer ciascuno collegato a 2 altoparlanti. A un ulteriore, solitario altoparlante è collagato l’organo hammond. Ne risulta quindi uno spazio sonoro a 9 altoparlanti in cui viene diffuso simultaneamente l’insieme di tutti brani, secondo lo schema seguente:
La direzione dell’esecuzione è dello stesso Stockhausen. L’album, ormai fuori catalogo, contiene una riduzione effettuata da Stockhausen di una performance di circa 4 ore.
ENSEMBLE is an experiment in adding a new concept to the traditional “concert”. We are used to comparing different pieces played sequentially. In ENSEMBLE “pieces” of 12 composers are played simultaneously.
These “pieces” are musical objects (“works”) not fully worked out. They are sound objects (produced on tape or with a short wave transmitter), with individual control, action and reaction models, and notated “events”, which are introduced by the composers to the ENSEMBLE play in the process of the actual performance.
Each composer has composed for one musician and tape or short wave transmitter. The total plan and the introduction of the parts for its synchronisation with the ENSEMBLE were established by Stockhausen. The twelve systems and their coordination were formulated during daily meetings. The resulting four hour process is more than the addition of the “pieces”: it is a composition of compositions, fluctuating between the complete isolation of the different events and the total dependence of each layer, and between extreme determinism and full improvisation.
On top of the 12 composers and musicians, who play together as “duos” – distributed throughout the room – four other musicians are responsible for using mixers to amplify and spacialize definite details and moments of the process via microphones and eight loudspeakers. Also, the position of the listener is not fixed. He can move in the room and thus establish his acoustical perspective.
The simultaneity of the compositions requires also that certain “pieces” should be heard together and related through superimposition.
This “verticalisation” of the perception of events and the relativisation of a definitive form (“piece” signed by an individual) happens not only in the field of music. — Notes by Karlheinz Stockhausen
Darmstadt International Music Institute
22nd International Seminar for New Music 1967, director Ernst Thomas
The LP version of “Ensemble” was realized in the WDR Electronic Music Studio between August 26 and September 22, 1971. The available material was:
– Recording of the rehearsal on August 28, 1967 from 19:00-23:00 (6 stereo tapes, about 4 hours duration)
– Recording of the concert on August 29, 1967 from 19:00-23:00 (6 stereo tapes, about 4 hours duration)
The challenge for me was to reduce a four-hour performance to 50-60 minutes, and therefore I proceeded as follows.
1. I wanted as much as possible to keep the formal pattern that we had developed during the Seminar
2. I wanted to keep a balance between the deterministic, less deterministic and non-deterministic material.
My working method was as follows:
1. I listened to all tapes of both recordings. The material that seemed to me adequate, I copied.
2. This selected material was listened to again, cutting out some sections, so that a series of musical events remained, which I deemed relevant.
3. In the third process – the most difficult one – this material was cut, faded in and out and mixed occasionally according to my vision (retaining the time plan in its basic structure)
Un numero sempre maggiore di pianisti si cimenta con lo studio num. 13 dal secondo libro degli studi per pianoforte di Gyorgy Ligeti.
Come scrivevo un po’ di tempo fa, l’Escalier du Diable sta veramente diventando il brano virtuosistico per antonomasia del XXI° secolo anche grazie al fatto che, oltre ad essere difficile, è bello.
La cosa più interessante, secondo me, è vedere come, nonostante il tecnicismo estremo, resti ancora molto spazio per l’interpretazione. Si potrebbe pensare che, considerando anche il fatto che questo pezzo è musica contemporanea, che spesso richiede una visione rigorosa della partitura, e per di più è molto difficile, le qualità virtuosistiche necessarie per eseguirlo riducano drasticamente lo spazio interpretativo. Invece non è vero e al di là del dibattito sull’esecuzione migliore, che su You Tube è addirittura feroce, è bello sentire come, fermo restando il fatto che tutti gli esecutori sono tecnicamente ben preparati, altrimenti non potrebbero eseguirlo, le diverse sensibilità diano vita a delle esecuzioni molto diverse, alcune che personalmente apprezzo, altre perfino fastidiose in qualche momento, ma tutte rispettabili.
L’esecuzione di Anderson. considerata da molti la migliore
Quella di Aimard
Quella di Libetta, il cui video era scomparso e adesso riappare
Quella di Chuan Qin
Quella di Denis Kozhukhin, purtroppo, è scomparsa da youtube. Aveva ricevuto molti commenti positivi. Ma molte altre esecuzioni sono apparse…
Ecco un brano di Helmut Lachenmann, Guero, del 1970, definito dall’autore come uno studio per piano.
I suoni che sentirete, però, non hanno niente a che fare con il pianoforte a cui siete abituati (raramente si sente una nota), ma assomigliano piuttosto a quelli dell’omonimo strumento a percussione, il guiro (nella dizione originale).
Non solo, ma Lachenmann non utilizza nemmeno tutta quella serie di sonorità pianistiche che fanno parte dei “rumori pedalizzati” basata su pizzicati o percussioni che creano risonanze sostenute dal pedale, già utilizzata nella letteratura pianistica contemporanea.
In effetti la musica di Lachenmann è definita come musica concreta strumentale, a significare che il suo linguaggio strumentale abbraccia l’intero mondo sonoro ottenibile dallo strumento, anche ricorrendo a tecniche decisamente non convenzionali.
Grazie a questo video, è possibile vedere come vengono ottenute le sorprendenti sonorità di questo “studio” per piano. L’esecutore è lo stesso Lachenmann.
Gli amici di USO Project pubblicano una intervista in tre parti con James Andy Moorer, uno dei pionieri della computer music, che potete trovare sul loro blog.
The work is based on stochastic transformation of 8 basic textures.
horizontal parallel networks (chord)
ascendant parallel networks (glissandi)
descendant parallel networks (glissandi)
crossed parallel networks (ascendant and descendant)
clouds of pizzicati
atmosphere of frappes collegno with short glissandi col legno
configurations of glissandi traited in regulated left surfaces
geometric configurations of ascending and descending glissandi
Questo brano è basato su un precesso stocastico noto come catena di Markov. Si tratta di un sistema in cui il passaggio da uno stato a un altro dipende unicamente dalla situazione attuale ed è governato da una tabella che, dato lo stato corrente, specifica le probabilità di transizione da questo stato a un altro.
In termini più semplici, immaginate che, in questo momento, l’orchestra si trovi nello stato (e), cioè sta eseguendo una nuvola di pizzicati. La riga (e) della tabella specifica le probabilità che l’orchestra ha di passare a uno degli stati da (a) ad (h), compresa quella di rimanere nello stato (e).
Ovviamente la tabella è quadrata perché, per ogni possibile stato corrente, è presente una riga che definisce le probabilità di passaggio a tutti gli stati, compresa quella di rimanere nello stato attuale (in teoria fra gli stati possibili dovrebbe essere compreso anche il silenzio, ma, nella logica di Xenakis, di solito è invece gestito come densità di suoni).
Questo sistema organizzativo può essere applicato sia all’orchestra nel suo insieme che al singolo strumento.
Anche la parte musicale dell’Inauguration Day di Obama è atata finalmente resa pubblica e così potete ascoltare (e vedere) Yo Yo Ma al violoncello, Itzhak Perlman al violino, Gabriela Montero al piano e Anthony McGill al clarinetto eseguire un nuovo brano composto per l’occasione da John Williams, “Air and Simple Gifts”.
In realtà, da quel che sento, si tratta di un collage di arie popolari, alcune delle quali appaiono in Appalachian Spring di Copland, uno dei compositori preferiti da Obama. Il tutto in perfetto stile americano.
La cosa divertente, però, è che i succitati quattro dell’Ave Maria suonano in playback ufficialmente perché la bassa temperatura del 16 gennaio (la cerimonia era all’aperto) non permetteva loro di portar fuori i loro costosi strumenti e avrebbe reso la performance un po’ rischiosa. Così i quattro si esibiscono in playback con strumenti banali, ma, per rendere più realistica l’esibizione, suonano davvero, solo che gli archi sono stati “saponati” e i tasti del pianoforte sono stati sganciati dai martelletti.
Vi passo un articolo di Nicola Bernardini e Alvise Vidolin scritto in occasione del XVII Colloquio di Informatica Musicale tenutosi nell’Ottobre 2008 a Venezia.
Si tratta, a mio avviso, di una riflessione – ahimé – molto lucida sulla situazione attuale della computer music e della musica contemporanea nel nostro paese. Lucida perché non si limita alle lamentazioni, ma cerca di risalire alle cause che determinano un contesto culturale che, secondo me, è fra i più depressi d’Europa (e non solo).
Se a qualcuno di voi interessa, poi ne parliamo. Per scaricarlo, basta cliccare il link con il tasto destro. Distribuito in CC.
Extracts of a performance of Lohn, a piece for soprano and electronics by Kaija Saariaho, performed by Valérie Gabail, visual part conceived by Jean-Baptiste Barrière & realized by Pierre-Jean Bouyer, video by Isabelle Barrière.
More info on http://www.saariaho.org & http://www.barriere.org.
Susanne Achilles performs the Duet for One Pianist by Jean Claude Risset, an important name in computer music.
This piece, composed at MIT in 1989, is for disklavier and computer. The disklavier is a grand piano made by Yamaha, whose mechanics are motorized and can be controlled via MIDI. So the disklavier can play pieces on its own, but, more interestingly, a pianist’s performance data (pitches, dynamics, durations) can be sent, in real time, to a computer which can react by driving the disklavier according to rules formalized in software by the composer.
This is what happens in Duet for One Pianist, hence the title. The piece is divided into eight sketches in which the computer manipulates and sends back the material performed by the performer based on the principles cited in the title of each movement: Double, Mirror, Extensions, Fractals, Stretch, Resonances, Up Down and Metronome.
The pianist is accompanied, like a shadow, by a second, invisible performer, who plays his own piano with lowering keys.
Su You Tube c’è Mouvement (vor der Erstarrung) (trad. come sopra), un brano del 1982 di Helmut Lachemann per ensemble che è un bell’esempio, anche se non estremo, della sua musica concreta strumentale e del quale il NY Yimes scrive che
…might be one of Mr. Lachenmann’s best things: a whirring, rasping, ricocheting maze of new, beautifully fashioned sounds
Questo Le Lac, per ensemble, composto nel 2001 da Tristan Murail è sicuramente un bel brano, ma, a mio avviso, è così tipico della sua produzione da sfiorare il manierismo. Traduzione: per me, è meno emozionante di altri brani, però è scritto proprio bene.
Le sonorità si susseguono e si sciolgono l’una nell’altra in un modo così perfetto che, a tratti, non sembrano nemmeno originate da strumenti, ma il risultato di un sapiente lavoro di missaggio e montaggio da studio.
Il brano occhieggia l’omonimo poema di Lamartine, ma è soprattutto musica che si ispira a modelli naturali: l’analisi acustica del suono della pioggia sul lago, una versione stilizzata di tuono, un grido di uccello non identificato, la texture elettronica delle rane in primavera…
E dietro a tutto questo, il lago. Una superficie sempre uguale e sempre cangiante, gioco di permanenza e di effimero, di movimento e di umore, la logica dell’inaspettato, l’ordine e la semplicità annidati all’interno del caotico e del complesso.
Update: certo che rileggendo quello che ho scritto e ascoltando il pezzo per la terza volta, mi rendo conto che è inutile dire che non è bello come gli altri. Forse in qualche punto ricorda in modo un po’ scoperto Ligeti, Messiaen e addirittura Debussy, ma è maledettamente bello. Il punto (e il problema) è che dentro ci sono quasi tutti – e qui potrei dire sia le modalità espressive (in positivo) che i manierismi (in negativo) – della fine del secolo scorso. Un bel modo di salutare il nuovo millennio.
Un estratto da un brano di Philippe Manoury (En écho, 1993-1994, testo di Emmanuel Hocquart) in cui il computer genera suoni in tempo reale seguendo l’esecuzione del soprano. In pratica il computer è in grado di ascoltare l’interprete e a fronte della partitura, riesce a seguirlo nonostante eventuali rallentando o accelerando.
In questo caso tutto è reso più semplice dal fatto che l’esecutore è un solista e non un ensemble, quindi si deve seguire una sola voce, ma anche così non si tratta di una faccenda banale.
Written in collaboration with programmer Miller Puckette, “En Echo” uses real time score-following software which responds to the singer’s voice. In Emille Hocquart’s text, a young woman recollects a heated affair.
“The computer is automatically following the voice,” Mr. Manoury explained. “It functions as what we call a ‘score-follower.’ The singer sings in tempo, or with an acceleration, and the computer synchronizes to make synthetic sounds that are deduced from alterations in the voice — not precalculated, but produced in real time. If the voice modifies the vowels, for example, it modifies the electronics.” Messrs. Manoury and Puckette have worked since the latter moved from the Massachusetts Institute of Technology in 1989 and joined Mr. Manoury at the famous studios at IRCAM (l’Institut de Recherche et de Coordination Acoustique/Musique), which Pierre Boulez founded in Paris.
Grazie a Nicola, vi passo uno scritto di Tristan Murail su Giacinto Scelsi (tradotto in inglese). Gli esponenti della musica spettrale (Grisey, Murail, Dufourt) non hanno mai fatto mistero di considerare Scelsi come un antesignano del movimento, soprattutto per i 4 pezzi su una nota sola e in questo articolo Murail puntualizza le ragioni del suo interesse per l’opera del compositore italiano.
L’articolo è copyrighted ma è espressamente concessa la copia per uso individuale.
Nel giorno del mio compleanno (24/01), la BBC aveva messo in linea Inori di Stockhausen. Comprendeva anche una lunga presentazione. Purtroppo la BBC non si è degnata di avvertirmi del regalo che ormai rimarrà in linea solo per altri 2 giorni. Fortunatamente è comparso anche su Youtube.
Written in 1973-74, Inori is based on prayer-like gestures interpreted on stage by a mime and a dancer. The expressive movements, performed by the two silent soloists and drawn from a variety of religious practices, are mirrored in the response of two orchestral groups.
Continuiamo con Scelsi e con questo affascinante Elohim per 10 archi (4 violini, 3 viole, 3 celli), opera di difficile datazione perché pubblicata postuma.
Elohim (אֱלוֹהִים , אלהים) in ebraico è un plurale della parola “divinità” – Eloah (אלוה) – che ha suscitato non pochi interrogativi fra gli esegeti biblici. L’Elohim di Scelsi ruota attorno ad un accordo di 7 note (Mi, La Sib, Do, Do#, Fa#, Sol) che appare 15 volte nel corso di questo breve lavoro, inframmezzato da “risposte” che si muovono verso gli acuti, diventando via via più violente fino a creare un campo di glissandi e alla fine svanire.
Restando su Scelsi, questa volta vi propongo Konx-Om-Pax, un brano per orchestra (con l’esclusione dei flauti e l’aggiunta dell’organo e di un coro misto nel finale) del 1969.
Il commento del solito Todd McComb su Classical.net è ottimo ed esauriente:
Konx-Om-Pax is also one of Scelsi’s most effective compositions, using relatively simple material projected on a broad canvas. It is scored for large orchestra (including full strings, and lacking only flutes) along with organ, and in the final movement a mixed chorus. It was premiered on February 6th, 1986 by the Hessian Radio Orchestra in Frankfurt and conducted by Jurg Wyttenbach. The title of the piece is three words meaning ‘peace,’ in ancient Assyrian, Sanskrit and Latin. It is subtitled: “Three aspects of Sound: as the first motion of the immovable, as creative force, as the sacred syllable ‘Om.’” Konx-Om-Pax is especially effective at creating a feeling of peace, and as such is a particularly useful piece for coping with the modern world.
The first movement is based entirely on C, first treated as in inner pedal, and fans out harmonically at first symmetrically and then asymmetrically with the addition of quarter tones, rising to a great climax completely elaborating the underlying C. This movement is a gradual gathering of harmonic forces, with great calming effect. The short second movement begins on F, slowly builds until unleashing a great explosion of power in the form of rapid chromatic scales engulfing everything in their path, and ends again on F. The third movement is on A (and recall that the movement from C to A was the basic feature of Quartet No. 4 (1964)) and marks the entrance of the chorus, chanting only the syllable Om, and supported by the orchestra. This movement gives the impression (however absurd it may seem) of process-music or even a fugue on the single note theme, ‘Om.’ This is accomplished by a tight interior chromaticism with microtonal variations, a careful consideration of length of utterance and inflection, and by the building of a countersubject out of harmonic resonances. The entries of ‘Om’ continue steadily throughout the slowly-paced movement. The movement is in three sections: the first builds slowly, sticking almost entirely to ‘Om’ with single note responses; the second is an extended episode dominated by the orchestra, with percussive punctuation, in which harmonic associations are worked out in more detail; and the third re- introduces the chorus on ‘Om’ along with the longer countersubject developed in the previous episode, slowly fading away in a profound ending to this majestic work.
In many ways, Konx-Om-Pax is Scelsi’s most perfect creation: it attests to his supreme power of harmony, and above all it is always effective. For many of Scelsi’s works, it is necessary to have the proper frame of mind in order to approach, but here that frame of mind is established within the twenty-minute work itself. Hence other pieces can be ineffective at times, but with Konx-Om-Pax this is never the case.
Continuiamo con Scelsi perché è un compositore relativamente poco conosciuto in Italia, ma osannato all’estero, soprattutto in Francia, dove è considerato l’antesignano della musica spettrale. In realtà Giacinto Scelsi è un grande compositore, come tutti con alti e bassi, ma ha contribuito a creare alcuni degli stilemi che hanno permeato tutta la musica degli anni ’60 e ’70, prima fra tutte l’idea del suono che si sviluppa a partire da una singola nota.
Qui abbiamo Uaxuctum del 1966, un brano molto drammatico, come testimonia il sottotitolo “la leggenda della città maya che si autodistrusse per motivi religiosi“. Il brano è idealmente diviso in cinque movimenti che corrispondono ad altrettanti video in You Tube. Come al solito metto la prima e i link alle altre parti,
This extraordinary piece is in five movements, totaling approximately twenty minutes. In addition to the large chorus, written at an astonishingly difficult technical level, the work is scored for: four vocal soloists (two sopranos, two tenors, electronically amplified), ondes Martenot solo, vibraphone, sistrum, Eb clarinet, Bb clarinet, bass clarinet, four horns, two trumpets, three trombones, bass tuba, double bass tuba, six double basses, timpani and seven other percussionists (playing on such instruments as the rubbed two-hundred liter can, a large aluminum hemisphere, and a two-meter high sheet of metal). The chorus is written in ten and twelve parts, incorporating all variety of microtonal manipulations, as well as breathing and other guttural and nasal sounds. This piece is certainly Scelsi’s most difficult to perform, and was not premiered until October 12th, 1987 by the Cologne Radio Chorus and Symphony Orchestra. Uaxuctum is subtitled: “The legend of the Maya city, destroyed by themselves for religious reasons” and corresponds to an actual Maya city in Peten, Guatemala which flourished during the first millennium AD; in addition, the Mexican state of Oaxaca comes from the same ancient meso-American root.
This is an intensely dramatic work, and the most bizarre in Scelsi’s output. It depicts the end of an ancient civilization – residing in Central America, but with mythical roots extending back to Egypt and beyond – it is the last flowering of a mystical and mythological culture which was slowly destroyed by our modern world. In this case, Scelsi says, the Mayans made a conscious decision to end the city themselves. Uaxuctum incorporates harmonic elements throughout, and is extremely difficult to come to terms with.
The first movement, the longest of the five, is a grand overture; it begins in quiet contemplation, only to be interrupted by the violent mystical revelation of the chorus propelling this story into the present from the distant past, and then sinking back into meditative tones with a presentiment of the upcoming adventure. In the wild and dramatic second movement, we enter the world of the Mayans, complete with mysticism in all aspects of life; it is an incredible and violent tour-de-force of orchestral writing. The short third movement opens with an atmosphere of foreboding, building into a realization of things to come, and reaching a decision. After a few seconds of silence, the city of Uaxuctum is quickly destroyed and abandoned. The fourth movement is dominated by the chorus throughout, and presents the wisdom gained by the Mayans as they gradually fade into oblivion. The fifth movement returns to the opening mood, and gives a dim recollection of the preceding events which have now been told, in abstract form, to our time and civilization.
There really are no proper words to describe this amazing piece, which presents Scelsi at his most daring and innovative. It is a world all to itself, and a warning.
Here in binaural recording. Headphones are mandatory to hear the binaural effect.
Orchestre philharmonique et Choeur de Radio France – Aldo Brizzi
Si tratta di un brano nel più puro stile Scelsi in cui varie sonorità evolvono da un unico suono iniziale. L’organico è una formazione orchestrale modificata, che include piano, coro, organo e sei percussionisti, ma esclude totalmente i violini.
Pfhat was premiered by Jurg Wyttenbach and the Hessian Radio Orchestra in Frankfurt on February 6th, 1986. It is in four movements, totaling under nine minutes. The subtitle reads: “A flash… and the sky opened!” and the title is apparently chosen for its onomatopoeic quality. This is an extremely concise depiction of mystical revelation for full orchestra, divided into four brief movements each of which presents a single gesture in sound.
The first movement is based on the choir’s breathing sounds, supported by only thirteen instruments. Here we have the emergence of sound from immobility, leading into an ‘om’-ing from the tubas, and anticipating the upcoming surge of power. The very short second movement consists of a sudden ringing cluster for full orchestra and chorus, gradually fading away. The slow third movement begins with a quiet fanfare punctuated by ringing intervals, and gradually builds with the om-ing and sighing of the chorus into a large complex of sound elaborating a single note. The eerie fourth movement presents us with revelation from the open sky: the piccolo, flute, celesta, piano and organ play a very high ostinato on a semi-tone while the rest of the orchestra and chorus quickly ring high-pitched dinner bells. The glittering, crystalline and static sound is certainly unique in the symphonic literature. This work (and the last movement in particular!) is Scelsi’s most singular attempt at ushering the listener into his sound universe. The succession of movements is highly dramatic, and listening to Pfhat for the first time is certain to be one of one’s most intense listening experiences.
[Todd McComb in Classical Net]
Searching the old releases from Test Tube, I found this EP by Ubeboet, a sound artist based in Madrid involved in electronic/experimental music since mid 90’s. This work, titled Bleak EP, is dated 2004.
Bleak EP, by Ubeboet, is one of those kind of releases that lives on lasting relationships and on constant reintegration processes, achieving ‘that’ multidimensionality (big word) typical of the acoustic universe, giving so much freedom to the listener, that he (or she) will diminish or amplify the particular singularities of the sound particles that go in and out of the brain.
This work could be very easily integrated into the art of installationism, although never leaving the ‘soundscape’ genre. A constant struggle to arrive (or at least try to) an ideal of ‘musique concrète’. Holding itself to the capturing of sound landscapes, submitting them to a low-frequency treatment, Ubeboet breathes a comforting ‘less is more’ ambient, (re)created and integrated into unhabited sound habitats, or sometimes directly injected into the overcrowded urban territory. Ubeboet rests in the complex world of the ‘anti-fast listening’, where the perception and the raw and naked power of the music are intimately connected. A not-easy, not-clear and not-resolved world, into which we are forced to submerge and seek for the unknown. Highly recommended. [Bruno Barros]
L’apprezzabile Concerto per viola e orchestra di Sofia Gubaidulina scritto nel 1996-97 è qui eseguito da Yuri Bashmet che ne è il dedicatario. L’orchestra è la sinfonica di Colonia diretta da Seymon Bychkov.
Da un vinile del 1965 ormai fuori catalogo, Leonard Bernstein Conducts Music of Our Time, Bernstein dirige la New York Philharmonic in Atmosphères di Gyorgy Ligeti, un brano di cui abbiamo già parlato qualche tempo fa, ma che è sempre emozionante riascoltare.
La direzione di Bernstein è sorprendentemente chiara, ma quello che mi ha sconvolto è che è altrettanto sorprendentemente breve. Solo 6’30” contro i circa 8’30” di altre esecuzioni. Due minuti di differenza sono tanti, così ho tirato fuori la partitura. Il calcolo della durata totale non è immediato perché il tempo cambia spesso da 40 a 60 alla semiminima, ma un po’ di conti mi danno come risultato 8’34”.
Così ho confrontato i file audio dell’esecuzione di Bernstein e di quella di Nott usando Audacity e il risultato è questo. Sopra Nott e sotto Bernstein (click per allargare):
Come vedete l’esecuzione di Bernstein è temporalmente compressa, oltre ad essere dinamicamente più alta. Sembra che vada all’incirca il 25% più veloce. Qui sotto le due esecuzioni
Come ultimo post dell’anno, dedichiamo questa lunga improvvisazione, che sa di insetti e di palude devoniana, allo Jaekelopterus rhenaniae, il più grande artropode (insieme all’Arthropleura) che abbia mai mosso le chele sul nostro pianeta, circa 390 milioni di anni fa.
Al di là della dedica, questo è un altro brano in cui accostiamo alle sonorità sintetiche dei veri suoni di insetti che il sottoscritto ha pazientemente raccolto e pulito per una installazione fatta a Mantova l’estate scorsa. Questi suoni sono stati campionati, trasposti varie ottave in basso e rallentati, per portare in evidenza la loro struttura complessa che sfugge se li ascoltiamo alla velocità e alla frequenza a cui gli insetti li emettono e costituiscono l’ossatura della prima parte e il foreground della seconda.
Un video in cui David Tudor itself esegue 4’33”, registrato molto probabilmente per una TV giapponese.
La cosa più buffa è il messaggio che scorre in sovrimpressione:
You are invited to turn down the volume of your TV set, and listen to the ambient sounds present wherever this program is performed.
Non si capisce perché abbassare il volume della TV se il brano è silenzioso, come se gli eventuali suoni trasmessi dall’apparecchio non fossero degni di essere ascoltati.
La giovane netlabel SHSK’H (pronuncia ssshhk’ah aspirata), è ormai defunta ma si trova sull’Internet Archive. Nata nel 2007 a New York da Jody Pou and Igor Ballereau proponeva da subito lavori di qualità, seppure di generi diversi, distribuiti in CC e scaricabili liberamente.
Il primo volume contiene musica per ensemble o per piano solo dello stesso Ballereau, molto delicata e piena di silenzi. Non priva di fascino, almeno per me che ascolto nel silenzio della notte. Gli strumenti più o meno utilizzati nei vari brani sono voci, pianoforte, chitarra, violino, viola, violoncello, percussioni.
Da qui ascoltiamo Frottola per voce, piano, chimes, violino, viola, cello.
La seconda release è composta da tre brani di musica tradizionale giapponese per voce e koto eseguita da Etsuko Chida. Affascinante e leggermente aliena per noi a causa delle differenze di intonazione rispetto alla nostra scala.
Da qui vi propongo Shiki no Fuji (il monte Fuji nelle quattro stagioni).
Sul sito di SHSK’H su IA trovate anche le releases seguenti.
Un brano per percussioni e live electronic di Mei-Fang Lin (1973), compositrice cinese di Taiwan attualmente negli USA.
Note di programma:
Multiplication Virtuelle (2003) is a musical work written for solo percussionist performing on a wide array of pitched and non-pitched acoustic instruments. Audio signals taken from microphones placed in close proximity to each instrument are used to control a real-time computer-based electroacoustic component. The percussionist plays and interacts with the electronic part that is triggered by the percussion attacks. The intensity of each attack is used to control the playback rate of the stored samples; in other words, the pitch of the sample is determined by how loud the percussionist plays. The execution of the electroacoustic score is managed by the computer in real-time using Max/MSP, a graphical software environment for music, audio, and multimedia.
As implied by the piece’s title and instrumental setup, ideas of circular motion and repeated patterns come into play in both the surface material in the music and the global structure of the piece itself. Specific rhythmic patterns are repeated (or, in a more visual sense, multiplied) before moving on to new but related patterns. The structure proceeds in a circular motion in how its rhythmic patterns evolve. The piece also thwarts the audience’s musical expectations by blurring the distinction between sample-based sounds and their acoustic counterparts. This effect is enhanced by carefully establishing and then breaking the connections between simultaneous visual and aural events.
Multiplication Virtuelle is dedicated to the percussionist Jean Geoffroy, who premiered the piece in 2004 in Paris. The work was funded in part by the Composer Assistance Program of the American Music Center.
Mei.Fang Lin, Multiplication Virtuelle (2003) per percussioni e live electronic.
Jean Geoffroy percussioni
Cosmic Pulses, ultimo lavoro di Stockhausen, presentato nel maggio 2007 a Roma in prima assoluta. Si tratta di musica elettronica che va a rappresentare la 13ma ora di KLANG (le 24 ore del giorno nella cosmogonia stockhauseniana). Il brano è composto da 24 loop melodici, ognuno dei quali ha un diverso numero di altezze, fra 1 e 24, distribuite su 24 registri per un totale di circa 7 ottave. Ciascun loop ha anche una diversa velocità di rotazione (ciclo) compresa fra 240 e 1.17 ripetizioni al minuto.
Gli stessi loop sono sovrapposti iniziando dai più bassi per terminare con i più alti, con tempi che vanno dai più lenti ai più veloci e terminano nella stessa sequenza. È facile immaginare che tutto ciò dà luogo ad una fascia il cui movimento va dal registro basso a quello più alto, con velocità sempre maggiore e densità dapprima crescente e poi calante, via via che gli strati finiscono.
Per rendere meno ovvia la cosa, però, ad ogni loop vengono applicate delle leggere variazioni di velocità e dei glissandi abbastanza stretti intorno alle melodie originali. Inoltre la varsione da concero è distribuita su 8 canali audio e ogni loop descrive una diversa traiettoria spaziale (24 in totale), Traiettorie che, ovviamente, vanno perse in questa versione stereo. Qui trovate una descrizione accurata..
Ho appena terminato un primo ascolto e personalmente trovo il tutto abbastanza prevedibile e deludente. Anche le sonorità mi sembrano vecchie. Immagino che le cose cambino parecchio in concerto con 8 casse e un bel volume, ma questo non fa altro che dissuadermi ulteriormente dall’acquisto del CD.
Mi viene anche in mente che altri brani di Stockhausen sono stati spazialmente ridotti per andare su disco: dal glorioso Gesange (orig. 5 canali) fino a Sirius, ma in quei casi la pregnanza del materiale era tale che la musica non ne soffriva più di tanto…
Enchanted Preludes is a birthday present for Ann Santen, commissioned by her husband, Harry, and composed in gratitude for their enthusiastic and deeply caring support of American music. It is a duet for flute and cello in which the two instruments combine their different characters and musical materials into statements of varying moods. The title comes from a poem of Wallace Stevens: The Pure Good of Theory, “All the Preludes to Felicity,” stanza no.7:
Felicity, ah! Time is the hooded enemy,
The inimical music, the enchanted space
In which the enchanted preludes have their place.
The score was given its first performance by Patricia Spencer, flute, and André Emelianoff, cello, of the Da Capo Chamber Players in New York, on May 16, 1988.
[Elliott Carter]
Un software realizzato in PureData (pd su linux, il software simile a Max/MSP) controlla 8 solenoidi che picchiano su diversi oggetti producendo una ritmica. Il finale rivela la scarsa attitudine compositiva dell’autore, ma è comunque una applicazione che mostra le infinite possibilità del mezzo.
A software-sequencer controls 8 solenoids, that knock on different things and therefore produce some rhythmic noise. Made with PureData, an arduino board and a selfmade relayboard to control the solenoids.
Mr. Murail’s L’esprit des dunes (1993-94), for amplified ensemble and electronics (sampled sounds triggered by a MIDI keyboard), starts with a characteristic ascending figure that is passed back and forth between the oboe and the sampled sounds, mediated by the flute.
Over the course of the piece the origin of this motif is progressively revealed by the gradual accumulation of partial-strata that occasionally fill in the whole spectrum at sonorous anchor points. In the composer’s words:
There is melody within a single pitch; the melody is created through the pitch’s harmonics. It’s both a sound and a melody. And while the opening notes of the oboe constitute a phrase, it is also a sound.
The origin of the motif is in fact a snippet from an overtone “melody” found in Mongolian chant, a tradition that can be described as the art of creating (overtone-) melodies out of a single (sung) pitch. The vocal paradigm is felt in various forms throughout the piece: strands of kinetic energy that produce a pattern of tension and release; the alternation of compact and diffuse ensemble writing with the occasional appearance of re-synthesized Tibetan chant; the overall dynamic curve of the form make the piece breathe in a curiously organic way.
Cassandra’s Dream Song (1970), di Brian Ferneyhough, per flauto solo, è uno di quei brani che hanno contribuito a ridefinre i limiti dello strumento. Considerato dapprima ineseguibile, venne eseguito per la prima volta da Pierre-Yves Artaud al Royan Festival (una rassegna francese di musica contemporanea attiva dal 1964 al 1973 in cui furono realizzate molte prime esecuzioni, sostituita, poi, dai Rencontres Internationales d′Art Contemporain di La Rochelle). Con l’evoluzione della tecnica strumentale, questo brano è ormai entrato a far parte del repertorio solistico del flauto.
Composta unicamente di due densissime e grandi pagine, la partitura è aperta. Ogni pagina contiene varie sezioni che l’esecutore deve eseguire alternando i due fogli (una dal primo e una dal secondo). Tuttavia, sul primo foglio deve seguire l’ordine dato procedendo dalla 1 alla 6, mentre la successione delle sezioni del secondo è libera.
In tal modo, qualsiasi effetto narrativo viene sovvertito, ma non completamente, grazie alla successione fissa del primo foglio. Pur ereditando alcune modalità espressive dal serialismo alla Boulez, Ferneyhough è spesso sorprendente perché, nella linea melodica, passa da momenti estremamente complessi ad episodi quasi lirici, centrati su poche note, fino ad istanti in cui affiorano atmosfere Debussy-like e perfino frasi quasi tonali.
Flute: Evgenios Anastasiadis Live Recording , Concert Hall, Folkwang Universität der Künste July 2021
Brian Ferneyhough (n. 1943) è il maggior rappresentante della cosiddetta “nuova complessità”, una corrente definita come “a complex, multi-layered interplay of evolutionary processes occurring simultaneously within every dimension of the musical material” (vedi questa interessante voce, in inglese, su wikipedia).
Sotto molti aspetti si tratta di una estremizzazione del serialismo, anche se ormai la serialità è stata abbandonata in favore di una prospettiva evolutiva del materiale musicale. Ciò nonostante, la complessità grafica della partitura rimane elevata, nella forma di una iper-codifica diffusa. Di conseguenza, la musica di Ferneyhough spesso richiede enormi sforzi tecnici da parte degli interpreti (talvolta, come nel caso del brano Unity Capsule per flauto solo, le sue partiture sono talmente dettagliate e complesse che risulta quasi impossibile una realizzazione totale di quanto vi è scritto). Nella sua personale filosofia compositiva, lo scopo di ciò è quello di liberare la creatività dell’interprete, il quale dovrà decidere su quali particolari concentrarsi, e quali altri verranno invece tralasciati (ecco una pagina della partitura di Unity Capsule, cliccatela).
Il brano che vi presentiamo è Lemma-Icon-Epigram, del 1981, un pezzo tripartito, per piano solo, dedicato a Massimiliano Damerini che ne è l’interprete. Qui vedete anche la prima pagina della partitura (come al solito, cliccabile).
Di questo brano l’autore dice:
Over the years, the detritus of images associated with my alchemical and metaphysical studies, or Renaissance studies, began to accumulate round a core, and this core was, as I said, the idea of Denkbilder: pictures to help you think or “thinking pictures”. So the first part of the piece is the whirlwind of the not-yet-become: the idea of processes, not material, forming the thematic content of the work.
So this is the Lemma, the superscription. The second part, the Icon, is the description of the possible picture put into actual pictorial form. I’m dealing here with the expansion and contraction of rhythmic and chordal cycles. There are only seven chordal identities, and this middle part is the same thing seen from many perspectival standpoints. I have what I call a “time-sun”. That is, I imagine a framework within which these chords are then disposed on several levels, like objects. Then there is a sun passing over them: the shadows thrown by the sun are of different lengths, different intensities, impinging in different ways upon different objects, themselves also moving upon the space defined by this frame. The third part is the Epigram. This is the attempt to unite these two elements that have appeared previously.
Non fatevi ingannare dal titolo, non è musica antica. Questo, invece, è uno dei miei brani preferiti nella produzione di Mauricio Kagel. Forse anche uno dei più eversivi perché qui il compositore trae sonorità inaudite da un corpus strumentale, quello della musica antica, che nessuno aveva stravolto fino a questo punto.
In realtà avevo già pubblicato questo brano del 1965/66 senza alcun commento in occasione dell’epitaffio del suo autore, ma oggi lo ripropongo alla vostra attenzione, corredato dalle note dello stesso Kagel:
This work contains neither prediction, pointers to the future, nor a comforting return to the past: the use of Renaissance instruments here has no programmatic purpose in any general sense. The only decisive fact is that these instruments correspond to my tonal concept better than any present-day stringed and wind instruments could.
The systematic alienation of conventional instrumental sound, which comes into its own in the material and methods of the most modem music, seemed to me to justify an attempt, for once, to reverse the normally accepted view on the subject of the composition of tone colour. The individual quality of restraint which belongs to the nature of these Renaissance instruments made it all the easier for me to introduce each of them in its own unadulterated tonal character. While still a student of musicology in Argentina I began to sketch a similar piece, but I dropped the project at that time, since one of the essential conditions for bringing the idea to fruition-the formation of a truly orchestral ensemble of early instruments-could not then be fulfilled. In the renaissance of the Renaissance which we are now experiencing such an ensemble has become feasible, because copies of most of the instruments have recently been made, and numerous musicians have become proficient in playing them.
Only the formation of complete families of typical instruments, played by 23 musicians, could produce a sound picture true to the period in question. All the Renaissance instruments required for my composition were represented in the Theatrum Instrumentorum of the “Syntagma Musicum” by Michael Praetorius (1619). During recent years I have become so familiar with each of the instruments used that I could think out its tonal function afresh, and have been able to develop the performing techniques beyond the conventional limits. Even an instrument such as the recorder, which is closely associated with home and school music making of a very different kind, proved to be extremely versatile, and more suitable for use in new instrumental music than, for example, the transverse flute.
Each instrumental part of this work was composed like a solo line. However, the parts were put together as a full score, written in more or less normal notation. Other versions of the work are also possible, using any number of players from two to twenty-two, in every combination of instruments drawn from the original scoring. These reduced versions are entitled “Chamber Music for Renaissance Instruments”. The concept of an ad hoc orchestra made up of whatever instruments are available–in accordance with the performing practice of the Renaissance period–is here taken literally, so that a degree of variation is possible which cannot be foreseen by the composer. This work (1965/66) was written in memoriam Claudio Monteverdi. Nevertheless it contains no collages of old music.
Mauricio Kagel – Music for Renaissance Instruments (1965/66)
Collegium instrumentale, conducted by Mauricio Kagel
Il brano è scaricabile in formato flac dall’AGP40.
Ancora Radulescu con un brano per una formazione complessa: 16 strumenti (2 flauti, 2 clarinetti, 2 fagotti, corno, tromba, trombone, percussioni e quintetto di archi).
Secondo le note del libretto, peraltro abbastanza deliranti, il termine Iubiri è il plurale del rumeno iubire (amore). Questo brano, dalla durata ragguardevole, si compone di 343 iubiri. 343 micro musiche che, nei 47 minuti del brano, integrano 7 spettri acustici che derivano dai primi 7 armonici (escludendo le 8ve) di una fondamentale di DO, ovvero Do, Sol, Mi, Sib, Re, Fa monesis (1/4 di tono), Sol triesis (3/4 di tono).
Dérives, composto da Gérard Grisey nel 1973-74, è insieme a Périodes e Partiels, una delle composizioni seminali per il movimento della musica spettrale.
In questo brano per due gruppi orchestrali, una sinfonietta e un’orchestra completa (interessante notare che nell’ensemble c’è anche una chitarra elettrica), si applica una tecnica che può essere definita come sintesi additiva strumentale, in cui gli strumenti arrivano a comporre una timbrica mediante la somma di molte componenti. Si parla di timbrica e non di armonia perché è in questo senso che l’indieme sonoro è concepito, al punto che agli strumenti è spesso richiesta una intonazione sugli armonici di un suono base e non sulla scala temperata.
Il suono come generatore della forma globale, secondo la poetica dello spettralismo espressa da questa dichiarazione programmatica dello stesso Grisey:
We are musicians and our model is sound not literature, sound not mathematics, sound not theatre, visual arts, quantum physics, geology, astrology or acupuncture
[cit. in Fineberg, Joshua (2006). Classical Music, Why Bother?: Hearing the World of Contemporary Culture Through a Composer’s Ears. Routledge. ISBN-10: 0415971748, ISBN-13: 978-0415971744]
E ancora:
Spectralism is not a system. It’s not a system like serial music or even tonal music. It’s an attitude. It considers sounds, not as dead objects that you can easily and arbitrarily permutate in all directions, but as being like living objects with a birth, lifetime and death. This is not new. I think Varese was thinking in that direction also. He was the grandfather of us all. The second statement of the spectral movement — especially at the beginning — was to try to find a better equation between concept and percept — between the concept of the score and the perception the audience might have of it. That was extremely important for us.
Stockhausen ha dichiarato che i Klavierstücke (pezzi per piano, anzi, per tastiera) sono i suoi schizzi. Alcuni, però, sono schizzi di grande portata, come questo Klavierstück IX (vers. def. 1961), con il suo accordo ripetuto più di cento volte (148 se non erro), con atmosfere e risonanze diverse.
Dedicato ad Aloys Kontarsky, che lo eseguì per la prima volta a Colonia nel maggio 1962 nella versione definitiva del ’61, il Klavierstück IX si collega direttamente al X sia perché nella sezione finale sono presenti gruppi di notine che saranno il segno distintivo dell’altro, sia perché nonostante i differenti esiti sonori ambedue obbediscono al principio, fondamentale in Stockhausen, della giustapposizione – intesa come coesistenza dinamica – delle categorie dell’ordine e del disordine . In particolare, il IX è costruito attorno all’alternanza di un accordo presentato immediatamente e ripetuto oltre cento volte nel corso del brano con zone rarefatte di sapore improvvisativo. Quanto ai citati gruppi di notine della parte conclusiva, da notare che queste fanno riferimento ai valori della serie dei numeri di Fibonacci (1, 1, 2, 3, 5, 8, ecc.), dalla quale derivano anche i rapporti metronomici. Da questo punto di vista è indubbio che il Klavierstück IX rappresenta tra i quattordici composti tra il 1952 e il 1985 quello che più di tutti concretizza l’idea di fondo del compositore tedesco di “creare opere in cui i piani della forma e del materiale fossero totalmente pervasi da una serie unificante di proporzioni e dalle loro derivazioni combinatorie”.
[Nota tratta da Novurgia]
Eccolo inciso da Pollini (con partitura)
Ed eccolo eseguito da Pollini a Parigi (Cité de la musique) il 25 Giugno 2002
A Reggio Emilia, nell’ambito del festival Compositori a confronto, organizzato dall’istituto musicale “Peri”, produzioni del Conservatorio di musica “Bonporti” di Trento, presente con compositori e interpreti.
Martedi’ 18, alle ore 16.30 presso l’Auditorium dell’Istituto Peri di Reggio Emilia, concerto con musiche di Colazzo, Graziani, Polato, Straffelini, Priori, tutti docenti compositori del Bonporti, e degli studenti Banal e Palaoro, dediti alla musica elettronica.
Interpreti di grande levatura, anch’essi docenti dell’istituzione trentina, dal clarinettto di Mauro Pedron al flauto di Antonella Dalla Benetta, alla tromba di Ivano Ascari, al contrabbasso di Massimiliano Rizzoli.
Prima, una tavola rotonda, dove si confronteranno, sul tema della didattica della composizione, operatori impegnati di varie istituzioni, italiane e straniere.
Il Conservatorio di Musica “Bonporti” di Trento, in collaborazione con la rivista di poesia Anterem di Verona, realizza un concerto di musiche nuove, in prima, su testi poetici, alcuni inediti. a Verona, domenica 16 novembre alle ore 11, alla biblioteca comunale. quindi a Riva del Garda, il 22 novembre, al conservatorio, alle 20.30. poi, nel mese di dicembre, a trento.
Suoni e Poesia e’ il titolo di questa ricerca artistica e di sperimentazione, che si tiene da diversi anni, ormai, coinvolgendo gruppi di compositori docenti del conservatorio, come di compositori invitati, ora anche un gruppo selezionato di studenti.
Un progetto di sperimentazione creativa, che riguarda insieme la musica e la poesia, anima la manifestazione “Suoni e poesia”, giunta alla terza edizione, che il Conservatorio di musica “Bonporti” di Trento e Riva del Garda organizza, in collaborazione con la rivista di poesia Anterem di Verona. Si svolge tra Verona, Riva del Garda e Trento, a partire da domenica 16 novembre, che vede il primo appuntamento, a Verona, alla Biblioteca Comunale, Spazio Nervi, alla ore 11.00. Successivamente, il 22 novembre, il concerto sarà a Riva del Garda, all’Auditorium del Conservatorio, alle ore 20.30. Quindi, replica a Trento, nel mese di dicembre, nel contesto del festival “Il Conservatorio per la città”.
Nella proposta di quest’anno, dieci composizioni di studenti compositori del “Bonporti”, che vengono rappresentate in prima esecuzione assoluta. Sono state scritte appositamente per il progetto, nel contesto dei corsi di Composizione, Musica elettronica, Nuove tecnologie e multimedialità del Conservatorio, per la cura di coordinamento dei prof.ri Massimo Priori, Nicola Straffelini, Leonardo Polato, Mauro Graziani. Le composizioni trattano altrettanti testi poetici, alcuni inediti, plasmandoli nel coinvolgimento della voce, che si ritrova nella declinazione di canto o anche in quella della recitazione. Il contesto di accompagnamento musicale è vario, coinvolge gli strumenti o anche l’elaborazione elettronica.
Gli autori delle composizioni sono Marco Banal, Nadia Carli, Antonio Casagrande, Laura Crescini, Andrea Gonella, Andrea Mattevi, Enrico Miaroma, Lucia Palaoro, Mauro Tonolli.
Le poesie, come le musiche, sono anch’esse, per lo più nuove, scelte dalla Rivista Anterem, che organizza un festival di poesia a Verona, e il noto premio “Lorenzo Montano”. Alcune opere letterarie, recentemente premiate nel XXII concorso di poesia “Lorenzo Montano” (2008) di Verona, sono state messe in musica dagli studenti compositori del Conservatorio. Accanto ad esse, poesie che sono state raccolte dalla rivista Anterem. Questi i nomi dei poeti messi in musica: Yves Bonnefoy, Silvia Bre, Mara Cini, Paolo Ferrari, Massimiliano Finazzer Flory, Philippe Jaccottet, Camillo Pennati, Michele Ranchetti, Luigi Trucillo.
Il risultato è la realizzazione di opere assai diverse fra di loro che, oltre a mostrare delle ovvie quanto naturali distinzioni stilistiche ed espressive, si pongono come una rassegna delle numerose possibilità di integrazione fra le due arti.
Studenti del Conservatorio “Bonporti” sono anche gli interpreti, solisti o in formazioni da camera, o impegnati ai dispositivi elettronici. Gli studenti hanno lavorato nel contesto degli ensemble strumentali curati dai prof.ri Simonetta Bungaro e Corrado Ruzza. Così risultano impegnati nel progetto, B. Canins e C. Molinari (flauto), F. Pola e N. Bortolamedi (clarinetto), A. Mattevi (viola), V. Rakos (violoncello), D. Cavada, I. Tibolla, A. Sala, F. Moncher (pianoforte), C. Turrini (voce recitante), I. Pisoni, F. Monatti e D. Tosi (canto), M. Banal, L. Palaoro, N. Carli e A. Gonella (dispositivi elettroacustici). La presenza video, in uno dei brani in programma, è di L. Olzer.
Conservatorio di Musica di Trento “F. A. Bonporti”
Galleria Legionari Trentini, 5
38100 Trento
Tel. 0461 261673
Fax 0461 263888
Sei brevi brani per percussioni ed elettronica di Kaija Saariaho. In ciascuno dei brani l’autrice sviluppa un aspetto ritmico particolare collegato a quello specifico materiale musicale.
Le sonorità strumentali sono arricchite da suoni naturali, canti rituali e altri suoni percussivi eseguiti dal percussionista giapponese Shinti Ueno, registrati e modificati dall’elettronica.
Iancu Dumitrescu è un compositore rumeno, nato nel 1944, spettralista, anche se in un modo che si distingue nettamente dalla scuola francese. La sua ricerca, infatti, si concentra sul timbro e sul suono, lasciando in secondo piano le altezze.
Recentemente AGP ha ripubblicato, in forma digitale, un vinile con due brani, Medium II per contrabbasso e Cogito, Trompe l’oeil per due contrabbassi, pianoforte preparato e percussioni, che possono essere considerati come complementari.
Le note dicono:
In Medium II, the sounds produced by the double bass explore the edge between tones and noise, and yet an everpresent tonal center is provided by the notes produced by the open strings, giving the excursions into higher tones something of the feel of a raga. The rhythms of the piece remind me at times of the breathing of some great beast or of the surge of the ocean through a tidal cave. The addition of more instruments in Cogito introduces further tonal centers and still more timbral complexity, with considerably more sound energy in higher registers.
Dumitrescu describes Medium II as the hidden, mysterious reverse of Cogito, and suggests that the two works could even be played simultaneously.
UBUWeb ha messo in linea una serie di film di Mauricio Kagel. Li trovate qui
Nel frattempo, ho trovato su YouTube questa esecuzione di Exotica (1971-1972), una composizione in cui sei esecutori di tradizione e cultura europea sono costretti a confrontarsi con musica e cultura extra-europea. In Exotica gli esecutori non sanno suonare gli strumenti che si trovano a maneggiare (almeno 10) perché provengono tutti da culture non europee. Proprio per questo la partitura prescrive essenzialmente durate e dinamiche, mentre la linea melodica è generalmente una monodia oppure si limita a intervalli vicini.
La partitura impone anche di cantare, a volte emettendo suoni più o meno snaturati. La voce è una parte molto importante del brano, tanto che, nei punti in cui un interprete sia impossibilitato ad eseguire insieme le parti strumentali e vocali, quest’ultima è prioritaria.
Esistono inoltre 12 nastri su cui è incisa autentica musica extra-europea, che gli esecutori devono imitare con un grado di accuratezza variabile, prescritto in partitura per i vari parametri.
Performer — Christoph Caskel, Michel Portal, Siegfried Palm, Theodor Ross, Vinko Globokar, Wilhelm Bruck.
Questa immagine vi dà un’idea di come erano conciati gli esecutori alla prima esecuzione
Ho composto Lo Spazio tra le Pietre per la manifestazione “Musica e Architettura”, organizzata dal Conservatorio Bonporti di Trento e Riva del Garda il 18/10/2008.
Dal mio punto di vista, i rapporti fra musica e architettura non si esauriscono nella pur importante questione della progettazione di luoghi per la musica, ma hanno aspetti più profondi che investono certamente la composizione e arrivano fino alla fruizione.
Se, da un lato, un edificio esiste staticamente nello spazio, non può essere apprezzato nella sua totalità senza un intervallo temporale. La sua forma globale non è mai evidente nella sua interezza, nemmeno dall’alto. Si forma nella memoria di chi ci si è avvicinato da molti lati e ha visto la sua forma perdersi, mentre i particolari costruttivi e poi i materiali diventano via via più evidenti. Analogamente, un brano musicale esiste staticamente in una qualche forma di notazione e si svela nel tempo. L’ascolto temporale ne evidenzia, via via, la struttura interna, gli elementi costitutivi e i dettagli.
Così, è possibile pensare un brano musicale come un oggetto statico e un edificio come una struttura dinamica. Ma è da un punto di vista compositivo che le analogie si fanno più strette.
Sotto l’aspetto compositivo, quando lavoro con suoni completamente sintetici che non derivano da alcun suono reale, come nel caso di questo brano, generalmente seguo un approccio top-down. Dapprima immagino una forma, spesso in termini spaziali e poi costruisco i materiali e i metodi con cui realizzarla.
Così, come nell’architettura, per me comporre un brano significa costruire i materiali di base partendo dalle componenti minime e modulare il vuoto temporale e spaziale che li separa, cercando di assemblarli in un ambiente coerente.
I parametri che manipolo, come nella musica strumentale, sono temporali e spaziali, ma, a differenza della musica strumentale, si estendono a livello microscopico. Così, la manipolazione del tempo non si ferma alle durate delle note, ma arriva ai tempi di attacco e decadimento delle singole componenti di ogni suono (le parziali armoniche o inarmoniche). In modo analogo, a livello spaziale il mio intervento non si limita all’intervallo, che determina il carattere delle relazioni armoniche, ma si spinge fino alla distanza fra le parziali che formano un singolo suono, determinandone, in una certa misura, il timbro.
Il punto, però, è che, nella mia visione della composizione, molto più importanti dei materiali sono i metodi. Anzi, anche gli stessi materiali, alla fine, derivano dai metodi. Il mio problema, infatti, non è mai quello di scrivere una sequenza di suoni e svilupparla, bensì quello di generare una superficie, una “texture”, avente una precisa valenza percettiva.
In realtà, questa è texture music. Anche quando credete di ascoltare un singolo suono, in realtà ne ascoltate minimo 4/5. E non parlo di parziali, bensì di suoni complessi, ognuno dei quali ha da un minimo di 4 parziali, fino a un massimo di circa 30. Per esempio, il SOL# iniziale, che nasce dal nulla e poi viene circondato da altre note (FA, SIb, FA#, LA) è composto da 8 suoni con pochissima differenza di altezza che si rinnovano ogni 0.875 secondi. Così si crea la percezione di un suono singolo, ma dotato di un certo tipo di movimento interno.
Texture music, micro-polifonia che si muove molto al di sotto della soglia del temperamento base 12. In effetti, qui lavoro con una ottava divisa in 1000 parti uguali e in certi punti del brano coesistono migliaia di suoni complessi contemporaneamente per generare un singolo “crash”.
Ne consegue che non è possibile scrivere a mano una “partitura” del genere. Ho ideato e programmato personalmente un software compositivo chiamato AlGen (AlgorithmGeneration) mediante il quale io piloto le masse e il computer genera il dettaglio (i singoli suoni).
AlGen esisteva già nel 1984 ed era stato utilizzato per comporre Wires, a cui questo brano deve molto, ma, mentre a quei tempi era solo un blocco di routine che il sottoscritto aveva collegato al programma di sintesi Music360 di Barry Vercoe (l’antenato diretto dell’odierno CSound), per questa occasione è stato completamente riscritto ed è un software a se stante. Nella versione odierna incorpora varie distribuzioni probabilistiche, metodi seriali, algoritmi lineari e non-lineari per controllare meglio le superfici generate e soprattutto la loro evoluzione (per una volta, i frattali non c’entrano, per ora).
Ciò nonostante, AlGen non incorpora nessuna forma di “intelligenza”. Non prende decisione in base all’armonia, al contesto, eccetera. È un cieco esecutore di ordini. Pesca in un insieme probabilistico o calcola funzioni e genera note, ma fortunatamente non pensa e non decide. Quelli che tratta sono puri numeri e non sa nemmeno se sta calcolando durate, densità o frequenze.
Di conseguenza la completa responsabilità del risultato finale è attribuibile solo al sottoscritto. Quando ascolto una massa sonora e riguardo i numeri che ho passato al programma, capisco perfettamente perché suona così ed è solo per quello che posso fare le necessarie correzioni.
Lo Spazio tra le Pietre è stato composto nel mio studio in settembre – ottobre 2008 e sintetizzato in 4 canali mediante CSound. Algoritmo di sintesi: FM semplice.
Partitura CSound generata grazie al software di composizione assistita AlGen realizzato dall’autore.
L’intero brano è pensato come una struttura spaziale. Il suo skyline è evidente del sonogramma a inizio pagina e la sua struttura. come alternanza di forme, pieni e vuoti, è ben visibile nell’ingrandimento di un frammento di circa 1 minuto (qui sotto, come al solito potete cliccare sulle immagini per ingrandirle).
Nocturne by Gordon Green
an improvisation embellished in real time with MIDI processing software, uses the resonance of the piano to create a still, nocturnal atmosphere wherein different harmonies can be mulled over in a leisurely way. The software embellished the improvisation by cycling through repeating sets of intervals, and fragments were recalled and varied as the improvisation unfolded. The original idea for this came from the bird-call transcriptions in Olivier Messiaen’s piano music, which often use more sophisticated variations of similar techniques.
Gordon Green’s (b. 1960) varied influences include the work of Charles Ives, Morton Feldman, and Olivier Messiaen, as well as Indian music, cartoon music, and John Philip Sousa marches. His music combines the expressivity of improvised gestures with the sonic capabilities of electronics, and is informed by his work as a painter and software developer.
A native of Boston, Massachusetts, Green studied music at Vassar College in Poughkeepsie, New York and computer art at the School of Visual Arts in New York City, with additional studies at the Berklee College of Music, Juilliard School, Mannes College of Music, and New York University. His principal teachers were Rudolph Palmer and Richard Wilson. Green has been commissioned by pianist Frederick Moyer, the Ethos Percussion Group, and Schween-Hammond Duo, and supported by the Jerome Foundation, Millay Colony, and W.K. Rose Fellowship in the Creative Arts. His music can be found on the Capstone, Centaur, and JRI labels; his recent release, Serpentine Sky, is a surround-sound recording of music for multiple computer-controlled pianos.
Gordon Green – Nocturne (2001), for piano and computer-controlled Disklavier grand piano – Gordon Green performer
Ylem è un termine usato da Gamow, Alpher e dai loro associati nei tardi anni ’40 per dare un nome a una ipotetica sostanza primordiale o a uno stato condensato della materia che ha dato origine alle particelle subatomiche e agli elementi come li conosciamo oggi. Era il nome che Gamow e soci davano alla “cosa” che presumibilmente esisteva immediatamente dopo il Big Bang insieme a una grande quantità di fotoni ad alta energia, il cui residuo termico oggi si osserva sotto forma di Radiazione Cosmica di Fondo.
Il termine deriva da un vocabolo dell’inglese medioevale che designa qualcosa come “primordial substance from which all matter is formed [wikipedia]” e a sua volta discende dal greco hylem, “materia”.
Ylem, per 19 esecutori, composto da Stockhausen nel 1972, è una allegoria dell’esplosione primordiale e della teoria oscillatoria dell’universo. Prende la forma di una partitura in gran parte indeterminata, formata da solo testo, senza alcuna notazione, secondo la quale gli esecutori iniziano concentrati intorno al pianoforte, per poi “esplodere” suonando la nota centrale del proprio strumento con densità via via minore, mentre i 10 esecutori di strumenti portatili si allontanano dal punto centrale fino a disporsi intorno al pubblico.
Inizia poi il processo inverso: la musica gradualmente si addensa egli esecutori tornano a concentrarsi per dare vita ad una nuova esplosione. L’insieme delle istruzioni, comunque, è più complesso di questa mia breve semplificazione. Prescrive varie azioni, fra cui il passaggio di un segnale costituito dalla sillaba sacra HU (il nome del senza-nome), l’utilizzo di un ricevitore a onde corte e alcune istruzioni specifiche per i 4 esecutori di strumenti elettronici (sintetizzatori).
Colpisce anche il fatto che si tratta di un brano ad altezze quasi totalmente invarianti. La maggior parte degli strumentisti, infatti, si concentra su una singola nota o un accordo, eseguendo al massimo brevi fluttuazioni in un suo intorno.
Karlheinz Stockhausen – Ylem (1972), per 19 esecutori
Zyklus für einen Schlagzeuger (“Cycle for a percussionist”) is a composition by Karlheinz Stockhausen. It was composed in 1959 at the request of Wolfgang Steinecke as a test piece for a percussion competition at the Darmstadt Summer Courses, where it was premièred on 25 August 1959 by Christoph Caskel. It quickly became the most frequently played solo percussion work, and “inspired a wave of writing for percussion” (Kurtz 1992, 96).
The title of Zyklus is reflected in its form, which is circular and without a set starting point. The score is spiral-bound, and there is no “right-side up”-it may be read with either edge at the top. The performer is free to start at any point, and plays through the work either left to right, or right to left, stopping when the first stroke is reached again. (In this way, it is an example of what Stockhausen calls “polyvalent” form.) The instruments are arranged in a circle around the performer, in the order they are used in the score. The notation is only conventional in some details, and an early review of this first graphic score by Stockhausen remarked that “The initial impression is that one is looking not at a score, but at a drawing by Paul Klee” (Lewinski 1959). Zyklus contains a range of notational specificity, from exactly fixed at one extreme, to open, “variable” passages at the other. Stockhausen composed these elements using a nine-degree scale of statistical distribution, but states that the listener is not “supposed to identify these nine degrees when you hear the music, nevertheless the music that results from such a method has very particular characteristics. . . .” (Stockhausen 1989, 51).
In principle, the percussionist decides on the starting point and direction through the score only at the moment of commencing a performance, but in practice this is almost universally worked out well in advance. Only the percussionist/composer Max Neuhaus claims to have consistently given “spontaneous” versions (Neuhaus 2004).
[text from wikipedia]
Ermes mi segnala che l’Osservatore Romano ha pubblicato una breve intervista con Helmut Lachenmann, premiato il 3 ottobre dalla Biennale musica di Venezia con il Leone d’Oro alla carriera con la seguente motivazione:
Amatissima e controversa, la musica di Helmut Lachenmann ha avuto ed ha una grande influenza sui compositori di almeno due generazioni. La concezione molto radicale e utopica a un tempo di un suono disseccato, spogliato di peso semantico fino a raggiungere uno stato che si può definire “minerale”, ha emblematicamente siglato le estreme conseguenze dell’avanguardia musicale strutturalista. Ma contemporaneamente, e questo è l’aspetto forse più interessante e anche sorprendente, ha aperto un nuovo mondo sonoro forzando provocatoriamente i limiti della percezione. Nata da una concezione negativa dell’orizzonte semantico, ha infine dischiuso una nuova idea di linguaggio e, per così dire, una nuova forma di “verginità” della materia sonora
L’intervista, nella sua, brevità, è simpatica e il premio a Lachenmann è sacrosanto (appunto 🙂 ), ma la motivazione mi inquieta un po’.
Se da un lato non ho nulla da eccepire al premio, dall’altro mi è difficile non rilevare che la motivazione suddetta si adatterebbe benissimo a qualche compositore di musica elettronica o, meglio, digitale. Musica che, invece, viene generalmente ignorata, o al massimo sopportata, dalla gran parte delle rassegne nazionali.
In anni recenti, anzi, abbiamo assistito alla ripresa e al “porting” (per usare un termine informatico) in area strumentale di idee sviluppate dall’elettronica e dal digitale. La stessa musica spettrale, che, per carità, ha prodotto opere notevoli nelle mani di compositori come Grisey, Murail, Radulescu e quant’altri, altro non è che un adattamento strumentale tecnicamente improbabile di idee sviluppate e utilizzate già da anni nella musica digitale.
E dico “tecnicamente improbabile” perché è assurdo chiedere a un violinista di eseguire un RE# crescente di 28 cents, in quanto 23° armonico di un LA 110 Hz, anche se, bontà sua, approssimato al quarto di tono. Gli strumenti classici non sono fatti per questo e a mio avviso, dal punto di vista tecnico, l’intera nozione di musica spettrale strumentale è soltanto un’idea, un concetto, una fonte di ispirazione. Si tratta, in pratica, di un ideale che viene tradotto per approssimazione in una partitura che, a sua volta, è tradotta in modo approssimato in esecuzione. L’unico modo di farlo davvero è utilizzare un sistema digitale, cosa che, del resto, è stata fatta ben prima da persone come, per es., Truax e Risset.
Lo stesso discorso può applicarsi, in fondo, a cose come la fasce sonore di Ligeti (che resta sempre un grande). Nello stesso modo, la musica concreta strumentale di Lachenmann è bellissima, ma, secondo me, non ha affatto “aperto un nuovo mondo sonoro forzando provocatoriamente i limiti della percezione”. Elaborazioni di suoni strumentali e non che fanno la stessa cosa ne esistono da sempre nella musica concreta analogica e digitale.
Quindi, senza alcuna vena polemica, mi chiedo per quanto ancora una gran parte del mondo musicale accademico si ostinerà a restare per quanto possibile unplugged e se questo dipenda da ragioni estetiche o semplicemente dal fatto che la musica elettronica, digitale, via laptop, etc., scardina meccanismi di mercato consolidati assicurati dalla triade compositore – editore – interprete.
In altre parole, è soltanto l’impossibilità di disporre di una partitura standard per gli strumenti elettronici a generare il problema o c’è dell’altro?
Kateryna Zavoloka is an experimental electronic music composer and graphic designer from Kyiv city, Ukraine.
Zavoloka mainly explores digital and analogue synthesis, sometimes she uses recorded herself songs, separate phrases, words, instruments, etc.
One of her big influences is the traditional Ukrainian culture. She traveling by Ukraine and recording native traditional ethnic folk songs, which singing old people in country-sides of Ukraine. The aim is to reach interplay between the electronic context and rough unprocessed voices that common people sing with. This produces a very ‘human’ outcome (owing to the spirit that unaffected voices bring), yet staying electronically saturated, post -sounding and edgy.
Zavoloka’s music consists of intensive varied sound motions and unexpected combinations piped into carefully controlled electronic flows. Never try to predict anything, it can turn out in what one just cannot predict. Some of Zavoloka’s friends amongst musicians admit, that her music is very unusual from the structural point of view.When asked about the motive of building such a diverse and complicated constructions, she explained her intention to produce more and more frank music that could reflect her momentary shades of feelings and emotions. She also pointed out that her music is intended to be a natural expression of her private freedom.
In questo podcast, dopo una breve presentazione, potete ascoltare Kagel che commenta, in inglese, il suo brano Anagrama del 1957-58, per soli, coro e ensemble, basato sul famoso palindromo In girum imus nocte et consumimur igni. Segue poi l’esecuzione dell’opera e al termine, Kagel risponde a domande di Pauline Oliveros, Ramon Sender, e Will Ogdon.
Il podcast proviene dalla stazione radio KPFA. Registrato nel 1963, è attualmente disponibile sull’Internet Archive, da cui è ascoltabile e scaricabile in MP3 a questo link.
Anagrama, for four soloists, speaking chorus, and chamber ensemble (1957/1958).
Per gli interessati ecco delle note al brano, in inglese, tratte dalla vecchia e non più disponibile edizione:
The composition “Anagrama” for four solo voices, speaking chorus, and instruments, written between February 1957 and November 1958, after preparatory work in Argentina, was given its first performance at the ICMS Festival in Cologne on nth June 1960. Nearly all the speech elements and sounds are derived from the palindrome on gnats and moths (wrongly attributed to Dante):
In girum imus nocte et consumimur igni
(we circle in the night and are consumed by fire)
whose completely symmetrical structure is the equivalent of Webern’s late twelve-tone rows. This is not a superficial comparison, for this piece, constructed in five sections and in three levels, represents no less than an attempt to match in vocal music the standard of synthetic sound differentiation based on Webern’s work achieved in electronic music of that period. Of course, “Anagrama” at the same time also has its sources in completely different worlds, above all in Romanic- Manneristic Surrealism, but also in the Romantic-Universalistic spirit, which was obsessed with the idea that everything was connected with everything else. Kagel uses German, French, Italian, and Spanish; Latin is reserved for the palindrome, whose vocabulary of sounds (i, n, g, r, u, m, s, o, c, t, e) is extended by transposing the letters into acoustical terms; the c of consumimur, for example is mutated into a German k or a Spanish q (as in queso), the k in turn – together with s – provides the German x (as in Xylophon). It is not the meaning of the words, then, but their sound values which are the most essential part of all sound, word, and text composition here – most obviously so in what Kagel calls “acoustical translation”. Pure sound imitation produces from the palindrome a sentence like: “In giro immoto notte e quieto ingu” (p. 36, b. 15). In line with Kagel’s conception of lexica as the “summa summarum of all permuration systems”, most of the new words are formed out of more or less regular rearrangements of the palindrome syllables. From “rum”, for example, the words rumor (Sp.: rumour), rue (Fr.: street), Ruhe (G.: rest), Russe (G.: Russian), and rustre (Fr.: boorish) are derived, and there is an effortless development with about 30 intermediate steps from rime (Fr.: rhyme), ruinoso (Sp.: ruinous) or ripieno (It.: full) to Regung (G.: movement, emotion etc.), Regen (G.: rain) and requiem – partly via regular, partly via associative word production.
The sentences formed from the new words are superimposed, as in a palimpsest, to form absurd dialogues, as in, for example: “Quien teme?” (Sp.: whom do you fear?) – “Tiens, mon Seigneur, ecoute un cri rôti” (Fr.: Well, sir, hear a roast cry) – “Je suis innocent” (Fr.: I am innocent). Or they are vaguely related: “Ein Ritter sitzt im Griinen” (G.: A knight sits in the open – “ieri ricino” (It.: castor-oil yesterday) – “er summt in seinem Eisen” (G.: He hums in his iron) – “oggi riposo” (It.: closed today). In general, a lack of syntactical connection between parts of sentences, dense polyphony, and an additional darkening of the sound (by use of vocal clusters, for example), combine to make such speech compositions almost totally incomprehensible. The phonetically written vocal sounds, the counterpart of the diversity of forms in the “Streichsextett”, form a compendium of articulation methods, resembling electronic amplitude and frequency modulation. Pursing of the lips, breathy notes, nasalization, diverse vibrati, etc., create a rich spectrum of individual tone colours and transitions which before this composition had been restricted to electronic sound synthesis. The instrumental articulation is also alienated. Their sound spectra and the connection of the palindrome letters with certain pitches aims at the acoustical integration of speech and music. That this does not lead to any kind of mechanical rigidity, but on the contrary, contributes towards a multifarious and large-scale structure is already made clear by the fact that identical connections only recur after 12 (pitches) times 11 (letters) =132 notes. In fact the form of the work is an implied criticism of the rigid formal structures of serial music; its ideal is constant transition even in the smallest elements – a concept derived partly from painting, in particular from Klee’s “visual thought”. “Anagrama”, then, is a passing tableau of colours and relationships which half conceals an anagrammatic form of semantics deriving from spontaneous and intentional associations and which occasionally descends from the heights of serial rationality – as in a passage of extreme density and intensity on which Kagel comments: “If these creams should awaken in the listener an impression that these are injured, suffering persons, then the chorus is to be heartily congratulated.”
Werner Kluppelholz (Translation: John Bell)
…o ridurre drasticamente il numero delle proprie esecuzioni.
Questo brano è OM, per orchestra, op. 12, scritto nel 1968 da Robert Wittinger (compositore austro-ungherese nato nel 1945) su commissione della Hessicher Rundfunk per il Darmstadt Holiday Course for New Music. Il pezzo termina con un colpo di gong e in partitura sta scritto, in 14 lingue
Questo difficile colpo di gong può essere eseguito soltanto dal compositore; per questa ragione egli dovrebbe essere invitato a ogni esecuzione
Pur condita con un po’ di folklore, d’altronde stimolato dal nostro che spara senza mezzi termini sulla storia
He can’t stand Shostakovitch (“de la merde!”), dismisses Schnittke (“tuttifrutti!”), cordially dislikes Boulez (but admits that “he opened up a new sound world for all of us and his management skills come out well in front of the orchestra”)
e sui colleghi
…such as Dusapin (the tritones of whose cello concerto “set my teeth on edge”) annoy him through their business skills, and he refers to the music spectrale crowd in Paris with scorn (“they’re the mafiosi”)
l’intervista è comunque interessante per avvicinarsi alla personalità, alla storia, alla formazione e alle fonti di ispirazione di questo autore che, come altri contemporanei, amava la musica antica più di quella storicamente precedente e cercava di ritrovare quella componente rituale e quasi sacra della musica andata perduta nel tempo.
Prendetela con le pinze, ma da circa un’ora (è l’1:30 del 27/09) sta girando una notizia secondo la quale Horatiu Radulescu, compositore rumeno, noto per i suoi lavori caratterizzati da una ricerca spettrale molto spinta e coraggiosamente priva di compromessi, sia deceduto, a soli 66 anni, a Parigi, dove aveva vissuto a lungo.
La notizia sembra confermata; se ne parla su NetNewMusic. Tristemente, il 90% degli spettralisti è scomparso prima che il 10% del mondo si sia accorto della loro esistenza.
Horaţiu Rădulescu – Capricorn’s Nostalgic Crickets, opus 16 no 2 (1980), per 7 flauti.
Note di programma in inglese:
7 flutes move along a “square well” of 96 sounds – an “infinite melody”, closed circle of “inharmonic” quarter-tones. Each of the 7 has a different start point: a canon which had already began since the sound-sources play continuously.
Each sound lasting ca 9 seconds (subjective time) is irregularly placed within a period of 11 second-long (objective time). Imagine a sphere with equidistant 96 meridians/feints through which irrupt 96 micro-music events. Due to their various consistency that implacable periodicity (the 11 second-pulse) will become imperceptible.
Four types of sound-production technique (“timbre-being”) activate the micro-spectrality of each sound:
yellow tremolo (“morse” signals of different fingerings on a unique pitch)
simultaneously singing and instrumental sound with flattertongue
The statistical reading of these 4 types of “timbre-being” creates a “directional random” evolving toward several “accidents of purity” (the 20th eruption : 6 yellow tremoli and l overblowing the 43rd eruption : no multiphonic (unique case) the 87th eruption : 6 sung flattertonguings and 1 yellow tremolo) and inscribing itself into a fusiformali macro-register trajectory. This resembles a natural phenomenon where the cause (sound – sources) and the effect (sound parameters) become very often undetectable, a “drunk organ” simulated by the seven flutes.
20’51” è il nuovo lavoro del compositore colombiano, trasferito a NY, David Velez (aka Lezrod).
Si compone di una serie di foto scattate dallo stesso Velez e pubblicate in pdf e di un suggestivo brano, intitolato Polvo, una parola che in spagnolo significa polvere, ma, come fa notare l’autore, ha anche connotazioni cicliche e sessuali:
“…quia pulvis es, et in pulverem reverteris… “.
(“…for dust you are, and to dust shall you return…”).
…is a quote taken from Genesis 3:19 in the Bible. Some intellectuals claim that this Bible quote is the origin of the use of the word ‘Polvo’ to refer to the sexual act.
The cyclic and finite/infinite notion that are found on the use of the word ‘Polvo’ are quite inspiring and probably influenced the way the piece sounds and feels, since the title ‘Polvo’ was assigned to the piece before I composed it.
Dust was here before us, dust will remain here after us. That fact makes everything else simple, ephemeral and harmless.
Il lavoro pubblicato dalla netlabel test tube, che con questa pubblicazione inaugura una nuova serie dedicata al mixed media, dove è scaricabile come insieme (photo e audio in un unico zip).
Composto fra il 1968 e il 1970, Acustica, per “dispositivi sonori sperimentali” e altoparlanti, è uno dei più radicali e straordinari esempi della ricerca sonora di Mauricio Kagel.
Nei suoi continui tentativi di sfuggire ai vincoli e alle convenzioni della performance musicale tradizionale, Kagel ci guida in un mondo sonoro generato da strumenti esotici e invenzioni surreali.
Lo strumentarium di Acustica è immenso: va da strumenti di tutte le culture e di tutte le epoche storiche fino a invenzioni dello stesso Kagel, tutte notate meticolosamente.
Alcuni esempi tratti dalle note alla prima incisione, quella ormai fuori catalogo e rimessa in circolazione da AGP da cui potete scaricarla in formato FLAC (compressione senza perdita):
Nail-Violin, uno strumento a frizione inventato alla metà del 18° sec. in cui delle barre di ferro di egual diametro ma differente lunghezza vengono messe in vibrazione con un archetto
Roundpeg-Violin, come sopra, ma con barre di legno
Scabella, sandali rumorosi che venivano indossati dal direttore di coro nell’antica Roma
Hinged-board (Crepitacolo), un piatto di legno a cui sono attaccati vari pezzi di metallo che agiscono da batacchi quando il piatto viene agitato
Linguelle metalliche messe in vibrazione da un albero a gomiti
Puntine di vario tipo per esplorare approcci devianti alla bassa fedeltà: es. un grammofono in cui la puntina è sostituita da una lama di coltello infilata in un barattolo di latta
Megafoni di vario tipo
Soffiatore incrociato per la modulazione timbrica delle pagine di un libro
Palloncini usati come risuonatori negli strumenti a fiato oppure come riserve d’aria
Pipe-branch, un lungo tubo collegato a canne d’organo, alimentato da un cilindro pieno di aria compressa
Sordine per strumenti a fiato dotate di altoparlante collegato a un registratore su cui sono incise note di strumenti a fiato
Il brano è costituito dalla sovrapposizione di due diversi piani:
un nastro pre-registrato a 4 canali composto principalmente da suoni elettronici, ma anche strumentali e vocali non modificati
le azioni degli strumentisti in numero variabile da due a cinque.
Oltre alle indicazioni per costruire gli strumenti, la partitura è composta da 200 schede (filing cards: le schede degli schedari) ognuna delle quali reca nell’angolo in alto a destra il simbolo dello strumento utilizzato.
L’ordine delle schede è completamente libero, ma l’azione indicata su ogni scheda è descritta con precisione. Anche il comportamento degli esecutori e la loro espressione facciale è dettagliata sulle schede. Gli esecutori decidono in che ordine utilizzarle, così come i loro tempi di entrata.
Nell’incisione pubblicata da AGP, registrata a Colonia nel 1971 sotto la direzione dello stesso Kagel, le prime due parti sono live e comprendono cinque esecutori e il nastro, controllato dal compositore. Le parti 3 e 4 sono un assemblaggio effettuato in studio. Non ci si aspetta che vengano ascoltate di seguito.
Quello che segue, invece, è una esecuzione di Acustica reperita su YouTube.
Esecutori: Kölner Ensemble für Neue Musik
Una versione di Tempo Reale.
Progettazione e drammaturgia: Jonathan Faralli, Francesco Giomi
Esecutori: Monica Benvenuti, Francesco Canavese, Jonathan Faralli, Francesco Giomi
Regia del suono: Damiano Meacci
Tripla maledizione, scrivere necrologi è deprimente.
Due giorni fa è scomparso Mauricio Kagel. Argentino, trasferito in Germania fin dal 1957, Kagel è stato sempre una figura provocatoria e diversa nel panorama della musica europea.
Interessato al teatro musicale, alla parte “scenica” della musica non meno che alla musica stessa, ha saputo creare opere che vanno oltre entrambi questi aspetti, fino a qualificarsi come lavori metamusicali. Da Exotica (1971-72) e Der Schall (1968), in cui gli esecutori, che di solito sono degli esperti dello strumento, sono costretti a confrontarsi con strumenti che non sanno suonare a Musik fur Renaissance Instrumente (1965/66) dove gli strumenti antichi vengono utilizzati per creare sonorità del tutto nuove, fino ad opere lucidamente provocatorie come Con voce (1972), dove tre attori muti si presentano sulla scena e, dopo un lungo imperterrito silenzio, mimano brevi frammenti di concerto, in atteggiamenti ridicoli e dissacranti o Recitativarie (1971-72), dove una clavicembalista-cantante inscena una delirante lettura musicale o ancora Match (1964) per due violoncelli e percussioni che è la trascrizione musicale di un incontro di pugilato.
Mi preme citare anche Hétérophonie (1961), un brano per orchestra interamente formato da materiale altrui, desunto da opere di autori del ‘900 come Debussy, Schoenberg, Stravinskij, Ravel, Varèse, Boulez, Stockhausen. La citazione portata all’eccesso e fatta arte.
È giusto dire che, in Kagel, la musica si faceva teatro e a volte anche film come per Ludwig van (1970) uno dei suoi lavori più noti. Si tratta di una riproduzione di una visita fittizia allo studio di Beethoven nella sua casa di Bonn. Molte scene sono tappezzate dagli spartiti della musica di Beethoven e la colonna sonora è costituita dai brani musicali che appaiono negli spartiti inseriti nelle inquadrature. La musica è come deformata timbricamente ed ha un suono distorto che lascia comunque riconoscere le autentiche melodie beethoveniane. In altre scene il film mostra delle parodie di trasmissioni radio televisive connesse alla commemorazione del “Beethoven Year 1770”.
La sua produzione, in vari campi, è molto vasta ed è impossibile darle qui lo spazio che merita, ma ne riparleremo.
Potete trovate altra musica/film di Kagel in AGP (num. 2, 40, 41, 104), su UBUWeb e qui in MGBlog.
Su wikipedia in spagnolo trovate anche il catalogo delle opere.
musician, composer, sound artist – has created works for koto and electronics, Laser Koto, field recordings, laptop, video and written scores for ensembles, chamber orchestras and mixed choirs. In her pieces she has investigated the sound and movement of insects, as well as the physiological response of plants, the human brain and her own body. Within these varied contexts her performance work investigates the interactive, collaborative aspects of sound, improvisation, nature and society.
In effetti è attiva in molti campi cha vanno dalla musica per koto (anche elettrificato e in versione laser), alla musica per ensembles, al field recording e alla sperimentazione con piante e onde cerebrali, come potete vedere guardando i suoi video.
Qui vi presentiamo un estratto da For Birds, Planes & Cello. Come dice il titolo, si tratta di una composizione che utilizza una serie di field recording di aerei e uccelli. I due strati sonori sono mediati dal violoncello che agisce come elemento unificante. In questo estratto di 5 minuti (l’unico liberamente disponibile: il CD è distribuito dalla sua etichetta SolitaryB), l’azione del violoncello è limitata a lunghi suoni, più o meno armonici che si pongono come trait d’union fra le due registrazioni.
No, non si tratta della sonata 29 op. 106 di Ludwig Van, ma di un recente lavoro elettroacustico di Massimo Biasioni, qui in versione Jekyll & Hyde.
Il brano, originariamente quadrafonico, è basato su campioni registrati all’interno di un pianoforte a coda. Lo strumento non è suonato in maniera convenzionale, i campioni sono stati ottenuti percuotendo, pizzicando o sfregando con oggetti le corde e il corpo dello strumento, allo scopo di ottenere le risonanze del pianoforte piuttosto che suoni con altezza definita.
Il mezzo elettronico è stato poi utilizzato per analizzare e risintetizzare tali suoni complessi, estraendone di volta in volta determinate caratteristiche, esplorando la zona che va dal rumore al suono intonato, modificando l’attacco del suono su modello di una corda pizzicata, disponendo infine il materiale derivato nello spazio quadrifonico e assemblandolo lungo lo spazio temporale allo scopo di costruire un forma organica.
I software usati sono Max/MSP e ProTools. La durata è di undici minuti.
Qui lo ascoltate in streaming (att.ne: inizia molto piano). Potete scaricare l’intero CD “Inside the instruments (l’instrument outragè)”, con altri 4 brani, dal sito dell’autore.
Aauuttooppooiieessiis è un brano dello sperimentatore austriaco Arno Steinacher pubblicato per la netlabel LuvSound.
Nei suoi lavori Steinacher cerca di tradurre modelli e idee scientifiche in musica. In questo caso l’idea alla base del brano è l’autopoiesi, termine coniato nel 1972 da Humberto Maturana a partire dalla parola greca auto, ovvero se stesso, e poiesis, ovverosia creazione. In pratica un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente sé stesso ed al proprio interno si sostiene e si riproduce. Un sistema autopoietico può quindi essere rappresentato come una rete di processi di creazione, trasformazione e distruzione di componenti che, interagendo fra loro, sostengono e rigenerano in continuazione lo stesso sistema [wikipedia].
Ne esce una musica piuttosto affascinante, minimale nella sua essenza, ma in continua trasformazione, dando l’idea di evoluzione automatica e spontanea.
Note dell’autore:
The basic idea of this work was to explore the term autopoiesis, which means selfcreation. In the context of theoretical life science, autopoiesis is often said to be the most fundamental principle of living systems.
To a certain extent autopoietic processes consist of repeated cycles of self-recurrance: glycolysis for instance, photosynthesis or autocatalytic RNA reactions. These processes are organized modular, forming a regulation network. As self-recurrance never happens exactly, there is space for errors and individuality, which in many systems causes something new on another level. This is one of life’s attributes: to create new dimensions spontaneously, another may be unrepeatablility.
“Aauuttooppooiieessiiss” reflects on and plays with these ideas. It consists of several loops with two main origins: instruments and machines, which stand for organic versus anorganic matter. The instrumental parts were all produced with electric guitar, the machine parts were for some part recorded in a factory near Vienna in 1999. Some loops run in parallel in many copies, but each copy differs in tempo and starting point. No situation in this work is repeated, every rhythm that emerges is ephemeric and takes place just one time, although it may be very similar to its neighboured ones, before and after. This ephemeric patterns that just arise at some times in this piece were my focus during the composition process.
One of the surprising results for me was that self-recurrence of machine sounds caused a more organic situation than the guitar-loops, which merely seemed to transform their sonic quality.
Notations, la leggendaria antologia edita nel 1969 da John Cage ed Alison Knowles, contenente molti esempi di notazione grafica e ormai da anni fuori catalogo, è disponibile per il download qui. (att.ne pdf di 300+ pagine, circa 74 Mb)
.at/on is musician and composer Anton Holota from Ukraine.
.at/on main soundwork is offered through electroacoustic ambient and glitch and drone flavors. ‘fon a’ and ‘fon b’ are two small pieces of glitch ambient and experimental noise that together make up one complete story. ‘scape-01’ and ‘Products of Passed Days’ are much more on the ambient drone side, lenghtier and more spatious pieces, with a twist of dark ambient throughout. [Pedro Leitão]
Clepsydra è un brano di Radulescu per 16 sound icon.
Questo strumento è una invenzione dello stesso Radulescu. Si tratta di un pianoforte privato del coperchio e appoggiato su di un lato, in verticale, in modo che sia possibile accedere alle corde che vengono suonate in vari modi: pizzicate, percosse oppure passando fra loro dei fili di nylon o dei crini, con risultati simili ad un archetto. L’accordatura è non standard, definita dall’autore. In fondo è simile al bowed piano di cui abbiamo già parlato.
Horatiu Radulescu – Clepsydra, for 16 sound icons – European Lucero Ensemble, dir. Radulescu
Torniamo alla normalità. Una nuova improvvisazioneo che secondo me ha qualcosa di irritante, da cui il titolo.
Come al solito, con gli altoparlanti del computer se ne sente metà.
Per ferragosto, un brano un po’ inusuale nella produzione di S.N.O.W., basato su un arpeggio dal sapore minimalista, fondamentalmente tonale su cui si accumulano strati di suoni ed elaborazioni.
Come al solito, con gli altoparlanti del computer se ne sente metà.
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Ogni membro della comunità ha una propria pagina in cui può anche caricare la propria musica. Esistono forum in cui aprire discussioni sul tema, liste di eventi e tutto quanto serve in un social network.
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Inner Time II, op.42 (1993), di Horaţiu Rădulescu, è per sette clarinetti in SIb.
La struttura delle altezze è basata su una scala non temperata di 42 note ricavate dalle parziali 6, 7, 8, 9, 10, 11 e tutte le parziali dispari fino alla 83 di un LA basso (enfatizzare le parziali dispari, in effetti, è coerente con il timbro del clarinetto).
La nota derivata dalla 6a parziale è la più bassa e corrisponde al MI basso del clarinetto in SIb; la più alta, quella della 83ma parziale è appena sotto il RE più alto nell’estensione di un clarinetto in MIb.
In questo brano, però, tutti i suoni sono ottenuti da clarinetti in SIb.
Le 42 note della scala sono suddivise fra i 7 clarinettisti: ognuno di loro deve imparare a eseguire 6 note. Dico imparare perché, derivando direttamente dagli armonici, la scala non è temperata, ma naturale ed è richiesta una notevole precisione di intonazione essendo le altezze definite a livello del 64mo di tono. Dorante le prove vengono usati degli accordatori elettronici per aiutare gli esecutori a trovare la giusta intonazione.
Inner Time II è un omaggio ad Alexander Calder (quello dei mobiles). Qui Radulescu applica la tecnica del filtro di registro, il che significa che seleziona solo alcune parti della scala proprio come se vi applicasse un filtro passa-banda. In effetti l’intero brano è uno spostamento graduale dalle alte verso le basse frequenze con tempi diversi, come i vari elementi di un mobile che ruotano gli uni attorno agli altri.
La struttura temporale, comunque, è molto complessa e fa appello anche alla sezione aurea e alla sua controparte, la serie di Fibonacci.
Se volete maggiori dettagli, potete leggere le note di programma (pdf in 3 lingue).
Decisamente un bel brano, affascinante anche se non facile perché Radulescu non conosce compromessi, basti pensare che il tutto dura quasi un’ora e lo svolgimento è molto lento.
Il lavoro degli esecutori, poi, è superbo, anche se, quando sento brani di questo tipo giocati tutti sulla precisione dell’intonazione che va oltre il sistema temperato, mi chiedo se non sarebbe il caso di utilizzare l’elettronica, senza sottoporre gli esecutori a inutili crudeltà.
Un altro brano di Tod Machover dopo Light. Anche questo è distribuito da AGP da cui potete scaricarlo in formato FLAC.
Si tratta di Soft Morning, City! che presentiamo con le note dell’autore, è per soprano, contrabbasso e suoni elettronici sia sintetici che ottenuti elaborando gli strumenti. Il testo è tratto dal monologo di Anna Livia Plurabelle, nel Finnegan’s Wake di James Joyce.
Soft Morning, City! (which was commissioned by the Calouste Gulbenkian Foundation for Jane Manning and Barry Guy) presents its qualities more immediately and directly. This is due mostly to the presence of James Joyce’s text, the final monologue from Finnegans Wake. The particular passage that I have chosen here has interested me for many years. Coming at the end of this monumental epic, it is a melancholy and moving swansong of the book’s main female character, Anna Livia Plurabelle. Now appearing as a washerwoman, she recalls her life as she walks along Dublin’s River Liffey at daybreak. Many different planes of narrative are interlaced, the mundane with the spiritual, the sexual with the aesthetic, the personal with the universal. Joyce achieves the closest thing to the temporal parallelism of music by snipping each layer of narrative into short, constantly varying and overlapping phrases. The great beauty is that Joyce creates not the eclectic choppiness that such a procedure might suggest, but a majestic form of tremendous power and sweep. It seems to me that Joyce achieves this through an organization of the over-all sound of the passage in an unprecedented way. Listening to a reading-aloud of the text, one is carried by its cadences, tidal flows, crescendos and dvina-awavs, even while being sometimes onlv half-sure . , of the meaning of certain words. it is the rare combination of polyphonic verbal richness with inherent sonic structure that makes it ideal for a musical setting.
My setting takes the form of an aria, though a rather extended and elaborate one. Attention is always focused on the soprano, who alternates between long melodic lines and short interjections that change character quickly. The double bass lends support to the soprano, provides harmonic definition and melodic counterpoint, and often adds musical commentary.
The computer tape helps to amplify, mirror and extend the myriad reflections of Anna Livia, but at the same time acts as a unifying force. To emphasize closeness to the live performers, a new process is added whereby soprano and double bass music is directly transformed by the computer, producing at times sounds that seem to fuse the two into one musical image.
The work begins in stillness, with the soprano evoking the atmosphere of morning, surrounded by an ethereal transformation of her own breath. With the entrance of the double bass, various different strands of the textual polyphony are introduced one after the other, each with characteristic music. As the sonority of the tape gets closer to that of the live instruments, the musical layers begin to overlap with greater rapidity. In the lengthy middle section, many different layers are superimposed so that at the moment of greatest intensity and complexity a new unity is formed.
From this plateau, the rest of the work is built. Quiet communion is achieved between soprano and bass. This leads directly to a long melodic section, with soprano accompanied by a continuous harmonic progression in bass and tape.
After a final moment of lonely reflection (“O bitter ending!…”), an enormous wave washes over Anna Livia and carries her away. A quiet coda uses delicate, distant images to recall the stillness of the work’s opening. A chapter is closed, a deep breath taken, and we prepare, led by Joyce’s Liffey (“Riverrun…”), to begin again.
Tod Machover, Soft Morning, City!, per soprano, contrabbasso e suoni elettronici.
Testi tratti da “Finnegans Wake” di James Joyce
Jane Manning, soprano; Barry Guy, Double Bass. Computer parts realized at IRCAM, Paris
AGP ha ripubblicato recentemente alcune incisioni di musica elettronica degli anni ’80 che trovate nell’Internet Archive ai numeri 106, 107, 108 da dove potete scaricarle in FLAC.
Il 107 contiene due brani di Tod Machover, compositore americano del 1953 molto attivo anche in area multimediale.
Qui vi faccio ascoltare Light, un pezzo del 1979 scritto per l’Ensemble Intercontemporain più due flussi elettronici preregistrati ottenuti mediante elaborazione di suoni strumentali.
L’autore spiega in dettaglio il brano:
The piece takes its title from a quote by Rider Haggard, the English fantasy author: “Occasionally one sees the Light, one touches the pierced feet, one thinks that the peace which passes understanding is gained – then all is gone again.” The atmosphere and expressive content of the work reflect these words, which also influenced the choice and treatment of musical materials.
From a single melody (heard in entirety only at the climax of the piece) a complex polyphony is developed that creates layers of simultaneously overlapping, shifting musical planes, like independent clouds that move each at its own speed, and part momentarily to allow rays of light to pass through. Each of these layers is characterized by a different musical elaboration of the same basic materials. The largest contrast is between the instrumental ensemble (14 players) and two separate computer-generated 4track tapes. Each of these tapes represents a different (and opposing) approach to the elaboration of musical structures. The first uses traditional instrumental timbres and playing techniques as a starting point and transcends the “normal” by extending past the human capacities. The second explores microscopic details of sounds derived from these same instruments, although the connection between the two worlds is made clear only gradually during the course of the piece.
The instrumental ensemble is musically situated between these two approaches. It is divided into four sub groups (string quartet; woodwind quartet; piano, harp and wood/skin percussion; trumpet, trombone and metal percussion), each of which develops a distinct set of musical tendencies, and possesses a clear timbral identity. The piece was conceived for IRCAM’s experimental concert hall, or Espace de Projection, where all acoustical and physical characteristics are controllable. The instrumental ensembles are placed in the four comers of the room, on platforms, with the public seated in the middle. Tape I is distributed through 4 speakers, one placed over each instrumental group, thus emphasizing the “instrumental” departure point for this tape’s electronic sound. Tape II emanates from a set of 4 speakers placed on the ceiling of the hall, to exaggerate the separateness of this ethereal and delicate murmuring that develops gradually into the thunderous crashes that mark the climax of the piece.
The piece begins by emphasizing the distinctness of all its various layers. Each group follows its own developmental principles in a section that culminates in a series of cadenzas. After each group has had its say, all material is combined in the large solo of Tape I which builds until the first crashes of Tape II. In the quiet that follows, a new, more homogeneous order is built up gradually, and leads to a final section of delicate chamber music, where equality prevails among all the diverse elements. The main harmony of the piece provides the basis for a meditative coda, which dissolves into the isolation and bareness of the final piano notes, a shadow of the defiance and brilliance shown by the same instrument at other points of the piece.
The musical form is dramatic, the expressive mood quite romantic, and both are founded on a conviction of mine: that faced with todafs confusing kaleidoscope of equally valid parallel lifestyles, cultures and ideas, the only response is to search quietly but resolutely for a deeper truth, perhaps out of nostalgia for a lost simplicity, but hopefully from a courage aid belief in a “new order” of synthesis and unity behind the surface choas. It is this search that I have tried to portray in Light.
Tod Machover – Light (1979), per ensemble e suoni elettronici
Members of the Ensemble InterContemporain with two computer-generated tapes. Conducted by Peter Eötvös. Computer parts realized at IRCAM, Paris.
L’esplorazione estiva di Art of the States continua con questo brano per pianoforte amplificato e parte elettronica che ha alcuni momenti decisamente deliziosi, anche se a tratti si perde in qualche estetismo, ma nel complesso l’insieme mi sembra buono.
L’autore è Hideko Kawamoto, nata in Giappone nel 1969 e cresciuta musicalmente negli USA dove risiede.
Note di programma:
After the Summer Rain for amplified piano and two-channel tape, dedicated to the memory of Clarence Asher Peevey (17 July 2000 – 28 July 2000), was inspired by Rainer Maria Rilke’s poems ‘(Nos Pleurs)’ and ‘Before the Summer Rain’ (1906).
The visual images of a summer forest, including rain pouring onto trees, shiny silver spider webs, and dark wet ground … were transferred into sounds using piano as the basic sound source for creation of the tape part … The piano part represents a person who has been inside the wet forest after experiencing the heavy summer rain. The tape part represents the natural phenomenon of the summer forest.
This piece is Part II of Summer Rain, composed immediately after Part I, Summer Rain – Dawn (2000) for two-channel tape.”
[Hideko Kawamoto]
Hideko Kawamoto – After the Summer Rain (2000), for amplified piano and two-channel tape
Corey Jane Holt, piano
“a pressure triggering dreams” (1996-1997) è un brano del compositore americano David Felder (b.1953), per orchestra ed elettroacustica dal vivo nella forma di campioni di flauto elaborati elettronicamente e affidati a un campionatore per l’esecuzione. Completano la parte elettrica un basso elettrico e una amplificazione selettiva di alcuni strumenti.
Concettualmente ho qualche riserva (i.e. perché proprio suoni di flauto?), ma il risultato sonoro non è male, frenetico e ad alta energia, anche se gli interventi elettronici si sentono solo in particolari punti e a volte si fatica a discernerli nella massa orchestrale.
Ma forse questo è proprio quello che il compositore voleva. Comunque ognuno può farsi la propria opinione. Ecco le note di programma e il brano
“The work a pressure triggering dreams was commissioned by the American Composers Orchestra for Carnegie Hall, for a premiere in May 1997 … [It] was to be a work that included electronics. I elected to respond to this request by incorporating a companion ‘orchestra’ consisting entirely of computer-processed flute sounds within the orchestral tapestry and to expand the orchestra by using live sampler keyboard, electric bass, and by selectively amplifying solo instruments. […]
“The title is a rough translation of some remarks made by Friedrich Nietzsche in The Birth of Tragedy (1870-1871) when he is speaking of the effect of Richard Wagner’s musical language upon the listener — this remark characterized my subjective response to the piece I was then composing and therefore serves as a kind of emblem for the composition. A wide variety of materials (extracted from my series of ‘Crossfire’ pieces — soloists, electronics, video, and computer processing of acoustic materials made by the individual musicians) is deliberately compressed in the attempt to create an atmosphere of saturation somehow related to the experience of persistent musical afterimages suggested by Nietzsche’s brilliant observations. […]”
David Felder – a pressure triggering dreams (1996-1997), per orchestra e elettronica
Buffalo Festival Orchestra, Harvey Sollberger, conductor
Un’orchestra di gamelan campionati è quanto esce dalle mani di Evan Ziporyn, compositore americano nato nel 1959, che si dice fortemente influenzato dalla cultura balinese.
Il brano, in 6 movimenti, si intitola Amok! ed è del 1997. L’autore scrive
[Amok!] uses sample technology and the incredible virtuosity and dedication of the musicians to create an impossible musical landscape, a virtual gamelan and then some. Our voracious sampler eats up the whole gamelan and spits it out again, with chromatic gong scales, gigantic gangsa chord-clusters, six reong sections in different keys. Robert Black’s effect boxes and triggering devices allow his bass to match the 25-piece gamelan blow for blow. Melodies begin in the gamelan and find themselves someplace else; simple bass melodies, transformed by delay and harmonization, find their way to Bali and end up sounding almost traditional. The technology makes anything possible with enough megabytes of memory, and the exhiliration this creates is matched only by the terror of figuring out what to do with it. As soon as one abandons the safety of traditional form, western or Balinese, what is to be done? Nothing but to run amok and see what’s left standing when the smoke clears
Evan Ziporyn – Amok! in una playlist che comprende i 6 movimenti + Trial Fire in 5 mov.
Robert Black, double bass
Gamelan Galak Tika
Evan Ziporyn, director, kendang (barrel drum)
with
Dan Schmidt, sampler
Alex Rigopulos, gamelan sampling
The three scores below are by John Stump, composer of several joke musical scores which are impossible to play, wildly complex and contain bizarre stage warnings such as “shock therapy may be necessary to finish”.
The fourth is by the japanese composer Yamasaki Atushi. I have no info about him.
This new sound output [Seroton EP] of Sascha Neudeck (biochemist and musician, based in vienna) is to carry out a test by the idea of different drone-interpretations. It is more a collection of different quotations in doing with such these topics. The result is quite different to his previous work, which was more noise- and random-oriented. This new section is quite a try to arrange such these things – from totally abstract elements to poetic narrative parts. Different ideas come out from an abstractness and get into an often sparely melodic part – otherwise a changeover from the lightness of sound into a deep and noise drone, which is interrupted by fragement spikes of sound. Neudeck is working only with software, sinus generators, self produced sound equipment and lately with the sidrassi organ (totally crazy tool). So I am often surprised by the result, when it sounds like a field recording. But when I see, how he works in his nerdy laboratory, I understand that his output can irritate.
[ liner notes by Heribert Friedl / photo by Sascha Neudeck ]
Due giorni fa, Michel “Crackle” Waisvisz, creatore di diversi sistemi elettroacustici come il CrackleBox, il CrackleSynth e The Hands, si è spento prematuramente nella sua casa, dopo vari mesi di malattia.
Nato l’8 Luglio 1949, ha diretto lo STEIM (STudio for Electro-Instrumental Music di Amsterdam) per 27 anni.
È una pura coincidenza, non lo sapevo, ma mi fa molto piacere aver passato gli ultimi due giorni a suonare un nuovo cracklebox arrivato recentemente dallo STEIM, così come mi rende felice il fatto di averne regalato uno proprio il 19.
Un’intervista con George Crumb su YouTube, registrata nel novembre 2007.
Anna Sale speaks to Pulitzer Prize-winning composer and West Virginia native George Crumb. She spoke to him in November 2007 when he was back in his home state to be inducted into the West Virginia Music Hall of Fame. Russ Barbour is the video editor and co-producer of this piece. It first aired Dec. 20, 2007, on the program “Outlook” on West Virginia PBS.
Uno dei desideri di Mauricio Kagel, compositore argentino di nascita (1931), ma tedesco di adozione, è sempre stato quello di “sabotare l’ascoltatore”. Ma con Der Schall (1968) (il suono, nell’accezione della fisica), Kagel riesce a sabotare anche gli esecutori.
In questo brano, infatti, il compositore demolisce la tradizionale struttura dell’esecuzione, in cui un esecutore iper-specializzato nel proprio strumento interpreta una partitura codificata, pensata e scritta per il suddetto strumento. Der Schall, invece, è per 5 esecutori e 54 strumenti, gran parte dei quali sono totalmente ignoti agli esecutori.
Le regole del brano, inoltre, sono concepite proprio per mettere questi ultimi in una situazione per loro inconsueta: quella di avere in mano uno strumento che non sanno suonare. Gli esecutori devono cambiare strumento spesso. La partitura stabilisce che:
nel corso dell’esecuzione ogni strumentista deve sperimentare un numero di strumenti pari almeno alla metà di quelli a lui disponibili e
ogni strumento non può essere utilizzato per più di un terzo della durata totale del pezzo.
In tal modo si assicura che la composizione dell’ensemble strumentale cambi continuamente. Una esecuzione come questa dura circa 36 minuti e dispone di 54 strumenti che sono stati suddivisi fra i 5 esecutori come segue (riporto i nomi in inglese dalle note di copertina):
Foghorn, spaghetti tube with trumpet mouthpiece, straight cornet, C-trumpet. baroque trumpet (clarino), plastic tubing with ringed joints, tromba d a tirarsi, short tube with plastic funnel, 20 meters of garden hose with plastic funnel, antilope horn, various mutes and mouthpieces.
Conch trumpet, pandean pipe, 2 posthorns, hand-drum as mute, double foghorn, plastic tubing with connection piece, plastic tubing with ringed joints, trombone, various mutes and mouthpieces, nafir.
Low jew’s harp, sitar, banjo, octave guitar, stoessel lute, rubberphone (rubber bands to be plucked), various gloves, bowing and plucking requisites.
6-12 organ pipes (mixtures) to be blown by mouth, 2 pandean pipes, taishokoto, ocarina, Kimuan violin (Kimuanyemuanye), bass balalaika, bass mouth-organ, 2 brass tubes, various bowing and plucking requisites.
Bell-board (eight bells fixed to a board, to be bowed only), genuine Cagniard de la Tour siren (blown siren with frequency measuring device), cuckoo (a short of seesaw with two bellows, each adjustable in pitch), 4 tortoiseshelIs, nose-flute, bassdrum, telephone, 2 brass tubes, 1 musical box
Dato che ogni esecutore ha a disposizione circa una decina di strumenti e ne deve utilizzare almeno 5, è tenuto a cambiarlo mediamente ogni 7.2 minuti.
Nel 1969 il brano viene inciso per Deutsche Gramophone da un quintetto d’eccezione composto da Edward H. Tarr, Vinko Globokar, Karlheinz Botner, Wilhelm Bruck, Christoph Caskel, con la direzione dell’autore (vinile ormai fuori catalogo). È disponibile in flac qui.
Tellus era una “rivista su audio cassetta” lanciata nel 1983 a New York e pubblicata solo su abbonamento con cadenza bimensile. Rimase attiva per ben 10 anni grazie ai finanziamenti del New York State Council of the Arts e del National Endowment for the Arts.
In questo periodo venne raccolto e pubblicato molto materiale della avanguardia americana e più tardi, europea. Oggi gran parte di questo audio viene riproposto dall’impagabile UBUWeb. Inoltre esiste un archivio di Tellus qui.
Nel frattempo, ascoltate alcuni brani. Come era tipico dell’epoca, parecchi sono vere aggressioni sonore che però hanno una carica e una energia che è difficile ritrovare attualmente.
Tellus #15: The Improvisors (1986), alcune improvvisazioni
Questo brano di Costin Miereanu (Bucarest 1943, naturalizzato francese dal 77) è stato registrato al 9° Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Torino nel 1986 ed è scritto per clarinetto in Sib, corno, violino, violoncello, 2 perc., 3 synth DX7.
Costin, relativamente noto in Italia, avendo avuto anche un disco edito nella storica serie Cramps (Luna Cinese), è sempre stato un creatore di atmosfere raffinate e si conferma tale anche in questo brano che potete scaricare in flac da AGP o ascoltare qui sotto.
Niente a che fare con l’omonimo poema di Lautréamont. È un brano di musica elettronica composto da Rainer Riehn nel 1965/66 (revisione 1968/69) che ascoltavo spesso quando ero piccolo (16/17 anni).
Si tratta di un collage di materiali molto eterogenei, a tratti molto vicini al rumore, che sembrano derivare da fenomeni di interferenza, accostati spesso brutalmente, senza nessuna evoluzione.
Non posso dire che mi piacesse, ma mi affascinava perché era formalmente agli antipodi di quello che mi piaceva a quei tempi, cioè la stasi più totale: un solo suono che cambia lentamente in un tempo infinitamente lungo. Devo dire che, a distanza di tanti anni, mi affascina ancora. Comunque non ho ancora afferrato il collegamento con il poema di Lautréamont.
Un brano un po’ alla Varèse questo Fire Fragile Flight, per orchestra, composto nel 1973 da Lucia Dlugoszewski (1925-2000), che di Varèse è stata allieva.
Composer, poet, and choreographer Lucia Dlugoszewski’s (1925-2000) efforts to create an “intense, sudden immediacy” in her music were wide-ranging: she worked with everyday objects, created the ‘timbre piano’ (a prepared piano whose strings are played directly with a variety of materials), designed over 100 percussion instruments, and extended the possibilities of conventional instruments. She wrote for a variety of concert and dramatic mediums, but is perhaps best known for her dance music.
Lucia Dlugoszewski – Fire Fragile Flight (1973) – Orchestra of Our Time, Joel Thome, conductor
La particolarità di questo brano di David Jaffe risiede nel fatto che si tratta di un concerto per pianoforte in cui la parte del solista è eseguita da un percussionista (Andrew Schloss) che controlla un pianoforte midi (il disklavier) per mezzo del Radio Drum.
Si tratta di un dispositivo i cui battenti inviano a quattro sensori disposti agli angoli della tavola, la loro posizione in termini di X, Y e Z.
Questi dati vengono utilizzati per calcolare il punto di impatto e la forza, ma vengono inviati sempre, non solo quando i battenti toccano la superficie. Ne consegue che un apposito software può anche utilizzare il movimento dei battenti in aria per ricavarne dei dati che vengono poi trasformati in note midi inviate al disklavier.
Si tratta quindi di una interfaccia che rileva il movimento, non di una semplice percussione digitalizzata.
Il brano è scritto per pianoforte e ensemble strumentale (mandolin, guitar, harp, harpsichord, bass, harmonium and 2 percussionists). Ecco un estratto.
Titolo suggestivo per questo recente brano elettroacustico di Hideko Kawamoto. Ecco le note di programma.
“Night Ascends from the Ear Like a Butterfly”, composed in 1999 and dedicated to my grandmother, Tami, was inspired by Haruo Shibuya’s poem ‘Coliseum in the Desert’. The words Shibuya uses in this poem, such as ‘night’, ‘a time of music’, ‘rain’, ‘black fountain’, ‘piano-string’, ‘useless choir’, and ‘butterfly’, gave me compositional ideas. These images developed in my imagination separately from Shibuya’s poem. […]
[For example,] the intention of the ‘butterfly’ sound is to depict the surrealistic vision of a butterfly flying away from the ear. To me the sound had to be shimmering and transparent; to create [it,] a tremolo passage from Maurice Ravel’s piano piece, ‘Noctuelles’ (Night Moths) from Miroirs, was sampled and processed using various [electronic] techniques. … I also used the sound of small pieces of aluminum foil shaking up and down in a metallic bowl … to create the surrealistic vision of a butterfly staying in one place, not flying, but moving its wings delicately as it breathes.
Hideko Kawamoto’s (b. 1969) works are often inspired by visual art and poetry and influenced by her Japanese background. She considers her music to be “a sound transformation of visual images” and is aware of the space in which music is performed, creating what she calls “sound sculpture.”
Hideko Kawamoto was born in Japan and started piano study at the age of nine. She studied composition with Phil Winsor and piano with Joseph Banowetz at the University of North Texas in Denton. Her works have been performed at festivals throughout Europe, North and South America, Africa, Oceania, and the Far East. Awards Kawamoto has received include the Concorso Internazionale “Luigi Russolo,” Pierre Schaeffer International Computer Music Competition, Bourges International Competition of Electroacoustic Music and Sound Art, and Sonic Circuits International Festival of Electronic Music and Art. Her music can be heard on the Acousmatica, Bonk, Centaur, ICMC 2001, innova, and SEAMUS labels.
Kawamoto has served as chair of the music department at St. Andrews Presbyterian College in Laurinburg, North Carolina, and currently resides in Southern California.
Gilles Gobeil, canadese, nato nel 1954, è autore di parecchi lavori elettoacustici che utilizzano anche le Onde Martenot.
Questo strumento, come del resto il Theremin, non è mai morto, ma viene utilizzato saltuariamente dai compositori contemporanei per le sue particolari sonorità.
Esistono circa 1500 brani in cui appaiono le Ondes Martenot, composti da autori come Varèse, Messiaen, Honegger, Scelsi, Boulez, Jolivet, Murail e molti altri. È anche utilizzato nella musica da film (Mad Max, Mars Attack, La Marcia dei Pinguini, …) e nella popular music di varie tipologie (Brel, Radiohead, Vanessa Paradis, …).
A differenza di altri, l’interesse di Gilles Gobeil non è episodico. Esiste un suo CD dal titolo Trilogie d’Ondes (empreintes DIGITALes, IMED 0576, 2005) che comprende tre brani per Ondes Martenot e suoni elettronici.
Qui vi facciamo ascoltare Voix Blanche del 1988, che ha vinto il secondo premio per la musica elettroacustica mista nel concorso internazionale di Bourges, edizione 1989.
Il Nome è un brano elettroacustico (soprano + nastro magnetico) composto da Richard Karpen nel 1987 su testo tratto da “Il nome di Maria Fresu” di A. Zanzotto + un verso dall’Orfeo di Monteverdi.
Maria Fresu è una delle 84 persone uccise nell’attentato del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Non è rimasto niente di lei (Karpen è stato in Italia vari anni e ha lavorato al CSC a Padova).
Il materiale sonoro è formato in gran parte da elaborazioni della voce del soprano. Vengono utilizzati anche vetri rotti, una singola nota di violino e un tam-tam. Le elaborazioni sono in buona parte cambi di altezza o stretching temporale senza alterazione dell’altezza (in qualche caso la durata è stata estesa fino a 20 volte l’originale) + filtraggi. Grande attenzione è posta alla sovrapposizione e concatenazione dei frammenti.
Testi
E il nome di Maria Fresu
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone
in ogni rutto – scoppiato e disseminato –
in milioni di dimenticanze, di comi, bburp. A. Zanzotto, Il nome di Maria Fresu, da Idioma, Milano, Mondadori, 1986
Tu sei morta, mia vita, ed io respiro?
Tu mi hai lasciato per mai più tornare, ed io rimango?
No. Monteverdi – Orfeo
Richard Karpen – Il Nome (1987), per soprano e banda magnetica – J. Bettina, soprano
Richard Karpen is a native of New York, where he studied composition with Charles Dodge, Gheorghe Costinescu, and Morton Subotnick. He received his doctorate in composition from Stanford University, where he also worked at the Center for Computer Research in Music and Acoustics (CCRMA).
He has been the recipient of many awards, grants and prizes including those from the National Endowment for the Arts, the ASCAP Foundation, the Bourges Contest in France, and the Luigi Russolo Foundation in Italy.
Founding Director of the Center for Digital Arts and Experimental Media (DXARTS) at the University of Washington.
Ecco un altro lavoro stocastico di Iannis Xenakis. Il titolo è codificato: ST sta per stochos, 10-1 significa che è la prima composizione di questa serie per 10 strumenti, 080262 è la data.
L’elemento di interesse di questo brano risiede nel fatto che è uno dei primi ad essere stato composto da un software. All’epoca, infatti, il lavoro di Xenakis aveva richiamato l’attenzione dell’IBM che aveva messo a disposizione alcuni programmatori per formalizzare il suo processo compositivo.
Come in altri brani di questi anni, la statistica e la teoria delle distribuzioni sono alla base dell’intera composizione (vedi Musica e Matematica 03).
Iannis Xenakis – ST/10-1,080262 Paris Instrumental Ensemble for Contemporary Music, Cond. Konstantin Simonovitch Download in flac format from AGP99
Polla Ta Dhina, del 1962, è il primo lavoro di Xenakis con voci e testo.
Qui le voci sono quelle di un coro di bambini che declama su una sola nota (il LA del corista) l’Inno all’Uomo, signore dei mari e della terra tratto dall’Antigone di Sofocle. C’è un grande contrasto fra la semplicità della parte vocale e l’estensione di quella orchestrale che utilizza cromaticamente tutto lo spazio sonoro, dall’ottavino al contrabbasso.
Anche le tessiture strumentali sono molto complesse e in continuo movimento, andando dai ritmi iniziali dei legni e delle percussioni, a sciami di glissati degli archi, agli accordi tenuti degli ottoni, a ribadire il contrasto.
Iannis Xenakis – Polla Ta Dhina (1962), for children chorus & orchestra Paris Instrumental Ensemble for Contemporary Music, Children Chorus of Notre Dame de Paris, Cond. Konstantin Simonovitch Il brano è distribuito da AGP come parte di una incisione ormai fuori catalogo.
Il secondo allievo di Messiaen inserito nel disco ripubblicato da AGP di cui abbiamo parlato un paio di giorni fa, è Alain Gaussin, nato nel 1943.
Questo brano, Éclipse, per piccola orchestra e due pianoforti è costruito intorno a una idea di mutazione. Le fascie sonore statiche iniziali si trasformano lentamente in una serie di ritmi sovrapposti che, a loro volta, mutano in un insieme magmatico di frasi, fino alla violenta cesura percussiva centrale, dopo la quale il magma si ricostituisce, per poi dissolversi nel finale.
Alain Gaussin – Éclipse
Ensemble IntercontemEnsemble Intercontemporain diretto da Eotvos
Att.ne: il video tratto da Youtube inizia con Eclipse che dura fino a 16’19”. Poi continua con altri due brani di altri autori.
Vi facciamo ascoltare un brano di quest’ultimo perché rappresenta molto bene l’atteggiamento giapponese nei confronti del silenzio.
Composta nel 1978, Enka I (esiste anche un Enka II), per soprano e nove strumenti, si ispira allo spirito (non allo stile) di un certo tipo di canzone popolare giapponese. Enka, in Giappone, è un genere musicale popolare, che potrebbe essere paragonato alle canzoni drammatiche di Gilbert Bécaud o Edit Piaf in Francia.
Qui, Susumu Yoshida vuole analizzare, estrarre e ricostruire l’essenza drammatica dell’Enka, ma lo fa con gesti che, a noi occidentali, appaiono estremamente misurati, nella tradizione del teatro giapponese in cui anche la semplice posizione di una mano ha un significato preciso.
Bellissimo e spiazzante è ciò che il compositore dice del silenzio, che abbonda in quest’opera:
La mia musica si basa sul silenzio. È una musica concepita “in negativo” in quanto le note esistono solo per creare e condizionare questo silenzio. Il silenzio non è il Nulla, non è solo il momento in cui non si sente più niente, è una forma di esistenza in sé, che si nasconde dietro alle note.
Questi silenzi non sono cageani e non sono espressivi. Non si può non pensare al giardino di pietre e sabbia del tempio Ryoanji a Kyoto, oppure ai vuoti delle pitture orientali.
Susumu Yoshida – Enka I (1078), per soprano e nove strumenti – mp3 – streaming audio
Yumi Nara soprano – Orchestra Colonne, Hikotaro Yazaki cond.
Potete scaricare il brano in formato flac dal sito AGP
Ecco una breve analisi di Cesare Valentini del suo brano “Rarefazioni di luce”, al quale abbiamo dedicato un post qualche giorno fa.
“Rarefazioni di luce” è un brano per orchestra d’archi nato da una commissione ricevuta dall’Orchestra da Camera Fiorentina ed ha avuto la prima assoluta a Firenze il 20 maggio 2007 sotto la direzione di Piero Romano. La registrazione che può essere ascoltata nei collegamenti citati si riferisce alla replica avvenuta il giorno seguente. L’ispirazione deriva dalla rarefazione della luce ai primi bagliori dell’alba, non come fatto impressionistico ma come fenomeno del cosmo che si attua sulla terra attraverso l’atmosfera. La prospettiva è dunque di carattere non personale. Il brano segue “Colori del crepuscolo” dell’anno precedente ed avrà la sua naturale continuità in “Universi paralleli” che sarà eseguito in prima assoluta il 29 giugno 2008 a Firenze.
Dal punto di vista strettamente musicale, volendo esprimere i bagliori di luce rarefatta con gli archi ho pensato di ricorrere a “suoni rarefatti” dati dagli armonici, naturali ed artificiali, da glissandi di armonici e non, pizzicati di armonici, controtempi, suoni oltre il ponticello, tremoli di glissandi e pizzicati con la mano sinistra. Il brano si apre con degli accenni, come un’introduzione, di armonici e suoni naturali che sembrano iniziare temi e ritmi ma si spengono subito in pause, come un meccanismo che cerca di partire ma non vi riesce. Il buio predomina anche in agglomerati di accordi che all’ascolto possono sembrare dei clusters ma sono disposti in posizione lata.
Qualche bagliore appare di quando in quando come a rassicurare. Iniziano poi delle strutture di “forma classica” in periodi di otto battute dove i bagliori, dati da glissandi di armonici, cominciano a predominare. Per attuare con maggiori possibilità il gioco dei glissandi, le parti dei violini sono divise in quattro, così ogni sezione può utilizzare una corda per glissare. Le viole sono divise in due parti.
L’intera composizione è quindi divisa in sette, 4 per i violini, 2 per le viole, una ciascuno per violoncelli e contrabbassi. I glissandi, poi, ho ritenuto di scriverli in modo che tutti gli archi potessero andare a tempo evitando il caos. Nei glissandi di maggior estensione sono partito dal primo armonico per arrivare all’armonico più lontano purché udibile che è situato ad una terza di qualche ottava sopra. Non mi sono limitato a scrivere la nota di partenza e l’ultima unite dalla linea del glissando ma ho scritto per intero tutte le note che il dito dell’esecutore avrebbe suonato nel glissare. Creando così anche figure complesse come diciassettimine come si può notare alla battuta 96 in fondo alla pagina in questo collegamento che ne riporta un breve estratto. Con grande stupore degli esecutori che alla prima prova chiedevano come era possibile suonare tutte quelle note. Risposi che dovevano farlo senza pensarci troppo tanto passando il dito sopra la corda quelle note le avrebbero fatte tutte. In questo modo davo loro una ritmica precisa. Vi è un’altra particolarità, i glissandi creano rapporti di quinte vuote fra le corde ma con un’accordatura naturale e non temperata. Come noto gli armonici creano rapporti non temperati poiché fisici.
Finita la seconda serie di passaggi con gli armonici dentro i quali si inserivano altre sonorità, inizia il gioco delle terzine sfalzate e spezzate (mancano ciascuna di una nota) che, dal punto di vista esecutivo, è stato il punto più difficile. Le terzine sono investite dal suono di un glissando dei contrabbassi che parte da una nota acuta ed arriva al registro basso con note marcate. Per far comprendere bene agli esecutori la violenza dell’intervento dei bassi ho scritto in partitura la parola “cattivo!”.
Le terzine nel frattempo continuano alternativamente in alcune sezioni mentre altre si danno il cambio nel “cantare” un tema di contrasto e l’intervento dei bassi ho pensato che fosse fondamentale per rompere l’intricato disegno. Seguono un vorticoso ed incessante con gli archi molto marcati e in omoritmìa, tremoli sugli armonici, scale di pizzicati molto tenui poiché fatti con la mano sinistra ed un lungo accordo finale che raccoglie lo spettro armonico fondamentale della composizione. Per maggiori delucidazioni, per la partitura e le parti staccate per l’esecuzione potete scrivermi a info@cesarevalentini.com
Pubblico la traduzione delle note di programma scritte dallo stesso Gérard Grisey per “Les Chants de l’Amour” (vedi post precedente). Scusate la forma un po’ involuta, ma, data la lunghezza, le ho tradotte con babelfish, correggendo poi i punti errati (devo dire che babelfish se la cava piuttosto bene dal francese all’italiano).
Les Chants de l’Amour – Note di programma di Gérard Grisey
Il primo progetto de “Les Chants de l’Amour”, in realtà la messa in atto formale, data dell’estate 1981. Io concepiti allora l’idea di grandi polifonie vocali avvolte e sostenute da una fondamentale potente. Il programma CHANT concepito alla IRCAM, di cui avevo allora ascoltato alcuni esempi, mi apparì immediatamente come lo strumento adeguato per realizzare questa voce continua e queste pulsazioni respiratorie, vero liquido amniotico delle voci umane.
All’origine dei “Les Chants de l’Amour”, non c’è nessun testo particolare, bensì piuttosto un materiale fonetico così costituito:
Un’introduzione che contiene la dedica del brano in dieci lingue diverse (“canti d’amore dedicati a tutti gli amanti della terra”);
Le diverse vocali contenute nella frase “I love you”. Così sedici vocali diverse per i cantanti ed un centinaio di vocali per la voce sintetizzata;
Diverse consonanti che appaiono gradualmente nel corso del brano.
I nomi di amanti famosi: Tristan, isolde, Orfeo, Euridice, don Quichote, Dulcinea, Romeo, Giuletta…
Litanie attorno alla parola amore, composte in francese, inglese, tedesco ed ungherese, soprattutto per la loro sonorità;
Interiezioni, sospiri, scoppi di risa, halètements, gemiti, pezzetti di frasi, soprattutto per il loro carattere erotico;
“Ti amo”, “Amant”, “amore” registrati in 22 lingue diverse, materiale fonetico per la folla e fonte concreta destinata a essere trattata dall’elaboratore;
Un estratto “di Rayuela”di Cortazar;”
La frase “I love you” base formale semantica di tutta la parte.
Ossia nel totale 28 sezioni, facilmente reperibili poiché ciascuna di essa possiede la stessa forma respiratoria.
La parte elettronica de “Les Chants de l’Amour” proviene principalmente da due fonti sonore: la voce sintetizzata dal programma CHANT e voci parlate registrate, digitalizzate e quindi trattate dall’elaboratore, soprattutto con una serie di filtri. L’interesse della voce sintetica non risiede tanto nell’imitazione della voce umana quanto nelle possibilità infinite di deviazione di queste voci. Vi scopriamo molti campi di percezioni e reazioni emotive legate agli avatars della voce umana.
L’altro versante di questa voce sintetica, cantata e tutta vocalizzata, sono la voce parlata, il rumore delle consonanti e della lingua. Solo l’elaboratore poteva permettermi di registrare queste voci diverse, raggrupparle, moltiplicarle e trasporle per creare vere cascate di voce umana, turbinio di folle ai quattro punti cardinali che vanno ripetendo “Ti amo” nella diversità dei loro timbri e delle loro lingue.. Nel corso di “Les Chants de l’Amour” evolvono vari tipi di relazioni tra le dodici voti del coro e tra il coro come entità e la voce della macchina. Questa voce, a sua volta, divina, enorme, minacciando, seduttrice, specchio e proiezione di tutti i fantasmi delle voci umane, si sdoppia e si moltiplica fino alla folla.
La scrittura delle parti affidate ai 12 cantanti è basata non su delle parole, ma su vocali e dittonghi estratti dalla analisi spettrale della frase “I love you”. Vengono inoltre utilizzate alcune interiezioni sonore come sospiri, scoppi di risa o frammenti della stessa frase.
La parte elettronica è stata sintetizzata all’IRCAM mediante il programma “Chant”, la cui caratteristica è di creare delle vocali artificiali molto malleabili che agiscono a tratti da collante, a tratti come elemento complementare o di contrasto rispetto alle voci reali.
Intelligentemente, Grisey utilizza le vocali anche nella maggioranza delle parti cantate, riuscendo così a fondere le voci reali con i materiali generati dal programma.
“Vedo i suoni come fasci di forza orientati nel tempo, infinitamente mobili e fluttuanti”.
La lezione di Stimmung è presente e Grisey la supera, inventando un brano estremamente mobile, con una scrittura a tratti quasi pirotecnica, che unisce i tratti fondamentali dello spettralismo a una notevole forza espressiva.
Un altro bel brano di Radulescu dal già citato AGP 85. Si tratta di Byzantine Prayer opus 74 del 1988, per 40 flautisti con 72 flauti. Il brano è un requiem per Giacinto Scelsi.
In scena, i 40 flautisti sono distribuiti in 8 gruppi concentrici composti da 1, 2, 3, 5, 8, 13, 5, 3 strumentisti, dal centro verso la periferia. In questa progressione il lettore attento avrà certamente riconosciuto la serie di Fibonacci.
La strumentazione è distribuita come segue:
l’esecutore centrale (1) suona un flauto ottobasso (3 8ve sotto il consueto flauto in do);
i 2 del primo cerchio hanno un flauto contrabbasso e un basso;
i 3 ancora più esterni suonano un flauto in sol (una 4a sotto al flauto in do: alto flute in inglese);
il primo gruppo da 5 esecutori impugna altrettanti flauti bassi;
i tre gruppi seguenti (8, 13, e ancora 5 esecutori) suonano quello che ritengo essere il comune flauto in do (grand nelle note);
con i 3 più esterni si torna ai flauti in sol.
A questo punto non mi è chiaro perché nelle note si parli di 72 flauti, cosa che sarebbe possibile solo se alcuni esecutori dovessero cambiare strumento nel corso del brano, mentre, da questa descrizione, non sembra.
Il brano è formato da un Ritornello Litanico costruito su un teorico spettro di LA e da tre Intermundi che sviluppano altri 6 spettri e fanno largo uso della tecnica della modulazione ad anello per la generazione delle frequenze.
Il suono, infine, si muove circolarmente perché i 40 esecutori sono distribuiti nella sala.
Ricordiamo che i brani contenuti nell’AGP 85 sono liberamente scaricabili in formato flac (compressione senza perdita).
Horatiu Radulescu – Byzantine Prayer opus 74 (1988)
L’AGP 85 è dedicato a Horatiu Radulescu, compositore rumeno che vive in Francia.
Si dedica alla musica spettrale fin dalla fine degli anni ’60 in un modo che, però, si allontana da quello dei più noti francesi Grisey e Murail. In effetti, più che costruire “armonie” o figurazioni, come accade nel caso dei francesi, Radulescu tende a costruire suoni a densità spettrale variabile servendosi di tecniche esecutive appositamente studiate e facendo largo uso del concetto della modulazione ad anello che produce somme e differenze di frequenze date.
Fra i quattro brani contenuti nell’AGP 85, liberamente scaricabili in formato flac (compressione senza perdita), vi faccio ascoltare Frenetico il longing di amare, opus 56 (1984-87).
Questo brano è per basso, flauto contrabbasso (o octobasso) e sound icon. Quest’ultimo strumento altro non è che l’arpa di un pianoforte piazzata in verticale, con accordatura non standard, definita dall’autore in base alle componenti spettrali che intende utilizzare. Le corde vengono suonate con un archetto e in questo pezzo ha un ruolo di bordone, i cui suoni vengono colorati spettralmente dagli altri strumenti.
Horatiu Radulescu – Frenetico il longing di amare, opus 56 (1984-87)
Un altro omaggio a Messiaen, dopo la sua scomparsa, stavolta da parte di Jonathan Harvey: si tratta di “Tombeau de Messiaen”, per piano accompagnato da una elettronica misurata ma essenziale formata in gran parte da un pianoforte sintetico accordato sulla scala naturale, che interviene a modificare in modo più o meno sensibile i suoni dello strumento.
Jonathan Harvey – Tombeau de Messiaen (1994) per pianoforte e parte elettronica
Il pianista John Mark Harris ha realizzato una bella trasposizione grafica di Evryali, una composizione di Xenakis per solo piano del 1973, basata sul concetto di “arborescenze”, ramificazioni che si sviluppano a partire da un nucleo come si può intuire dal disegno (quella in figura è solo una piccola parte della partitura).
Le forme sono state disegnate su un monitor dal compositore e poi trasposte in notazione tradizionale via software. A permettere questa modalità compositiva basata sulla grafica è la workstation dell’UPIC di cui abbiamo già parlato qui.
Il fatto è che Evryali è composta senza alcun riguardo per l’anatomia umana, per cui alcuni punti della partitura sono semplicemente ineseguibili. Di conseguenza l’esecutore è chiamato a fare delle scelte. John Mark Harris afferma di aver utilizzato il grafico anche come ausilio nel compiere le predette scelte, oltre che per capire la struttura del brano, in quanto la partitura è troppo complicata per farsene un’idea a una prima lettura.
La cosa interessante, però, era che, sul suo sito, l’intero grafico scrollava insieme all’esecuzione ed era molto interessante seguirlo. Purtroppo questa pagina non esiste più. Però ho trovato questo che è uno degli esempi di MuseScore, per cui quello che suona non è un vero pianoforte, ma in questo modo può suonare tutto e il grafico c’è.
Questa, invece, è una esecuzione umana (purtroppo il nome dell’esecutore non è riportato)
Per acufene (tinnitus in latino e inglese) si intende quel disturbo costituito da rumori che, sotto diversa forma (fischi, ronzii, fruscii, crepitii, soffi, pulsazioni ecc.) vengono percepiti in un orecchio, in entrambi o in generale nella testa e che possono risultare fastidiosi a tal punto da influire sulla qualità della vita di chi ne soffre. Si originano all’interno dell’ apparato uditivo ma, alla loro prima comparsa vengono illusoriamente percepiti come suoni provenienti dall’ambiente esterno. [wikipedia]
Tuttavia il termine inglese “acouasm” ha una marcata connotazione allucinatoria. Indica, infatti, “a nonverbal auditory hallucination, as a ringing or hissing” [Random House Unabridged Dictionary].
Qui, Robert Scott Thompson, californiano, nato nel 1959, lo usa come titolo di un brano elettroacustico evocativo e soffuso:
…a musical essay on auditory memory, this work emphasizes sonic resonances, reverberating metallic timbres, and similar sounds in order to create an aural image of the psychological condition. A central sonic element is created by vocal simulation synthesis. The chant-like melodies of the synthetic singers are a thread of continuity which frames the overall work providing harmonic coherence and also helping to articulate formal structure.
Robert Scott Thompson – Acouasm (2001)
Nota: acouasm e acousma sono considerati sinonimi in inglese.
Sempre nell’anno del centenario di Olivier Messiaen, stavolta abbiamo un tributo da parte di Tristan Murail a uno dei suoi maestri.
“Cloches d’adieu, et un sourire… in memoriam Olivier Messiaen”, scritto nel 1992, anno della morte di quest’ultimo, è un breve brano per piano solo che evoca il sesto degli Otto Preludi di Messiaen, “Cloches d’angoisse et larmes d’adieu”. Il pezzo di Murail si collega a quello di Messiaen per delle citazioni ritmiche e intervallari, inframmezzate da varie rotture del tempo.
Tristan Murail – Cloches d’adieu, et un sourire – Dmitrii Shchukin, pianoforte
Jacob Sudol è un giovane compositore americano. Giovane davvero, una volta tanto, essendo nato a Des Moines, Iowa, nel 1980.
Dal suo blog traggo questo bel brano, “Sing/Lose”, per 15 strumenti, scritto nel 2007.
L’autore dice:
The title “Sing/Lose” refers to the two primary preoccupations in my music, and in this piece – as in all my music – I approach these preoccupations abstractly. For example, “Sing” does not refer literally to singing but to a lyricism in the phrases and timbres, as well as to an almost breath-like musical flow. Likewise, “Lose” does not refer to any specific loss but to Andrei Tarkovsky’s assertion that “the life force of music is materialized on the brink of its own total disappearance.” In this piece “Lose” refers to the eventual disintegration, decay, even death of the work’s organic material and form.
Jacob Sudol – Sing/Lose (2007) for chamber ensemble (15 players)
Performed by the Nouvel Ensemble Moderne conducted by Lorraine Vaillancourt
Sempre sul sito di Jason Freeman troviamo questo interessante “gioco compositivo” che consiste nel concatenare diversi frammenti eseguiti da un violino solo seguendo una mappa di connessioni possibili sotto forma di grafo.
Una volta ultimata la composizione è possibile ascoltare tutti i frammenti concatenati.
Prior Art è un bel brano per 10 strumenti di Jason Freeman. Si tratta di un pezzo raffinato e delicato in cui, dietro all’apparente facilità delle parti, si nasconde un complesso equilibrio dinamico e timbrico.
Wolfang Rihm è una figura abbastanza importante nella musica contemporanea tedesca. Nato nel 1952 a Karlsruhe, di formazione musicale tradizionale, pur avendo poi studiato con Stockhausen non aderì mai completamente allo sperimentalismo di Darmstadt e Donaueschingen.
Quando compongo io non voglio sforzarmi perché venga fuori la costruzione o il piano dell´opera, ma voglio partecipare al flusso cangiante delle forme; io voglio solo andare dentro, essere trascinato.
Di Rihm si può trovare su AGP la sua seconda opera, Jakob Lenz (1977/78) per solisti, coro e orchestra da camera: due oboi (anche corno inglese), un clarinetto (anche clarinetto basso), un fagotto (anche controfagotto), una tromba, un trombone, un percussionista, un clavicembalo (talvolta, come nelle scene X e XI, amplificato) e tre violoncelli. Spicca la mancanza del violino tra gli archi e del flauto tra i legni. I cantanti sfruttano tutti i tipi di emissione, dal parlato fino all’intonazione vera e propria; anche la recitazione è spesso inserita con una vasta gamma di sfumature e inflessioni.
Il testo è tratto da una novella di Büchner, adattata da Michael Fröhling, incentrata sulla figura del poeta tedesco Lenz. Il quale anticipò il romanticismo proprio come Büchner fu il precursore dell’espressionismo. Il poeta Michael Reinhold Lenz, nato in Livonia nel 1751, fu trovato morto, a Mosca, per strada, un giorno del 1792. La sua fu una vita dura, sofferente ed emarginata, scissa tra l’educazione religiosa pietista e l’attrazione per un naturalismo pagano ed erotico. Continuando nella catena di rimandi che caratterizza il lato evocativo della scrittura di Rihm, ricordiamo che Lenz fu, per un certo periodo, amico di Goethe. Proprio una frase del Faust , nella prima parte, simbolizza l’atroce contrasto interiore di Lenz: «Due anime, ahimé, dimorano nel mio petto; e una è sempre divisa dall’altra». Nel 1778, Lenz manifestò i primi veri e propri sintomi di schizofrenia, e le sue condizioni sono registrate in un diario tenuto dal pastore Johann Friedrich Oberlin, che lo ospitò a Waldbach. Fu proprio questo diario a fornire a Büchner il materiale per la sua novella. Nella partitura di Rihm aleggia un filo conduttore che, attraverso Lenz e Woyzeck di Büchner giunge a Berg. Non solo in alcune tracce stilistiche, ma anche in analogie simboliche, come nel ruolo di baritono affidato a Lenz, che coincide con quello di Wozzeck nell’opera di Berg.
scriveva Paul Klee, per il quale l’arte era una metafora della creazione. Egli concepiva l’opera come ‘formazione della forma’, non come risultato. Analogamente, Boulez parlerà dell’opera che “genera ogni volta la sua propria gerarchia”.
Proprio a liberare le possibilità di una generazione funzionale tende Boulez quando individua la serie come il suo nucleo: “Predecessore principalmente prescelto: Webern; oggetto essenziale delle investigazioni nei suoi riguardi: l’organizzazione del materiale sonoro”.
Non sembra dimenticare, ma nemmeno lo ricorda esplicitamente, che fu proprio Webern a parlare di una musica tale per cui “si ha la sensazione di non essere più di fronte a un lavoro dell’uomo, ma della natura”.
Nota bene: Webern, non Schoenberg. Soltanto un anno dopo la morte, infatti, Boulez seppellirà definitivamente Schoenberg denunciando ogni aspetto della sua estetica come retrivo, contraddittorio e contrario alla nuova organizzazione del mondo sonoro da lui stesso ideata:
Dalla penna di Schoenberg abbondano, in effetti, – non senza provocare l’irritazione – , i clichés di scrittura temibilmente stereotipi, rappresentativi, anche qui, del romanticismo più ostentato e più desueto.
Si tratta del famoso articolo, apparso sulla rivista “The Score” nel 1952, pieno del dogmatismo ingenuo che solo un 27nne può esibire, che termina con l’enunciato in lettere maiuscole: SCHOENBERG È MORTO. [da noi è pubblicato in Note di Apprendistato, Einaudi, 1968]. È l’atto finale di condanna dell’incapacità di Schoenberg di adeguare interamente il suo linguaggio compositivo alla novità del metodo dodecafonico e l’indicazione di Webern come l’esempio da seguire.
Pierre Boulez – Strutture per 2 pianoforti Libro I° (1952)
A dimostrare quanto sopra dichiarato a grandi lettere, Boulez scrive il primo libro delle Strutture per 2 pianoforti che costituisce, in pratica, un manifesto dell’estensione del principio seriale a tutti i parametri in uno strutturalismo tanto raffinato quanto totalitario.
Mostreremo, ora, alcune tracce analitiche della prima sezione (Structure I/a), basandoci sullo storico articolo che György Ligeti pubblicò sulla rivista «Die Reihe» (trad: La Serie) nel 1958.
Tutto, in quest’opera, è predeterminato. L’intera composizione è totalmente dedotta da un’unica formula originaria: una serie che, in omaggio a Messiaen, è tratta dalla prima linea del Mode de valeurs.
NB: per ingrandire le immagini, cliccarle.
Alla serie vengono applicate le trasformazioni di rito (inversione, retrogrado e inversione del retrogrado) e a ognuna di esse, le 11 trasposizioni, ottenendo, così, le classiche 48 serie.
A partire dalle trasposizioni della serie originale (O) e della sua inversione (I), Boulez genera poi due tabelle numeriche ottenute sostituendo alle note i numeri che le note stesse hanno nella serie originaria (questo è ciò che Boulez chiama “cifratura” della serie).
Queste due matrici, lette sia in moto retto che retrogrado, sono poi impiegate per determinare le durate, le dinamiche, i modi di attacco e l’ordine in cui sono introdotte le 48 serie di altezze e di durate nell’intera composizione, come segue:
Altezze
Tutte le 48 serie canoniche appaiono nel pezzo ma, si badi bene, una e una sola volta ciascuna, equamente suddivise fra i 2 pianoforti (24 ciascuno).
Durate
Vengono costruite 4 tabelle di durate formate di 12 serie ciascuna (totale 48 serie, come le altezze), con il seguente metodo: nelle matrici di cui sopra, ogni numero rappresenta una durata ottenuta moltiplicandolo per una unità base pari a una biscroma. Così
1 = 1 biscroma,
2 = 2 biscrome = 1 semicroma,
…
12 = 12 biscrome = semiminima puntata.
Le 12 durate (da 1 biscroma a 12 biscrome), quindi, sono
Di conseguenza la durata più breve nella sezione 1/a è la biscroma e la più lunga è la semiminima puntata.
Dinamiche
Boulez costruisce una corrispondenza fra numeri e dinamiche secondo questo schema
A differenza delle durate, però, qui non si creano 48 serie, ma solo 2 utilizzando le diagonali delle 2 tabelle già viste
La tabella ‘O’ è utilizzata dal Piano I e la ‘I’ dal Piano II. Per esempio, la serie del Piano I è la seguente:
12
7
7
11
11
5
5
11
11
7
7
12
ffff
mf
mf
fff
fff
quasi p
quasi p
fff
fff
mf
mf
ffff
2
3
1
6
9
7
7
9
6
1
3
2
ppp
pp
pppp
mp
f
mf
mf
f
mp
pppp
pp
ppp
Si tratta di 24 dinamiche cioè lo stesso numero delle serie usate da ogni pianoforte. Di conseguenza, ognuna delle 24 serie sarà eseguita con una di queste dinamiche nella sua interezza.
Notare che in questa serie alcune le dinamiche si ripetono. Notare anche che non tutte sono presenti (es. 4, 8 e 10 non appaiono nella serie O). E’ un effetto delle scelte organizzative che darà adito a varie critiche. Modi di attacco
Esistono 10 modi di attacco (i numeri vanno da 1 a 12, ma ci sono dei buchi)
In modo analogo alle durate, la serie dei modi di attacco è determinata dalle altre diagonali delle tabelle
Anche qui la ‘O’ è assegnata al Piano I e la ‘I’ al Piano II e anche qui si ha una serie di 24 per cui ogni modo di attacco è utilizzato per una serie intera. Sono solo 10 grazie al fatto che, come per le dinamiche, le serie derivate dalle diagonali non contengono tutti i 12 valori.
Ordine delle serie di altezze
Le due matrici sono utilizzate anche per determinare l’ordine con cui vengono usate le serie. La Structure 1/a è divisa in 2 sezioni principali in ognuna delle quali ogni pianoforte usa 12 serie, come segue
Pianoforte
Serie nella Sezione A
Serie nella Sezione B
1
Tutte le serie di O nell’ordine I1
Tutte le serie di RI nell’ordine RI1
2
Tutte le serie di I nell’ordine O1
Tutte le serie di R nell’ordine R1
Ordine delle serie di durate
Come per le altezze, come segue
Pianoforte
Serie nella Sezione A
Serie nella Sezione B
1
Tutte le serie di RI nell’ordine RI1
Tutte le serie di I nell’ordine R1
2
Tutte le serie di R nell’ordine R1
Tutte le serie di O nell’ordine RI1
Forma Globale
Come già visto, ogni pianoforte suona 12 delle 24 serie in ciascuna delle 2 sezioni. Dato che ogni serie di altezze è accompagnata anche da una serie di durate che comprende tutti e solo i 12 valori, ogni serie ha anche la stessa durata metrica, cioè 1+2+3+…+12 = 78 biscrome. Il brano, quindi, può essere visto come un insieme di sotto-sezioni, ognuna delle quali dura come una serie.
Questo, però, non significa che ognuna delle due sezioni dura 12 volte la serie perché, essendo il pianoforte polifonico, è anche possibile l’esecuzione di più serie contemporaneamente. Inoltre, in almeno in 2 punti, ogni piano esegue una serie come solista.
Le 2 sezioni, quindi, sono divise in sotto-sezioni in ognuna delle quali ogni piano esegue contemporaneamente da 0 (tacet) a 3 serie (voci), secondo la seguente tabella
Sezione A
Sezione B
Sotto-sezione
1
2a
2b
2c
3
4a
4b
5
6
7
8
9
10
11
Serie Piano 1
1
2
2
0
3
1
2
1
3
1
2
2
1
3
Serie Piano 2
1
2
1
1
3
1
3
0
2
2
2
2
1
3
Totale
2
4
3
1
6
2
5
1
5
3
4
4
2
6
Totale 24
Totale 24
La densità del pezzo quindi, varia secondo quanto riportato nella linea ‘Totale’, in modo non seriale né simmetrico.
Metronomo
L’indicazione metronomica delle varie sezioni è ‘lento’, ‘molto moderato’ o ‘moderato, quasi vivo’. Se, per brevità, li indichiamo con L, M e V e scriviamo i tempi della Structure 1/a, notiamo la seguente simmetria (che comunque non ha a che fare con il principio seriale):
M:V:L:V:M
Ottave
La distribuzione delle note sulle ottave è generalmente arbitraria. Si possono desumere solo due principi:
l’estensione e gli ampi intervalli tipici del serialismo;
quando la stessa nota ricorre in due o più serie sovrapposte, è suonata all’unisono.
Pause
L’uso delle pause è ristretto ai casi in cui delle note sono suonate in staccato. In questi casi, a volte, la loro durata è abbreviata e la rimanenza è riempita con pause. In generale, comunque, le pause sono usate solo per chiarire la scrittura.
Sembra che Boulez abbia voluto deliberatamente evitare di interrompere l’esposizione delle serie inserendo pause non giustificate.
Tempi
I cambiamenti di metro sono frequenti, ma non sembrano conformarsi a un piano e sembrano avere la sola funzione di aiuto all’esecuzione. In ogni caso, una sensazione ritmica è generalmente assente in queste pagine. A volte sorge per qualche secondo, ma viene immediatamente annullata.
Così si presenta la prima pagina della partitura che si può ascoltare qui:
Torniamo su Messiaen nel centenario della sua nascita.
Olivier Messiaen non è mai stato un serialista, se non occasionalmente, a titolo sperimentale. Ciò nonostante, una sua composiziona è stata alla base dell’idea di serialismo integrale negli anni ’50.
Messian – Mode de valeurs et d’intensités (1950)
In questo brano, tratto dai “Quattro studi sul ritmo” del 1950, si può ritrovare il primo indizio di organizzazione totale dei parametri di altezza, durata, intensità e modi di attacco. Le idee contenute in questa composizione suscitarono grande interesse in Boulez e Stockhausen, entrambi allievi di Messiaen.
Qui Messiaen non usa delle serie, quindi non si può parlare di serialismo. Si tratta, invece, di modi, cioè di scale da cui il compositore trae liberamente le note senza rispettarne l’ordine.
Il punto è che, in questo brano, ad ogni altezza è associata una durata, un’intensità e un modo di attacco. La figura seguente mostra le tre divisioni del modo adottato nel pezzo. Ogni divisione verrà usata in una voce diversa (cliccare sull’immagine per ingrandire).
Così, per es., in questo pezzo il Mib alto (div. I, nota 1) comparirà sempre come biscroma, ppp, legato alla nota successiva; il Lab con taglio in testa sarà sempre una croma, forte, eseguita in staccato (notare che, essendo staccato, parte della sua durata può essere espressa come pausa, come nella pgina seguente; ciò nonostante, la durata totale sarà sempre una croma), ecc. (anche qui, cliccare sull’immagine per ingrandire)
In quegli anni, l’impressione suscitata da questo brano fu grande. Non a caso, Boulez ne riprese la serie nelle sue Structures per due pianoforti del 1952.
Ma la cosa interessante è che, nel 1986, lo stesso Messiaen ebbe a dire
J’ai été très contrarié de l’importance absolument démesurée que l’on a accordée à une petite oeuvre, qui n’a que trois pages et qui s’appelle “Modes de valeurs et d’intensités”, sous le prétexte qu’elle aurait été à l’origine de l’éclatement sériel dans le domaine des attaques, des durées, des intensités, des timbres, bref, de tous les paramètres musicaux.
Cette musique a peut-être été prophétique, historiquement importante, mais, musicalement, c’est trois fois rien…
[“Olivier Messiaen, musique et couleur” – Nouveaux entretiens avec Claude Samuel – Belfond – 1986]
Suguru Goto is a composer/performer, an inventor and a multimedia artist and he is considered one of the most innovative and the mouthpiece of a new generation of Japanese artists. He is highly connected to technical experimentation in the artistic field and to the extension of the existing potentialities in the relation man-machine. In his works the new technologies mix up in interactive installations and experimental performances; he is the one who invented the so called virtual music instruments, able to create an interface for the communication between human movements and the computer, where sound and video image are controlled by virtual music instruments in real-time through computers. Lately, he has been creating the robots, which perform acoustic instruments, and he is gradually constructing a robot orchestra.
Di Suguru Goto vi presentiamo due video. Il primo, “Robotic Music”, presenta dei robot percussionisti cioè il tipo più studiato, essendo il più semplice da costruire e controllare (e il termine “semplice” è riduttivo perché si tratta sempre di una faccenda complessa).
Qui il valore musicale è relativo, essendoci anche un importante lavoro di ricerca. In ogni caso, come solo di batteria non è poi male.
Il secondo, invece, è una performance più complessa in cui un esecutore umano che veste una tuta che incorpora dei sistemi di controllo, “dirige” una esecuzione robotica e interagisce con un video in cui una figura parzialmente umana esegue le sue stesse mosse.
I due, un corpo “aumentato” e un corpo virtuale, sono praticamente complementari.
L’aurore afferma:
“Augmented Body and Virtual Body” is conceived as a music theater piece, that the elements cross and hybridize themselves in continual links/ratios of exchanges and flow without fixing itself towards any directions. The idea would be that what is real, which is artificial, what is virtual, on the verge of themselves, and to create relations of pure intensities, which degrees zero of expression without its value of positive or negative.
Oltre a quello di Messiaen, c’è un secondo centenario quest’anno: quello della nascita del compositore americano Elliott Carter (1908).
E quanto ho scritto non è un errore: la data di morte manca perché Carter è ancora vivo e conta di festeggiare alla grande il proprio centenario l’11 dicembre.
Dico alla grande perché non solo è vivo, ma è perfettamente in sé e compone ancora: nel 2007, per es., ha scritto 8 brani fra cui uno per pianoforte e orchestra (Interventions), un quintetto con clarinetto, un pezzo per coro e gli altri per strumento solista.
Lo stile di Carter, in epoca giovanile, fu definito neoclassico o “lirismo melodico” in quanto risentiva dell’influenza di Stravinskij e Hindemith, ma virò poi decisamente verso l’atonale a partire dagli anni ’50, approdando a una scrittura a tratti anche molto complessa, tanto che per lui venne coniato il termine “metric modulation” per descrivere i frequenti cambiamenti di tempo nei suoi lavori.
Ciò nonostante, mantenne sempre una certa dose di espressività e dramma:
I regard my scores as scenarios, auditory scenarios, for performers to act out with their instruments, dramatizing the players as individuals and participants in the ensemble.
Il suo personale sistema compositivo (volto spesso a far derivare tutte le altezze di un brano da un solo accordo “chiave”, o da una serie di accordi) non impedisce a Carter di muoversi in ambiti decisamente lirici, né di garantire una perfetta intelleggibilità del testo cantato, talora anche in modo decisamente “semplice”. Del resto, nonostante il suo usuale rigore compositivo, Carter occasionalmente sceglie di “deviare”, di creare delle eccezioni al suo proprio sistema.
Elliott Carter – Night Fantasies (1980) for solo piano
Ursula Oppens, piano
Night Fantasies is a piano piece of continuously changing moods, suggesting the fleeting thoughts and feelings that pass through the mind during a period of wakefulness at night. The quiet, nocturnal evocation with which it begins and returns occasionally, is suddenly broken by a flight series of short phrases that emerge and disappear. This episode is followed by many others of contrasting characters and lengths that sometimes break in abruptly and, at other times, develop smoothly out of what has gone before. The work culminates in a loud, obsessive, periodic repetition of an emphatic chord that, as it dies away, brings the work to its conclusion.
In this score, I wanted to capture the fanciful, changeable quality of our inner life at a time when it is not dominated by strong directive intentions or desires — to capture the poetic moodiness that, in an earlier romantic context, I enjoy in works of Robert Schumann like Kreisleriana,Carnaval, and Davids-bündlertänze.
Devo dire che questo brano per piano non mi dispiace, mentre non amo particolarmente i brani in cui predomina la vena neoclassica.
Gli interessati possono trovare anche una lunga intervista stampata qui, nonché un programma radiofonico e altri estratti della sua musica, fra cui il secondo quartetto all’Internet Archive.
Bella e quieta questa Vladivostock, del belga Bernard Zwijzen, aka Sonmi451, tratta dal suo “The Quiet EP” (appunto), quattro tracce che mescolano ambient e a modo suo, melodia.
Tanto per restare in campo ornitologico e ascoltare un po’ di di Messiaen, godetevi questa Grive-Musicienne tratta dai Petites esquisses d’oiseaux del 1985 per pianoforte solo (grive musicienne = Turdus philomelos, è il Tordo bottaccio; vive in tutta Europa, Asia, Africa del nord ai margini di boschi e foreste ed è chiamato philomelos non a caso; ecco il canto originale di cui potete vedere anche il sonogramma, entrambi tratti da xeno-canto).
È incredibile come i canti degli uccelli si possano sentire chiaramente in questo pezzo, come se fossero riprodotti pari pari e nello stesso tempo il brano sia costruito e sviluppato con grande coerenza.
Sentite come i brevissimi frammenti del canto del tordo vengano trattati come dei moduli tematici e sviluppati sia dal punto i vista melodico che ritmico.
Il 2008 è il centenario della nascita di Olivier Messiaen, una figura gigantesca nella scena musicale del ‘900, alla cui scuola si formarono anche compositori come Pierre Boulez, Yvonne Loriod (sua allieva che ne divenne la seconda moglie), Karlheinz Stockhausen, Iannis Xenakis e George Benjamin.
È quasi impossibile elencare in un post tutte le innovazioni apportate da questo compositore francese che riesce a fondere aspetti apparentemente lontani tra loro in un crogiolo in grado di provocare disappunto sia nei puristi tradizionalisti che negli avanguardisti incendiari: in realtà tale disappunto risiede nell’impossibilità di iscrivere l’autore nelle facili catalogazioni storico-critiche o ideologiche prevalenti nel Novecento musicale.
Ma, per coloro che hanno saputo vedere con chiarezza, Messiaen è sempre stato un punto di riferimento importante. Boulez, per esempio, gli ha praticamente dedicato il Primo Libro delle Strutture per due pianoforti utilizzando la serie tratta da Mode de valeurs et d’intensitées (1950) come materiale base per la sua composizione, che sarà quasi un manifesto del serialismo integrale.
Fra i suoi contributi, non si possono non citare due espedienti compositivi legati ad una personale nozione di simmetria applicata sia a livello ritmico che melodico/armonico. Si tratta dei ritmi non retrogradabili e dei modi a trasposizione limitata.
I primi sono ritmi palindromi, cioè identici se letti da sinistra a destra o viceversa (come la parola ANNA).
Un esempio è nel secondo rigo dell’immagine, tratta da Prélude, Instants défunts, in cui si vede una figurazione ritmica che risulta identica se letta nelle due direzioni. Ritmi come questo, che restano inalterati in seguito ad una inversione temporale e in cui Messiaen vede “il fascino dell’impossibilità”, generano una sensazione di immobilità temporale che trova la sua controparte armonica nei modi a trasposizione limitata.
Questi ultimi sono modi su cui non si possono effettuare le 12 trasposizioni canoniche (12 considerando l’enarmonia; parliamo di modi, non di tonalità).
Per esempio, la scala maggiore non è a trasposizione limitata perché, enarmonicamente parlando, ogni trasposizione di mezzo tono genera una successione di note nuova, che non si sovrappone a nessun altra.
La scala a toni interi (Do, Re, Mi, Fa#, Sol#, La#), invece, trasposta di mezzo tono genera una nuova successione (Do#, Re#, Fa, Sol, La, Si), ma, alla successiva trasposizione (Re, Mi, Fa#, Sol#, La#, Do), si ripresenta il caso precedente. Quindi questa scala può essere trasposta una sola volta.
Un esempio un po’ più complesso è la scala alternata detta anche octofonica o diminuita, che procede per toni e semitoni alternati rigorosamente e si può trasporre due volte:
Do, Re, Re#, Fa, Fa#, Sol#, La, Si
Do#, Re#, Mi, Fa#, Sol, La, La#, Do
Re, Mi, Fa, Sol, Sol#, La#, Si, Do#
poi si ritorna al primo caso.
Il suo vocabolario espressivo, comunque, va ben oltre questi, sia pur famosi, artifici. Citiamo anche le sue evoluzioni ritmiche realizzate per aumentazione o diminuzione, aggiungendo o togliendo un piccolo valore temporale a ogni ciclo ritmico. E i suoi primi suggerimenti spettrali, costruiti al pianoforte con accordi in cui a una fondamentale f venivano sovrapposte note più o meno armoniche con dinamica inferiore, in un tentativo di fonderle con il suono di base (per es. in Prélude, La colombe o Le loriot, nel Catalogue d’oiseaux).
Inoltre, Messiaen affascina anche per alcuni tratti extra-musicali, che comunque hanno avuto un impatto notevole anche sulla sua musica.
Per prima cosa, era un sinesteta: associava cioè le percezioni uditive a quelle visive (colori) che con il tempo si sono fatte sempre più precise, fino a giungere a descrivere minuziosamente i colori da lui associati al suono di scale, accordi, timbri strumentali, nella prefazione alle Trois Liturgies.
Poi per la sua passione ornitologica che si integra nella sua musica sia in forma tematica che con opere apertamente dedicate al canto degli uccelli [es. Catalogue d’oiseaux, per piano (1956–58), Réveil des oiseaux, piano e orchestra (1953), Oiseaux exotiques, piano e orchestra (1955–56) e altre].
Delle sue modalità di trasposizione dei canti degli uccelli, Messiaen dice:
L’uccello… canta a tempi estremamente veloci che sono assolutamente impossibili per i nostri strumenti; dunque sono obbligato a trascriverlo ad un tempo più lento. Per di più, questa rapidità è associata ad una estrema acutezza, essendo un uccello in grado di cantare in registri così alti da essere inaccessibili ai nostri strumenti; perciò trascrivo il canto da una a quattro ottave sotto. E non è tutto: per la medesima ragione sono obbligato a sopprimerne i microintervalli che i nostri strumenti non riescono a suonare.
Infine, la sua fede, che personalmente non capisco e non condivido, ma che è sempre stata per lui una forza.
Con grande scandalo degli ideologi a lui contemporanei Messiaen radicò la sua fonte d’ispirazione alla panca dell’organo della Sainte Trinité, su cui restò assiso finché visse. Nei suoi scritti egli proclama una candida sequela alla Santa Romana Chiesa, ma mentre ad Igor Stravinsky o a Franz Liszt la fede cattolica ispirò musica essenziale e castigata, Messiaen trae dalla sua esperienza di cristiano una fastosità e una sovrabbondanza espressiva tali da farlo erroneamente definire “panteista” o “sentimentale”. I testi delle Trois petites Liturgies rivelano una conoscenza profonda della filosofia tomistica e della spiritualità ceciliana e solesmense. La trascrizione musicale delle sue esperienze religiose si rivela così troppo concentrata e complessa per chi si aspetta da esse facili ascolti, ma inspiegabilmente mantiene di volta in volta freschezza, tenerezza o ferocia che possono provenire solo da chi non fa del misticismo intellettuale l’unica forma di ispirazione.
La pagina che segue, pubblicata in wikipedia (cliccate l’immagine per ingrandire), tratta da Oiseaux exotiques, mostra con chiarezza alcune delle caratteristiche molto personali di questo compositore:
l’uso di ritmi arcaici ed esotici. Nei righi in basso si vedono due figurazioni etichettate come “Asclépiade” e “Saphique” che sono antichi ritmi greci, mentre il Nibçankalîla che inizia in ultimo rigo, ultima battuta, è un decî-tâla dalla Śārṅgadeva, una lista di 120 unità ritmiche che appartiene alla tradizione indiana (Messiaen si è rifatto spesso al corpus ritmico dei tala indiani).
i canti degli uccelli notati minuziosamente, indicandone anche il nome. La garralaxe à huppe blanche e la troupiale des vergers sono, appunto, uccelli.
S.N.O.W. è il risultato di improvvisazioni, viaggi nell’immaginario, dialoghi attraverso il suono, costruzione (elaborazione) di scenari aperti ad ogni possibile variazione, stratificazioni di idee o scarti improvvisi verso altri scenari e soluzioni. Ogni suono, ogni rumore è lo spunto per uno sguardo oltre il visibile, il reale.
L’improvvisazione è avventura, mistero e sorpresa, viaggio dentro e fuori di sé.
I titoli rappresentano ciò che noi abbiamo visto e vissuto attraverso il suono, ed è un suggerimento per chi si appresta all’ascolto, ma qualsiasi scenario è possibile, poiché le atmosfere, i timbri e i colori si prestano a molteplici e personali interpretazioni emotive.
Su YouTube si trovano anche altri video che permettono di seguire una partitura di ascolto insieme alla musica.
Eccone uno di Metastaseis (Metastasis), un brano per orchestra composto nel 1954 da Xenakis, in cui gli eventi sonori erano definiti quasi completamente su base statistica.
In effetti, il processo compositivo di Xenakis è strettamente collegato alla matematica. Per risolvere problemi quali la distribuzione dei suoni e delle figure, la densità, la durata, le note stesse, Xenakis utilizza molto spesso distribuzioni statistiche, il calcolo combinatorio, ma anche le leggi fisiche e la logica simbolica.
Il suo approccio è conseguente alla sua critica al serialismo integrale espressa nel suo scritto “La crise de la musique serielle”, che si può sintetizzare come segue:
L’applicazione della serie a tutti i parametri compositivi al fine di ottenere un controllo totale sulla composizione produce invece una incontrollabile complessità che “impedisce all’ascoltatore di seguire l’intreccio delle linee e ha come effetto macroscopico una dispersione non calcolata e imprevedibile dei suoni sull’intera estensione dello spettro sonoro”.
Ne consegue una evidente contraddizione fra l’intento compositivo che vorrebbe essere totalmente deterministico e l’effetto sonoro.
Dato che il serialismo permette di trasporre la serie su ognuna delle 12 note e permette anche di utilizzare l’inversione, il retrogrado e l’inversione del retrogrado con relative trasposizioni, allora esso non è che un caso particolare del calcolo combinatorio [cioè la branca della matematica che studia i modi per raggruppare e/o ordinare secondo date regole gli elementi di un insieme finito di oggetti – da wikipedia].
Di conseguenza, il calcolo combinatorio costituisce una generalizzazione del metodo seriale e quindi un suo superamento.
Da queste due considerazioni e dalla preparazione di carattere fisico e matematico, oltre che musicale, di Xenakis nasce un approccio compositivo totalmente nuovo. Se la contraddizione del serialismo è dovuta alla sua complessità che genera una dispersione non calcolata dei suoni, si tratta dunque di trovare nuovi criteri di controllo. La linea deduttiva di Xenakis si può riassumere nei seguenti passi:
il serialismo integrale, adottando i meccanismi della trasposizione, inversione e retrogrado è approdato quasi spontaneamente al calcolo combinatorio
le scienze statistiche, di cui il calcolo combinatorio fa parte, hanno messo a punto strumenti matematici e concettuali capaci di studiare e definire fenomeni complessi
il calcolo delle probabilità, concettualmente e storicamente legato al calcolo combinatorio e sua potente generalizzazione, si presenta come lo strumento più idoneo per determinare l’effetto macroscopico generato da una polifonia lineare di alta complessità
la serie viene quindi sostituita con il concetto di insieme sonoro organizzato mediante distribuzioni statistiche che permettono di controllare le varie caratteristiche sonore quali altezze, densità, durate, timbro, etc.
il livello di controllo [quello su cui lavora il compositore] si innalza dal singolo suono all’insieme sonoro. L’aspetto microscopico della composizione può essere anche disordinato, ma a livello macroscopico si ha una chiara percezione di una figura sonora.
Chiariamo questi postulati (soprattutto il 5).
Se io faccio fare a 40 archi una lunga nota scelta a caso ma con distribuzione uniforme (tutte le note hanno la stessa probabilità) fra il DO3 e il DO4, la percezione sarà quella di un cluster cromatico di 8va.
Altro esempio: se n strumenti suonano note a caso con altezze distribuite in modo uniforme fra il DO3 e il FA3 e durate scelte nello stesso modo fra semicroma e croma, la percezione sarà quella di una fascia con movimento interno la cui velocità dipende dalla durata media e il cui timbro dipende dalla distribuzione strumentale.
Il compito del compositore non è più di scegliere le singole note, compito lasciato alla distribuzione statistica, ma quello di determinare la forma dell’insieme stabilendo quali distribuzioni statistiche governano i vari parametri sonori e i movimenti dell’insieme attraverso il controllo dei parametri delle suddette distribuzioni.
Notate che l’impostazione concettuale di Xenakis non è dissimile da quella di Stockhausen, quando crea il concetto di gruppo e sposta la sua attenzione dal singolo suono al gruppo ed è analoga a quella di Ligeti quando compone per fascie introducendo l’idea di micro-polifonia.
La posizione di Xenakis, determinata anche dalle sue conoscenze matematiche, è, però, estrema. Lui abbandona completamente il livello del singolo evento sonoro, per porsi a un livello più alto, quello degli insiemi di suoni. Se consideriamo che anche quello che il compositore strumentale definisce “suono singolo” è, in realtà, un agglomerato di suoni semplici (armonici e/o parziali sinusoidali), questa posizione è ampiamente giustificata. I possibili livelli di controllo dell’evento sonoro sono molti: dal “comporre il suono” dell’elettronica in sintesi additiva, fino all’organizzazione dell’evento privo di una precisa determinazione del risultato sonoro (Fluxus). Spetta al compositore decidere dove porsi.
Notate, infine, che questa musica di Xenakis è statistica, non casuale. La casualità c’è, ma si annulla nella molteplicità degli eventi.
Ecco il video. Volendo potete anche andare a vederlo su YouTube che vi permette anche di ingrandirlo a tutto schermo.
E per darvi modo di ascoltarli meglio, ecco un isolamento dei famosi glissandi le cui trame riproducono la struttura delle superfici del padiglione Philips progettato da Le Corbusier con l’assistenza di Xenakis nel 1958 per l’esecuzione del Poème Électronique di Edgar Varèse (immagini qui e qui).
Lo stesso d21d34c55, di cui al post precedente, ha realizzato anche questo video sulla partitura di Mycenae Alpha (1978) di Xenakis.
Qui però non si tratta di un disegno a posteriori, ma è il disegno stesso che genera il suono tramite una sorta di sintesi granulare. Uno dei software del CEMAMu (Centre d’Etudes de Mathématiques et Automatique Musicales), il centro di ricerca in cui Xenakis lavorava, permette, appunto, questo.
Si tratta dell’UPIC (Unité Polyagogique Informatique du CEMAMu), una tavoletta grafica 75×60 cm su cui il compositore può disegnare delle forme che vengono trasformate direttamente in suono dal computer a cui è collegata (e a mio avviso, spesso e volentieri sembra che si preoccupi più del disegno che del suono).
Negli anni ’70, Rainer Wehinger ha creato una partitura analitica e d’ascolto per Artikulation, un lavoro elettronico di Ligeti, composto nel 1958 allo studio di Colonia.
Un volonteroso il cui nick è d21d34c55, ha passato il tutto allo scanner e ha creato un video sincronizzato con l’audio, mettendolo poi su YouTube.
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In the 70’s, Rainer Wehinger created a visual listening score to accompany Gyorgy Ligeti’s Artikulation.
A person whose nick is d21d34c55 has scanned the pages and synchronized them with the music, posting the video on YouTube.
L’AvantGarde Project (AGP), che si occupa di rimettere in circolazione registrazioni dell’avanguardia storica ormai fuori catalogo perché mai ristampate su CD e non più distribuite nell’originale in vinile, chiude il 2007 e inizia il 2008 all’insegna della musica italiana.
AGP84, infatti, propone una serie di brani per vari strumenti (arpa, flauto, oboe fra gli altri), tratti dalla produzione di Bartolozzi, Castiglioni, Clementi, Donatoni, Pennisi, Sciarrino, Sinopoli e Valdambrini.
AGP83, invece, è dedicato a Berio che dirige la propria Sinfonia e le Epifanie. Queste due opere sono ancora in circolazione, ma non in questa versione, che risulta essere l’unica diretta dall’autore ed è veramente un peccato che vada perduta solo perché non sembra esistere una convenienza economica a ristamparla. Tuttavia la registrazione manca del quinto e ultimo movimento della Sinfonia e questo può essere stato un motivo plausibile per abbandonarla.
Tutti i brani sono scaricabili in formato FLAC (compressione senza perdita).
Disclaimer: stando ad AGP, queste registrazioni sono fuori catalogo. Resta inteso che, se un proprietario del copyright esiste e me lo fa sapere, toglierò i link dal post (nulla è sul mio sito; io mi limito a segnalare AGP).
Intanto potete ascoltare Addio a Trachis. di Sciarrino per arpa sola e un brano per oboe di Bartolozzi, Collage, ricco di multifonici.
Il brano di Sciarrino abbandona i virtuosismi per ritrovare quegli sprazzi di melodia, tipici del compositore siciliano.
Collage (1968) è un’opera aperta che consta di una quarantina di brevi frammenti esposti senza un ordine fisso. L’operazione di collegamento è lasciata all’interprete.
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The AGP83 and AGP84 issues are devoted to the italian music.
AGP84 presents a collection of works by Italian composers, culled from five different LPs. The works are for a variety of ensembles, featuring harp, flute, and oboe, among other instruments. The installment includes a PDF file with liner notes from three of the five LPs.
AGP83 is the third devoted to music by Luciano Berio. It includes four movements from the Sinfonia and the Epifanie conducted by the composer itself.
S.N.O.W. [Sound, Noise & Other Waves] è il nome ufficiale del nostro duo.
Qui accanto trovate la cover del nostro primo CD. Cliccatela e una volta arrivati sulla S.N.O.W. page, ascoltatevi pure il background, ma cliccate anche una delle lettere S.N.O.W. che portano alle pagine interne con ascolto integrale.
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S.N.O.W., [Sound, Noise & Other Waves], is the official name of our free improvisation duo.
Here on the sidebar is our first CD cover. Click to jump to the site, then click the S.N.O.W. characters to enter.
Line up:
Federico Mosconi: electric guitar, sound effect processing
Mauro Graziani: Max/MSP laptop, keyboard
Ho visitato il sito di Simon Stockhausen, figlio di tanto padre e vi ho trovato molta musica che può rientrare in diversi generi, da uno pseudo jazz alla contemporanea, fino al pop (fra cui una serie di pezzettini composti per il campionato del mondo di calcio del 2006).
Vi linko alcuni estratti del brano che mi ha colpito di più: queste Berliner Geschichten (Berlin stories) del 1999, composte da registrazioni eseguite sul campo a Berlino mixate con parti orchestrali, a formare un insieme fluttuante e in continua trasformazione.
Devo dire, comunque, che le cose per me più interessanti sono le più vecchie che, fra l’altro, ricordano a tratti il padre, mentre non riesco ad apprezzare i brani che utilizzano altri linguaggi, per di più in un modo che mi sembra piuttosto banale. Effettivamente il muoversi con naturalezza fra generi molto diversi è riuscito, finora, soltanto a pochissimi compositori.
E d’altra parte, fare il compositore portando un nome del genere può anche aprire diverse porte, ma il costruirsi una identità svincolata da quella del padre deve essere piuttosto difficile…
Un affascinante e recente brano di Konstantinos Karathanasis, trentaduenne compositore greco emigrato negli USA.
Costruito intorno ad un’unica altezza (SI), questo pezzo, per sei strumenti e suoni elettronici, è come un singolo, ultra concentrato raggio di luce che penetra il vuoto, il silenzio, con gli strumenti che agiscono come delle lenti, dei prismi, che gradualmente modificano il colore del suono allargandolo alle note vicine e via via più lontane.
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The following excerpt from an old Greek text of the 7th century AD encapsulates the central idea of the piece: ‘… And as all things come from the One, from the mediation of the One, so all things are born from this One by adaptation …’ There is one pitch (B), which as a single ultra-concentrated beam of light penetrates the vacuum, the silence. The instruments and the electronics act like lenses and prisms that slowly change the color of this single B and magnify it to the neighboring pitch areas. Since this process is gradual, like wine fermentation, special attention is given to various subtle changes, in the micro-intervals and their beatings, attacks and dynamics, colors and textures. Once the magnifications of the single pitch expand to its partials, the fermentation process is accelerated and new dimensions open up that at some point incorporate even chance.
The role of the electronics is to unify the instrumental fragments and thus to provide coherence through the piece. Although obscure at the beginning, progressively the computer becomes the seventh player in the ensemble, and after a certain point it develops in to an all-inclusive ocean, where the instruments swim, like exotic fish. The electronics are based in various real-time techniques in Max/MSP, mostly live phase vocoding and sampling, infinite decay reverbs, flangers, harmonizers, and granular synthesis.
Ci pensavo oggi in treno e così ho deciso di scriverne.
Di solito i post che cominciano così finiscono per essere un assemblaggio di retorica e luoghi comuni. Non questo. Vorrei evitare la retorica, come quella di un po’ di cose che ho letto in giro sulla scomparsa di KS. Gente che fino a ieri non ne parlava neanche di striscio, oggi esce con post che parlano di genio, etc etc.
Generalmente, non tengo un blog per guardarmi l’ombelico, ma stavolta faccio un’eccezione. Allora, cerco di dirvi cos’era per me Stockhausen.
Cosa ammiravo in Stockhausen
La capacità di innovare e la quantità delle sue innovazioni. Molti dei cambiamenti nella musica dei secondi anni ’50 sono venuti da lui.
Ci sono dei compositori che sono ricordati per uno o due contributi importanti. Quelli di KS sono molti. Un certo tipo di strutturalismo, un diverso modo di vedere il serialismo, la momente form, le nuove sonorità pianistiche, la musica intuitiva, l’idea dell’unità del tempo musicale, la rivisitazione dell’opera e poi l’elettroacustica degli anni ’50, il microfono come strumento, la sua fede nell’elettronica e potrei andare avanti un bel po’…
Il suo coraggio. Coraggio nell’andare fuori dal mainstream e poi essere il mainstream, coraggio nello scrivere in una partitura istruzioni come “…arriva a uno stato di non pensiero…”, coraggio nel chiedere il cielo sul soffitto del Teatro alla Scala…
La cura posta nell’esecuzione e nella messa in scena delle proprie opere arrivando a volte a rifiutare una esecuzione anche importante se non venivano rispettati tutti i dettagli.
Infine, anche qualcuno dei suoi deliri. Era quasi simpatico quando sosteneva di venire da Sirio.
Cosa detestavo in Stockhausen
In una sola parola: lui come persona. Lo dico una buona volta senza usare parafrasi, come quelle dei giornali (tipo: il suo narcisismo gli attirava qualche critica).
Non voglio offendere qualcuno che magari lo amava o lo frequentava quotidianamente, ma, dal punto di vista di uno che ci ha parlato insieme solo qualche volta e leggeva le sue interviste, KS appariva come uno che pretendeva di avere sempre ragione e sputava sugli altri con una facilità unica. Per lui, quasi tutto quello che non era Stockhausen era praticamente privo di valore.
Un esempio fra tanti: intervista con Odifreddi; si parla della musica delle sfere:
PO: Cosa pensa dell’opera di Hindemith L’armonia del mondo, costruita appunto in base alla versione kepleriana di questo motto pitagorico?
KS: Mi sembra molto ingenua: quasi la visione musicale di un agricoltore.
Ma, porca miseria, è Hindemith. Puoi non essere d’accordo con la musica che ha scritto e motivarlo, ma non puoi farlo fuori dando dell’ingenuo a lui e a tutti gli agricoltori.
Esistono vari aneddoti di questo tipo. Ciò che lui pensava, diventava assoluto e veniva corroborato da esempi spesso assolutamente campati in aria, ma che lui pretendeva fossero corretti:
Il pensiero seriale è divenuto parte della nostra consapevolezza e resterà qui per sempre … Anche le stelle sono distribuite in modo seriale …
[cit. in Cott, 1973]
Ci sono molte altre storie del genere. Vedi anche le dichiarazioni di Ligeti in “Lei sogna a colori?” oppure l’intera “Intervista sul genio musicale”.
Eppure una persona di tale livello non aveva certo bisogno di tutta questa auto-affermazione, ma probabilmente non sarebbe stato così geniale altrimenti. La sua genialità era sorretta anche dall’incrollabile convinzione di essere sempre nel giusto. Una volta presa una strada, KS non aveva dubbi. E il coraggio che mostrava nelle sue partiture derivava anche da questo atteggiamento.
Se fosse stato un politico sarebbe stato molto pericoloso. Fortunatamente ha fatto il compositore.
D’altronde, spesso la vita è così: bisogna prendere tutto il pacchetto o rinunciare a tutto il pacchetto.
Stockhausen, riferisce la fondazione che porta il suo nome in un comunicato, è deceduto mercoledì 5/12 a Kuerten, nell’ovest della Germania.
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The composer Karlheinz Stockhausen passed away on December 5th 2007 at his home in Kuerten-Kettenberg and will be buried in the Waldfriedhof (forest cemetery) in Kuerten.
See Alfred Hitchcock playing (?) the Oskar Sala’s Trautonium.
Sala was a pupil of Friedrich Trautwein, the inventor of the trautonium, and studied with Paul Hindemith in 1930 at the Berlin conservatory.
Oskar Sala further developed the trautonium into the Mixtur-Trautonium. Sala’s invention opened the field of subharmonics, the symmetric counterpart to overtones, so that a thoroughly distinct tuning evolved. Sala presented his new instrument to the public in 1952 and would soon receive international licenses for its circuits. That same year, composer Harald Genzmer delivered the score to the first Concert For Mixtur-Trautonium And Grand Orchestra.
In the 1940s and 1950s he worked on many film scores. He created the non-musical soundtrack for Alfred Hitchcock’s film The Birds. He received many awards for his film scores, but never an Oscar.
Su YouTube si trova questo Alchemists of Sound, documentario della BBC sul BBC Radiophonic Workshop, uno studio creato per la produzione di effetti sonori e nuova musica per la radio, attivo dal 1958 al 1998.
Il documentario è ben fatto, nel solito stile formale e qualche volta un po’ ridicolo della BBC e ha una certa rilevanza storica perché mostra le metodologie di lavoro di quegli anni. Ovviamente è in inglese, ma la pronuncia è abbordabile.
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The rather popular & high quality BBC documentary Alchemists of Sound about the BBC Radiophonic Workshop is on YouTube.
Natale si avvicina e per me le feste comandate sono periodi nefandi e depressi, così cerco di addolcirle con un po’ di musica, magari a tema, ma diversa dal solito.
George Crumb ha scritto questa Little Suite for Christmas per piano solo nel 1980.
Si tratta di un brano dolce e silenzioso, ma nello stesso tempo molto energico, giocato su un dialogo fra suono e silenzio, con eruzioni sonore, lunghe pause e frasi esitanti.
Qui Crumb rinuncia all’amplificazione e agli oggetti inseriti su/fra le corde che usava nel Makrokosmos, ma si concentra sul suono dello strumento, con corde lasciate vibrare, pedali, armonici, risonanze e pizzicati.
Il risultato è contemplativo e affascinante. Un pezzo che mostra come si possa scrivere musica contemporanea ma accessibile e godibile nello stesso tempo.
George Crumb – A Little Suite for Christmas for piano – Aleksandra Listova
Ecco come si faceva musica elettronica qualche anno fa. Visto che qualcuno di voi ci è nato nel 1982, magari così si fa un’idea.
Oggi tutto questo (e anche di più) sta in un laptop.
Questo spiega anche perché, per uno come me, sia così facile usare software come Max/MSP: ho passato anni collegando scatolette e tirando cavi.
Tutto ciò, però, rivela anche un’altra cosa. Chiunque abbia usato Max/MSP si sarà accorto che una patch di media complessità produce un intrico di cavi virtuali paragonabile a quello nella foto. Il che significa che i software attuali non sono affatto una rivoluzione, ma mimano virtualmente la realtà degli anni ’80.
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A good image showing the electronic musician of the 80s.
Now all this devices (and more) run on a laptop.
Post-conceptual digital artist and theoretician Joseph Nechvatal pushes his experimental investigations into the blending of computational virtual spaces and the corporeal world into the sonic register.
Realtime “field recordings” of the audio manifestations of his custom created computer viruses have been reworked and reprocessed by Andrew Deutsch and Matthew Underwood, resulting in the sonic landscape of the ‘viral symph0ny’.
With resonances of Yasunao Tone, Fluxus, Oval, and Merzbow, this 28-minute composition is supplemented by a further 50 minutes of audio, comprising the original raw data field recordings.
Listen to: viral symphOny – 1st mvt
Joseph Nechvatal : original concept viral structures
Mathew Underwood : nano, micro, meso and macro structures
Andrew Deutsch : meso and macro structures
Stephane Sikora : C++ programming
Di Harry Partch abbiamo già parlato su queste pagine. Artista personalissimo, a cavallo fra il ‘900 storico e il contemporaneo (1901-1974), capace di ideare e costruire una propria strumentazione che non si basa sul temperamento equabile e per questo isolato, ma ciò nonostante sempre presente a sé stesso e consapevole del suo essere compositore (ricordiamo che durante la grande depressione vagava come un senzatetto e tuttavia era in grado di pubblicare un giornaletto dal titolo Bitter Music – Musica Amara), Partch ha sempre portato avanti la sua sfida all’estetica corrente, quale essa fosse.
Con la sua musica, non tonale, non atonale, ma anzi completamente esterna a questo dualismo, (sviluppando quell’atteggiamento prettamente americano che già troviamo in Ives e altri), Harry Partch raggiunge livelli di grande potenza, come in questa ultima opera del 1965-66, eseguita una sola volta mentre era ancora in vita.
Delusion of the Fury: A Ritual Of Dream And Delusion, per 25 strumenti (mai utilizzati tutti insieme), 4 cantanti e 6 attori/ballerini/mimi, accosta un dramma giapponese nel primo atto a una farsa africana nel secondo, realizzando quel concetto di teatro totale che integra musica, danza, arte scenica e rituale da sempre caro all’autore.
L’opera non ha un vero e proprio libretto, nel senso narrativo dell’opera europea. Tutta l’azione è danzata e/o mimata.
Nelle parole di Partch, il primo atto è sostanzialmente un’uscita dall’eterno ciclo di nascita e morte rappresentato dal pellegrinaggio di un guerriero in cerca di un luogo sacro in cui scontare la penitenza per un omicidio, mentre l’ucciso appare nel dramma come spettro, dapprima a rivivere e far rivivere al suo assassino il tormento dell’omicidio, trovando infine una riconciliazione con la morte nelle parole “Prega per me!”.
Il secondo atto è invece una riconciliazione con la vita che passa attraverso la disputa, nata per un equivoco, fra un hobo sordo e una vecchia che cerca il figlio perduto. Alla fine, i due vengono trascinati di fronte a un confuso giudice di pace sordo e quasi cieco che, equivocando a sua volta, li scambia per marito e moglie e intima loro di tornare a casa, mentre il coro intona all’unisono un ironico inno (“come potremmo andare avanti senza giustizia?”) e la disputa si stempera nell’assurdità della situazione.
L’opera si conclude con stessa invocazione del finale del primo atto (“Pray for me, again”), lanciata da fuori scena.
La prima volta che incontrai Barry Truax (nella foto a 2/3 anni), al CSC di Padova alla fine degli anni ’70, io ero uno studente e lui era già un guru della computer music che aveva al suo attivo il POD (un software per la composizione assistita da computer) e una convincente sistematizzazione compositiva della modulazione di frequenza e alcuni brani che la sfruttavano, come Sonic Landscape e Androginy.
Già allora Truax utilizzava il concetto di “paesaggio sonoro”, mutuato dal World Soundscape Project, di cui aveva fatto parte nel 1973. Più tardi sarebbe stato uno dei pionieri della sintesi granulare.
I lavori di Barry che preferisco sono le composizioni elettroacustiche in cui dà prova di grande maestria nella elaborazione del suono, come “Basilica“, interamente basato sulle sonorità delle tre campane della cattedrale di Quebec City (Truax è canadese, vive e lavora a Vancouver) o “Temple“, elaborazione di campioni vocali registrati nella riverberante cattedrale di San Bartolomeo, a Busetto (Italia) o ancora “Steam“, dedicato alla grande varietà di fischietti e corni da nebbia che popolano il paesaggio sonoro del Canada. Nello stesso modo mi piacciono i suoi brani di sintesi, come “Arras“, ispirato agli arazzi dell’omonima città francese. (estratti audio sotto la parte in inglese)
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Barry Truax (born 1947) is a Canadiancomposer who specializes in real-time implementations of granular synthesis, often of sampled sounds, and soundscapes. He developed the first ever implementation of real-time granular synthesis, in 1986, the first to use a sample as the source of a granular composition in 1987’s Wings of Nike, and was the first composer to explore the range between synchronic and asynchronic granular synthesis in 1986’s Riverrun. The real-time technique suites or emphasizes auditory streams, which, along with soundscapes, inform his aesthetic.
Truax teaches both electroacoustic music and computer music and acoustic communication at Simon Fraser University. He was one of the original members of the World Soundscape Project. His students include John Oswald.
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Barry Truax works excerpts (from the author’s site where you can listen to many other sound examples)
Basilica (1992) for two or eight digital soundtracks
Temple (opening) (2002) for eight digital soundtracks
Steam (2001) for alto flute and two digital soundtracks (Chenoa Anderson, alto flute)
Arras (1980) for four computer-synthesized soundtracks
Un buon lavoro questo Reach di Pseudophone, godibile, ricco di atmosfere fatte di flussi sonori ciclici che lentamente si sovrappongono e si inseguono.
Pseudophone strives to craft cinematic pieces that “tell a place”—a space so full of character a story will unfold there almost entirely by itself. Every tool in the Psueophophone studios—whether stringed or controlled by faders, whether banged on or dialed in—is musical. In Pseudophone’s world every sound is sacred, and any sound can be composted. What is more sacred than a story? The Spirit moves across the water, and the words appear in the beginning, and in the end.
Reach is a travelogue of sorts, but the destinations are unmapped. It is a sonic diary of places told, a soundtrack of possible journeys—both outward and within. Yet we hope you find it not so much a long voyage as a dreamy sail—no coins are required for the boatman.
[Pseudophone]
Pseudophone – The Reach Koniuto – voice, schemes & treatments, assemblage
Kim Mitchell – voice
Le “Eight Songs for a Mad King” scritte da Peter Maxwell Davies nel 1969, sono ispirate alla follia senile di re Giorgio III° di Gran Bretagna e a un carillon, tuttora esistente e appartenente a Sir Stephen Runciman, che si racconta venisse usato dal re nella pretesa di insegnare a cantare agli uccelli del parco.
Si tratta in realtà di un monodramma di circa 30 minuti con libretto di Randolf Stow basato su testi dello stesso Giorgio III° (testi qui), pensato per l’attore e cantante sudafricano Roy Hart, baritono dall’enorme estensione vocale (più di 5 ottave) e proprio per questo raramente eseguita in seguito (Roy Hart, morì in un incidente poco dopo la prima).
La partitura è per flauto (+ottavino), clarinetto, violino, violoncello, pianoforte (+clavicembalo, dulcimer), percussioni (+vari fischietti, didjeridu), oltre all’attore protagonista che è l’unico a muoversi liberamente sul palcoscenico, essendo gli altri esecutori rinchiusi in grandi uccelliere.
Nel corso dell’opera, il re dialoga anche individualmente con gli altri strumenti che a volte incarnano le sue allucinazioni: p.es. il flauto diventa la Lady-in-Waiting del terzo brano, mentre il violoncello rappresenta il Tamigi nel brano no. 4 e il percussionista è il custode del re.
Un’opera innovativa nel 1969, anche dal punto di vista grafico, che a tratti incorpora musica di corte dell’epoca.
Nocturnal è uno degli ultimi brani di Edgar Varèse (1883-1965), lasciato incompiuto e terminato dal suo allievo e assistente Chou Wen-chung nel 1968 facendo, a mio avviso, un ottimo lavoro (non si avverte la mano di qualcun altro).
Ecco un estratto delle note di programma.
Nocturnal is a world of sounds remembered and imagined, conjuring up sights and moods now personal, now Dantesque, now enigmatic. Perhaps one should not read too much into a composer’s choice of words, but how, knowing Varèse’s unique career, could one resist wondering about the line, ‘I rise, I always rise after crucifixion’? What about the mocking, threatening, babbling emanations from the chorus, often directed to sound ‘as if from underground’ and ‘harsh’? Then there are the sounds remembered — the liquid beat on the wood block, the shrill whistling of the winds, the tenacious shimmering of the strings — the insistent sound of a mass of shuffling feet, the flourishes of drum beats, the sudden crashing outbursts. A phantasmagorical world? Yes, but as real as Varèse’s own life.
In completing the score … two principles were followed: (1) continuation of some of Varèse’s principal material of the original portion, following suggestions in his cryptic notes; (2) addition of new material from the few more elaborate sketches found, so as to illustrate more fully his ideas for this work and his concepts in the use of vocal sounds. All the details, whenever not specified in the sketches, are worked out according to the original portion or other sketches in which similar situations are found. The original portion ends with the words, ‘dark, dark, dark, asleep, asleep,’ sung by the soprano. This is clearly indicated in the published score. The added portion is purposely kept to the minimum length possible, just enough to include all suitable additional material and to provide structural coherence.
The word alap refers to the opening passage of Raga music. In the music of India, the alap tends to display improvisational materials which relate to the music which will follow, yet it contains a deep expressivity. In the work Grand Alap, the opening passage serves as a kind of ritual offering to all surrounding spirits and is a request for permission to begin the performance. This practice has occurred in the music-making practices of cultures throughout parts of Asia for many centuries, including Cambodia. The subtitle ‘A Window in the Sky’ is a reference to the recent scientific discovery of hundreds of newly found galaxies (with the assistance of the Hubble telescope) and perhaps relates to the expository quality of the work, and its expansiveness.
Grand Alap requires the percussionist to be male and the cellist to be female, as each of them has a vocal part which is both separate and related to their instrumental parts. Each of them is required to articulate certain phonemes as well as to sing. Some of the phonemes used are derivative of the sounds used to communicate percussion techniques in regions of South and Southeast Asia while others resemble words in a few ancient languages. A few words have meaning in the Khmer (Cambodian) language, which derives from Pali and Sanskrit: ‘Soriya’ is the sun, ‘Mekhala’ is the goddess of water, and the words ‘Mehta/Karona’ refer to the concept of greater compassion.
Grand Alap consists of countless fragments strung together like beads on a necklace in a complete circle. Some of these fragments bear distinct references to particular personae. The sections entitled ‘Entering into Trance’ and ‘In Trance’ require that the percussionist execute those fragments while in a kind of altered state, or as if thrown into an unearthly dimension. In the section entitled ‘An Angel Voice’ the cellist is to sing a musical phrase with a pure and balanced expression, as if coming from a heavenly place. ‘Rising On the Seventh Day’ symbolizes a ‘rebirth’ of the soul, which is a reference to traditional Khmer theatre, and ‘Departure of the Angel’ is the very last fragment of the work.
The vocal lines in Grand Alap have numerous functions. While at times they are an integral part of the texture and sonority, they also represent the locus of each musical personae or fragment, which are then strung together, as stated before, in a kind of necklace. Sometimes the vocalizations extend instrumental sounds or vice versa while at other times they are interlocked with instrumental sounds. The role of the voices is also often ‘broken’ and detached from the instrumental activity, allowing for instrumental sound to develop alone at certain moments. Instrumental display is continuous throughout the piece, while the voices can be said to contribute dots and dashes, or curves of expressive colors in a painting which emerge out of the canvas. Here, the surface of the canvas is represented by the ever-present instrumental sonority.
Grand Alap was commissioned by Maya Beiser and Steven Schick and made possible by the commissioning program of Meet the Composer/Reader’s Digest. This work grew out of a series of collaborative sessions between the composer and the commissioning performers.
Chinary Ung was born in 1942 in Cambodia and began studying the clarinet in Phnom Penh. He emigrated to the USA in 1964, finishing his clarinet studies and enrolling in composition at Columbia University.
Graduating in 1974, he turned back to his home country, studying Khmer musical traditions for the next decade.
Since 1995 he has taught at the University of California, San Diego.
About his music he says:
I believe that imagination, expressivity, and emotion evoke a sense of Eastern romanticism in my music that parallels some of the music-making in numerous lands of Asia. Above all, in metaphor, if the Asian aesthetic is represented by the color yellow, and the Western aesthetic is represented by the color blue, then my music is a mixture — or the color green.
Chinary Ung – Grand Alap: A Window in the Sky (1996), per violoncello e percussioni
Iva Casian-Lakos, cello, voice – John Ling, percussion, voice
My note:
C’è una interessante estetica che si va sviluppando in anni relativamente recenti: quella di coloro che hanno assorbito ed elaborato elementi culturali lontani e diversi. È qualcosa che va al di la di quello che il pop etichetta banalmente come world music. Non si tratta semplicemente di piazzare una melodia orientale su un ritmo occidentale o viceversa o ancora di suonare rock con lo shamisen.
Se ascoltate questo brano noterete come l’atmosfera oscilli continuamente fra est e ovest, con la sonorità tipicamente occidentale del violoncello, che a tratti si fa orientale con scale e pedali, le percussioni che stanno ora qui ora là e le voci che sono trattate con emissione molto orientale. È un bel mix, frutto di studio, di idee, non banale e non superficiale.
Personalmente, come atteggiamento (non come musica), mi ricorda un po’ Takemitsu quando faceva affiorare atmosfere tipicamente giapponesi da insiemi strumentali del tutto occidentali.
Ted Norman (1912-1997) era un chitarrista e compositore canadese dotato anche di sense of humour.
Infatti, dopo aver partecipato all’esecuzione del Marteau diretto dallo stesso Boulez, ha prodotto lo schizzo che vedete sotto e che trovate qui in dimensioni originali.
From 1977 Subotnick began to explore the relationship between performers and technology in a series of “ghost” pieces for instruments and interactive electronics. In these compositions, the ghost score is a silent digital program which activates electronic modules to modify the instrumental sounds with regard to pitch, timbre, volume, and location of the sounds. Each work has its own digital program which controls a standardized ghost box. The ghost electronics were designed by Donald Buchla and built by John Payne according to the composer’s specifications; funding was provided by a grant from the Rockefeller Foundation. There are fourteen ghost works (composed between 1977 and 1983), and, at present, Subotnick feels he has finished this series. While the ghost pieces have used electronics to modify instrumental sounds, it appears Subotnick’s next compositional period will involve having instruments control computer generated sounds.
Subotnick states:
The title Passages of the Beast refers to the rites of passage, of beastness to humanness, the passion of the beast and human awareness joined. The clarinet is treated as both a very old instrument (through a series of invented fingerings to get some of the non-diatonic qualities back into the technique) and a modern instrument, paralleling, more or less, the transition or passages from beast to human. The almost programmatic quality of the work is in keeping with the mainstream of my work for more than a decade. Passages, in particular, deals metaphorically with the evolution of the human spirit, and was one of a group of works which led up to the final (as of this writing) piece in the series, The Double Life of Amphibians, a ninety minute staged tone poem which received its world premiere at the 1984 Olympics Arts Festival in Los Angeles.
George Crumb – An Idyll for the Misbegotten (1986)
per flauto amplificato e 3 percussioni
Kristen Halay flauto, Brian Scott, W. Sean Wagoner, Tracy Freeze percussioni
I feel that ‘misbegotten’ [trad: figlio illegittimo, bastardo] well describes the fateful and melancholy predicament of the species homo sapiens at the present moment in time. Mankind has become ever more ‘illegitimate’ in the natural world of plants and animals. The ancient sense of brotherhood with all life-forms (so poignantly expressed in the poetry of St. Francis of Assisi) has gradually and relentlessly eroded, and consequently we find ourselves monarchs of a dying world. We share the fervent hope that humankind will embrace anew nature’s ‘moral imperative.’
[George Crumb]
Crumb suggests, “impractically,” that the music be “heard from afar, over a lake, on a moonlit evening in August.” (Crumb) Over a slow bass drum tremolo, the flute begins its haunting melody, which over the course of the piece includes quotations of Claude Debussy’s solo flute piece Syrinx and spoken verse by the eighth-century Chinese poet Ssu-K’ung Shu: “The moon goes down. There are shivering birds and withering grasses.” Far from a traditionally peaceful idyll, the music’s energy and dynamics gradually rise and fall, with a sense of desolation throughout.
MORTON SUBOTNICK (b. 1933, Los Angeles) is a pioneer in the field of electronic music as well as an innovator in works involving instruments and other media. He was the first composer to be commissioned to write an electronic composition expressly for phonograph records, Silver Apples of the Moon (Nonesuch, 1967), a work that was later choreographed by the Netherlands Ballet, Ballet Rambert of London and the Glen Tetley Dance Company. Subotnick was co-founder of the San Francisco Tape Music Center (now at Mills College) and was Music Director of Ann Halprin’s Dance Company and the San Francisco Actor’s Workshop. He served as Music Director of the Lincoln Center Repertory Theatre during its first season and was director of electronic music at the original Electric Circus on St. Mark’s Place in New York City. Subotnick has held several faculty appointments, including Yale University, and was Composer-in-Residence in West Berlin under the auspices of the DAAD. Since 1970, he has chaired the composition department of the California Institute of the Arts.
PARALLEL LINES is one of Subotnick’s “ghost” pieces for live soloist and electronics. The ghost series is a unique method of blending electronics with live performances so that the effect of the electronics is not audible unless the performer is making a sound. The electronic ghost score is a digital control system which activates an amplifier, a frequency shifter, and a location device. These process the instrumental sound according to the plan of each composition. The ghost electronics were made possible by a Creative Arts grant from the Rockefeller Foundation, and were designed by Donald Buchla to the composer’s specifications and constructed by John Payne at the California Institute of the Arts. Other ghost pieces include Last Dream or the Beast for singer and tape, Liquid Strata for piano, The Wild Beasts for trombone and piano, Passages of the Beast for clarinet, and Two Life Histories for male voice and clarinet. The composer writes:
PARALLEL LINES was commissioned by Laurence Trott and the Piccolo Society. The title has to do with the way in which the ‘ghost’ electronics interact with the piccolo. In previous ‘ghost’ pieces the electronics were used to produce an acoustic environment within which the solo manifested itself, but in this case the ‘ghost’ score is a parallel composition to the piccolo solo. The ghost score amplifies and shifts the frequency of the original non-amplified piccolo sound. The two (‘ghost’ and original piccolo sounds), like a pair of parallel lines, can never touch, no matter how quickly or intricately they move.
The work, a continuation of the butterfly-beast series, is divided into three large sections: (1) a perpetual-motion-like movement in which all parts play an equal role; (2) more visceral music, starting with the piccolo alone and leading to a pulsating ‘crying out,’ and (3) a return to the perpetual motion activity, but sweeter.
[from ANABlog]
Morton Subotnick – Parallel Lines – Laurence Trott, piccolo soloist
Members of the Buffalo Philharmonic and Buffalo Creative Associates; Michael Tilson Thomas, conductor
Un bel brano elettroacustico di Massimo Biasioni tratto dal sito del DAW07 (Digital Art Weeks 2007) di Zurigo.
Il materiale di partenza usato per la composizione di “l’amour outragè” è la registrazione di un frammento tratto dalla “Platée” di Rameau eseguito dalla soprano Annamaria Calciolari, ed il titolo del brano si riferisce al testo di detto frammento.
La principale tecnica di sintesi usata è quella granulare, allo scopo di ottenere graduali passaggi da situazioni in cui altezza e timbro vocale sono indeterminati, a situazioni in cui la voce è perfettamente riconoscibile. Fra i parametri di sintesi più controllati uno è quello della durata dei grani: in caso di grani di durata molto corta (entro i 25 millisecondi) la sensazione uditiva di altezza si perde, per tornare percepibile con grani di durata superiore. Per la realizzazione del brano sono stati utilizzati i software Max/Msp e Pro-Tools. Esistono due versioni del brano: la versione principale quadrifonica, da utilizzare in eventuali esecuzioni pubbliche, ed una versione stereofonica su cd. La durata è di 10 minuti.
Massimo Biasioni è nato a Trento nel 1963, diplomato in violino, composizione, musica corale e direzione di coro, nonché musica elettronica. Ha composto lavori da camera e per orchestra, per strumenti tradizionali ed elettronici, video e musica teatrale. Alcune delle sue composizioni sono state eseguite in festival importanti, incise su CD e trasmesse via radio.
Sempre dagli archivi della Fondazione Pulitzer, Different Trains di Steve Reich (anche se a me non piace più di tanto).
Program Notes
Different Trains, released in 1989, captures Reich harnessing a return to using speech patterns in his work, as in ‘Rain,’ with a spare though startling string accompaniment in the form of the Kronos Quartet.
The ‘Different Trains’ theme originates from Reich’s childhood, several wartime years spent travelling with his governess between his estranged parents, his mother in Los Angeles and his father in New York. Exciting, romantic trips, full of adventure for the young Reich but many years later, it dawned on him that, had he been in Germany during the ethnic cleansing by the Nazis, his Jewish background would have ensured that the trains he would have been riding on would have been very ‘different trains.’
He set about collecting recordings to effectively recreate and document the atmosphere of his travels to contrast with those of the unfortunate refugees. By combining the sound of train whistles, pistons and the scream of brakes with extracts of speech by porter Lawrence Davis, who took the same rides as Reich between the big apple and Los Angeles, governess Virginia and three holocaust survivors (Paul, Rachel and Rachella), Reich creates music of great intensity and feeling.
The rhythmic patterns and pitch of the voices establishes the phrases and course of the music heard in the quartet: ‘crack train from New York,’ and ‘1939’ for example, heard in the invigorating, steam-driven opening movement, America-Before The War. The slow, middle section, Europe-During The War, finds the refugees in the midst of their nightmare, ‘no more school’ and being herded into the cattle wagons. ‘They shaved us, They tatooed a number on our arm, Flames going up to the sky- it was smoking.’ Sirens from the Kronos help to convey the despair and confusion of the Jewish plight. Reconciliation is achieved in part three, After The War, where Paul, Rachel and Rachella are transported to live in America.
There is an incredibly poignant moment when Paul proclaims ‘… the war was over,’ Rachella, in sheer, fragile disbelief, asks ‘Are you sure?.’ The New York Times hailed Different Trains as ‘a work of… astonishing originality’ and the piece was subsequently awarded a Grammy in1989 for Best Contemporary Compostion.
Steve Reich – Different Trains – members of the Saint Louis Symphony Orchestra
Dated: New York, July, 1942. Revised October 1942
Instrumentation: 4 performers: pianist; 2 percussionists on muted gongs, tin cans, electric buzzer and tom-toms; one performers who plays a radio or phonograph;
Duration: 12′
Premiere and performer(s): August 1, 1942 at Bennington College in Bennington, Vermont, performed with the choreography by Merce Cunningham and Jean Erdman
The work was composed in the phraseology of the dance by Cunningham and Erdman. For the first time Cage uses records or radios, incorporating music of other composers in his own works. He suggests music by Dvorak, Beethoven, Sibelius or Shostakovich. Cage describes the work as a suite with a satirical character.
Jean Erdman recalls that for the first performance a ‘tack-piano’ was used (a piano with tumbtacks inserted onto the felt of the hammers). The pianist mutes the strings at times or plays the piano body (as a percussionist).
Black Angels (Images I), quartetto d’archi amplificati di George Crumb, probabilmente l’unico quartetto ispirato alla guerra in Vietnam. È una bella partitura, anche graficamente. I titoli dei movimenti, poi, sono fantastici (mi piace molto il 2.3 “Sarabanda de la Muerte Oscura”).
Movements
I. DEPARTURE
Threnody I: Night of the Electric Insects
Sounds of Bones and Flutes
Lost Bells
Devil-music
Danse Macabre
II. ABSENCE
Pavana Lachrymae
Threnody II: Black Angels!
Sarabanda de la Muerte Oscura
Lost Bells (Echo)
III. RETURN
God-music
Ancient Voices
Ancient Voices (Echo)
Threnody III: Night of the Electric Insects
Program Notes (from the author’s site)
Black Angels (Images I)
Thirteen images from the dark land
Things were turned upside down. There were terifying things in the air … they found their way into Black Angels. – George Crumb, 1990
Black Angels is probably the only quartet to have been inspired by the Vietnam War. The work draws from an arsenal of sounds including shouting, chanting, whistling, whispering, gongs, maracas, and crystal glasses. The score bears two inscriptions: in tempore belli (in time of war) and “Finished on Friday the Thirteenth, March, 1970”.
Black Angels was conceived as a kind of parable on our troubled contemporary world. The numerous quasi-programmatic allusions in the work are therefore symbolic, although the essential polarity — God versus Devil — implies more than a purely metaphysical reality. The image of the “black angel” was a conventional device used by early painters to symbolize the fallen angel.
The underlying structure of Black Angels is a huge arch-like design which is suspended from the three “Threnody” pieces. The work portrays a voyage of the soul. The three stages of this voyage are Departure (fall from grace), Absence (spiritual annihilation) and Return (redemption).
The numerological symbolism of Black Angels, while perhaps not immediately perceptible to the ear, is nonetheless quite faithfully reflected in the musical structure. These “magical” relationships are variously expressed; e.g., in terms of length, groupings of single tones, durations, patterns of repetition, etc. An important pitch element in the work — descending E, A, and D-sharp — also symbolizes the fateful numbers 7-13. At certain points in the score there occurs a kind of ritualistic counting in various languages, including German, French, Russian, Hungarian, Japanese and Swahili.
There are several allusions to tonal music in Black Angels: a quotation from Schubert’s “Death and the Maiden” quartet (in the Pavana Lachrymae and also faintly echoed on the last page of the work); an original Sarabanda, which is stylistically synthetic; the sustained B-major tonality of God-Music; and several references to the Latin sequence Dies Irae (“Day of Wrath”). The work abounds in conventional musical symbolisms such as the Diabolus in Musica (the interval of the tritone) and the Trillo Di Diavolo (the “Devil’s Trill”, after Tartini).
The amplification of the stringed instruments in Black Angels is intended to produce a highly surrealistic effect. This surrealism is heightened by the use of certain unusual string effects, e.g., pedal tones (the intensely obscene sounds of the Devil-Music); bowing on the “wrong” side of the strings (to produce the viol-consort effect); trilling on the strings with thimble-capped fingers. The performers also play maracas, tam-tams and water-tuned crystal goblets, the latter played with the bow for the “glass-harmonica” effect in God-Music.
George Crumb – Black Angels (Images I) performed by the Miró Quartet Daniel Ching (violin), Sandy Yamamoto (violin), John Largess (viola), Joshua Gindele (cello)
Nel 1913, Duchamp creò un ‘musical erratum’ che portava lo stesso titolo del suo Grande Vetro, “La mariée mise à nu par ses célibataires, même” (il che, visto che oggi è un giorno di matrimoni (non il mio) mi sembra appropriato).
Più che di un brano, si tratta di un metodo compositivo che utilizza un imbuto, delle palline e un trenino con vagoncini aperti.
Le palline sono numerate per indicare le note e vengono buttate a caso nell’imbuto posizionato sui vagoncini del trenino che avanza lentamente. In tal modo ogni vagoncino viene riempito casualmente da una pallina e la loro sequenza designa la serie dei suoni nella composizione.
Duchamp non esprime preferenze di organico, salvo indicare che gli strumenti devono essere di nuovo tipo. Questa versione, eseguita da Mats Persson and Kristine Scholz nel 1980, utilizza un panoforte preparato le cui corde sono messe in vibrazione da un disco rotante collegato a un motore elettrico.
Marcel Duchamp
La mariée mise à nu par ses célibataires, même (musical erratum)
Version by Mats Persson and Kristine Scholz
Postclassic Radio, tenuta dal compositore e musicologo Kyle Gann, fa parte del circuito Live365 e trasmette “Weirdly beautiful new music from composers who’ve left the classical world far behind.”
L’ascolto è libero beccandosi un po’ di pubblicità (raramente); a pagamento senza. Cliccate qui, poi l’icona gialla/nera
Il circuito Live365, comunque, è molto attivo nell’area della musica sperimentale. Vi segnalo anche:
free103point9 nyc – Transmission art, free jazz, noise, dub, mash-ups, avant folk, turntablism, generative sound, field recordings, and other fringe styles.
Iridian Radio – Music that’s smart, but still warm to the ears -John Adams, Kronos Quartet, Bang on a Can, Philip Glass, Laurie Anderson
Le radio gestite dall’etichetta innova.mu
innova.mu-Experimental – Radical music you won’t hear elsewhere Harry Partch, electroacoustic, experimental, computer generated, homemade instruments
innova.mu-Classical – New Classical music by today’s finest American composers: chamber, vocal, choral, orchestral
innova.mu-World – World, ethnic, international, tribal, folk, traditional Native American
innova.mu-SonicCircuits – The best selections from 10 years of the famous electronic music festival
innova.mu-Avant Jazz – Avant jazz, free Downtown improv, radical Ancient Futurism to blow your mind
Un lavoro importante di Crumb sono i quattro libri del Makrokosmos (1972-1974). I primi due libri sono per pianoforte solo (amplificato), mentre il terzo (chiamato anche Music for a Summer Evening) è per due pianoforti e percussioni ed il quarto (noto anche con il titolo Celestial Mechanics) per pianoforte a quattro mani.
Il nome di questo ciclo allude ai sei libri pianistici del Microcosmos di Béla Bartók; come il lavoro di Bartók, il Makrokosmos è costituito da una serie di brevi pezzi dal carattere differenziato. Oltre a quella di Bartók, George Crumb ha riconosciuto in questo ciclo influenze di Claude Debussy, sebbene le tecniche compositive utilizzate siano molto differenti da quelle di entrambi gli autori citati. Il pianoforte viene amplificato e preparato sistemando vari oggetti sulle sue corde; in alcuni momenti il pianista deve cantare o gridare alcune parole mentre sta suonando.
Note di programma dell’autore / Author’s program notes:
The title and format of my Makrokosmos reflect my admiration for two great 20th-century composers of piano music — Béla Bartók and Claude Debussy. I was thinking, of course, of Bartók’s Mikrokosmos and Debussy’s 24 Preludes (a second zodiacal set, Makrokosmos, Volume II, was completed in 1973, thus forming a sequence of 24 “fantasy-pieces”). However, these are purely external associations, and I suspect that the “spiritual impulse” of my music is more akin to the darker side of Chopin, and even to the child-like fantasy of early Schumann.
And then there is always the question of the “larger world” of concepts and ideas which influence the evolution of a composer’s language. While composing Makrokosmos, I was aware of certain recurrent haunting images. At times quite vivid, at times vague and almost subliminal, these images seemed to coalesce around the following several ideas (given in no logical sequence, since there is none): the “magical properties” of music; the problem of the origin of evil; the “timelessness” of time; a sense of the profound ironies of life (so beautifully expressed in the music of Mozart and Mahler); the haunting words of Pascal: “Le silence éternel des espaces infinis m’effraie” (“The eternal silence of infinite space terrifies me”); and these few lines of Rilke: “Und in den Nächten fällt die schwere Erde aus allen Sternen in die Einsamkeit. Wir alle fallen. Und doch ist Einer, welcher dieses Fallen unendlich sanft in seinen Händen hält” (“And in the nights the heavy earth is falling from all the stars down into loneliness. We are all falling. And yet there is One who holds this falling endlessly gently in his hands”).
Each of the twelve “fantasy-pieces” is associated with a different sign of the zodiac and with the initials of a person born under that sign. I had whimsically wanted to pose an “enigma” with these subscript initials; however, my perspicacious friends quickly identified the Aries of Spring-Fire as David Burge, and the Scorpio of The Phantom Gondolier as myself.
Il primo libro, del 1972, ha come sottotitolo “Twelve fantasy pieces after the Zodiac” e infatti i movimenti sono ispirati ai segni zodiacali.
Potete ascoltarlo tutto o selezionare i singoli movimenti riportati sotto:
Part 1: 00:09 – Primeval Sounds (Genesis 1), Cancer 04:26 – Proteus, Pisces 05:44 – Pastorale (From the Kingdom of Atlantis, сa. 10,000 B.C.), Taurus 07:51 – Crucifixus [Symbol], Capricorn
Part 2: 10:25 – The Phantom Gondolier, Scorpio 13:12 – Night-Spell 1, Sagittarius 17:00 – Music of Shadows (for Aeolian Harp), Libra 19:50 – The Magic Circle of Infinity [Symbol], Leo
Part 3: 21:16 – The Abyss of Time, Virgo 23:46 – Spring Fire, Aries 25:31 – Dream Images (Love-Death Music), Gemini 29:40 – Spiral Galaxy [Symbol], Aquarius
Described by The New Yorker as “a vibrantly broad-minded new-music group,” Opus 21 features works by composers from many different genres, including contemporary classical, jazz, pop, and world music, as well as those whose works fall in the hard-to-define categories in between. The ensemble was founded by composer Richard Adams and gave its debut performance at Merkin Concert Hall in New York City in Spring 2003. Opus 21 has since established itself as a truly innovative new music group, and has revamped the traditional concert-going experience by presenting side by side a diversity of art music and crossover works geared toward audiences with eclectic, wide-ranging musical tastes.
Comprised of virtuoso performers from diverse musical circles, Opus 21 is capable of performing works by composers from many different genres. Its programming has ranged from the contemporary classical works of William Bolcom, John Harbison, and Steve Reich, to the jazz compositions of Dave Brubeck and Fred Hersch; from the art rock music of Frank Zappa to a collaborative performance with legendary Motown pianist Joe Hunter.
The goal of Opus 21 is to create a collaborative venue for performers, composers, and audiences whose interests extend beyond a single type of music. Its programs seek to increase public awareness and understanding of art music in the twenty-first century, introduce the public to works it might not otherwise hear, and build bridges between audiences of different musical backgrounds. The group also maintains an open call for scores in order to be able to present the music of both established and emerging composers. In all its activities, Opus 21 is committed to the proposition that great music is without boundaries.
Opus 21 is an independent, not-for-profit performing arts organization.
Site: opus21.org
Finalmente, sul solito YouTube, c’è qualche novità.
Abbiamo qui un breve estratto di musica per piano di Helmut Lachenmann, compositore tedesco vivente, già allievo di Nono e Stockhausen, il cui lavoro viene spesso definito “musica concreta strumentale” per le sonorità materiche che crea, spesso anche con strumenti non del tutto ortodossi.
Qui abbiamo un breve saggio della sua ricerca sonora sul pianoforte. In questi due brevi brani, tratti da “Ein Kinderspiel” (sette piccoli pezzi per piano) del 1980, sfrutta ampiamente le risonanze create dal pedale e da cluster di tasti premuti e lasciati senza smorzatori grazie al pedale tonale.
I brani sono il num. 1 (Hänschen klein) e il num. 7 (Schattentanz).
A mio avviso l’esecuzione potrebbe essere un po’ più accurata: nel primo brano qualche acciaccatura non si sente proprio, ma Wolfgang Behrens non è un pianista professionista e comunque la sua performance è sufficientemente intensa.
Wolfgang Behrens, international commentator and author, gives a monumental performance of this contemporary work, performed in Lilienfeld, Austria, in front of a live audience. Complete with short introduction (German language).
[Notes from YouTube by kunzeo]
The work is “Ein Kinderspiel” (seven little pieces for piano) composed in 1980.
Wolfgang Behrens plays pieces 1 (Hänschen klein) and 7 (Schattentanz) only.
Floating Under Ice (aka Contemplating the Great Whale).
Un nuovo brano del nostro duo.
È un pezzo un po’ trance in cui una serie di oggetti sonori fluttua su una fascia continua.
NB: ancora una volta devo sconsigliarvi di ascoltarlo con gli schifosissimi altoparlantini del computer. Devo dire che sono stato molto indeciso se metterlo qui o meno, pensando a come sarà ascoltato nella maggior parte dei casi. Il problema è che, con altoparlanti di bassa qualità, la fascia in background maschera vari suoni e alcune frasi spariscono quasi completamente; il pezzo perde di definizione e profondità e tutto si confonde. Piuttosto scaricatelo e mettetelo su un cd. Sorry.
A trance piece by our free improvisation duo.
Please don’t listen through the little computer’s speakers.
Federico Mosconi: electric guitar, various effect processing
Mauro Graziani: Max/MSP laptop
Floating Under Ice (aka Contemplating the Great Whale) Floating Under Ice
Sawako is a sound sculptor and timeline-based artist who understands the value of dynamics and the power of silence. Beginning in video art, Sawako shifted her focus from the video camera to sound. Once through the processor named Sawako, fragments in everyday life – field recordings, instruments, voice and electronic sounds – float in space vividly with a digital yet organic texture. Her unique sonic world has been called “post romantic sound” by Boston’s Weekly Dig.
Markus Hinterhäuser performing Luigi Nono’s … sofferte onde serene … for piano and tape (1976). Maurizio Pollini, piano
Alvise Vidolin, sound technician
La prima sonata di Boulez, conposta nel 1946, eseguita da Idil Biret.
Note di programma di Jacques-Marie Lonchampt.
La prima Sonata è in due movimenti. Se conservano una certa dualità compositiva, non si tratta ovviamente più di dualità tematica ed ancora meno armonica, come era il caso nella definizione “classica” della sonate, bensì piuttosto del confronto tra diversi tipi di scritture, che si oppongono per il tempo, l’intensità, il fraseggio e si raccolgono in sezioni contrastanti.
Il primo movimento, “lento”, comincia con la presentazione di quattro elementi molto semplici: intervallo (in questo caso, sesta), appoggiatura, suono isolato e tratto incisivo, che si oppone agli altri tre altri per la sua aggressività, che contrasta con la morbidezza dell’insieme. Quest’elementi si combinano in uno sviluppo generalmente calmo, a volte interrotto da una caratteristica rabbia, che chiuderà questa sezione in un soprassalto ancora più veemente. Il tratto incisivo domina la seconda parte, più nervosa, alterndosi con passaggi in staccato. Un ritorno degli elementi iniziali indica la ri-esposizione, variata ed accorciata ma chiaramente identificabile, seguita di una coda sugli stessi elementi, che vanno finalmente a sovrapporsi in un ampio aggregato, seguito in modo inatteso di un ultimo ritorno, pianissimo, quasi beffardo rispetto alla caratteristica iniziale.
Il secondo movimento comincia con un gioco di “ping-pong” staccato tra i diversi registri, simile alle variazioni opus 27 di Webern. In seguito si assisterà ad una lunga lotta tra una sorta di toccata, che esplora nervosamente in un movimento vivo e regolare tutta la tastiera, ed i passaggi più legati e annegati nel pedale, quasi dei “mobiles” armonici che vanno della dolcezza a un’espressione più intensa. La conclusione del movimento, interrotta inizialmente da silenzi, finora rari, cederà in extremis il posto ad un ultimo ritorno della toccata.
Fontana Mix e Aria sono due composizioni di Cage del 1958-59 registrate qui in esecuzione simultanea e sovrapposta.
Fontana Mix è in realtà un sistema compositivo utilizzato per la prima volta nella stesura del Concerto per Piano e Orchestra (1957-58). Consiste di 10 fogli e 12 trasparenti. I fogli contengono ciascuno 6 linee curve. Dei 12 trasparenti, 10 contengono punti dispersi casualmente (7, 12, 13, 17, 18, 19, 22, 26, 29 e 30 punti), uno ha una griglia e uno ha solo una linea retta.
Piazzando i trasparenti con punti sui fogli con le curve e interpretando il tutto con l’aiuto della linea retta e della griglia, si possono ottenere indicazioni compositive.
Con questo metodo, nel 1958-59, Cage ha realizzato, presso lo studio di fonologia della RAI di Milano con l’assistenza di Marino Zuccheri, i due nastri che tradizionalmente compongono Fontana Mix.
Con lo stesso metodo, ha anche composto Water Walk Sounds of Venice, Aria, Theatre Piece e WBAI. Quest’ultimo altro non è che una serie di indicazioni liberamente combinabili per la regia del suono in brani che coinvolgono registratori, controlli di volume/tono e altoparlanti ed è spesso usato nella realizzazione di Fontana Mix.
Aria (1958) è una partitura di 20 fogli ognuno dei quali dura un massimo di 30 secondi. Il testo impiega vocali, consonanti e parole in varie lingue. La notazione consiste di linee ondulate in vari colori e 16 quadrati che rappresentano rumori vocali. I color denotano differenti stili di canto, determinati dall’esecutore.
Flora (1989) di Tod Machover è un brano audio/video in cui la parte audio è una sovrapposizione ed elaborazione della voce del soprano Karol Bennett.
Ne risulta un contrappunto dal sapore un po’ arcaico che evolve in nuvole di suoni elettronici e moduli ritmici.
Commissionato dalla Fuji Television, la parte video (non disponibile qui) è stata creata dal computer graphics artist Yoichiro Kawaguchi.
This piece was composed by Tod Machover in 1989, on commission from Fuji Television in Tokyo, and as a collaboration with Japanese computer graphics artist Yoichiro Kawaguchi. The music does not attempt to slavishly follow the content or progression of his video; rather it uses Kawaguchi’s astonishing mixture of abstract, synthetic images and organic, life-like evolution as a metaphor for the musical composition, where melodies become splintered, and voices turn into electronic clouds and snap back again into lively rhythmic punctuations.
Dancing in the S.N.O.W. with Tanks (danzando nella neve con carri armati) è un altro brano del nostro duo che accosta le vibrazioni delle campanine ortodosse a sonorità di tipo industriale.
Il titolo viene da un mio antico ricordo: quello di un monastero ortodosso con intorno un parco, la neve alta, il vento e il fruscio dei passi della gente che si avvia verso la chiesa mentre diverse campanine suonano ripetutamente creando un sottofondo continuo, ma fuori, subito al di là del parco, si muovono carri armati.
Alla fine, quando i carri hanno preso posizione e i soldati entrano nel parco, io e la mia interprete siamo gli unici rimasti fuori ed è calata una pace minacciosa, ma sensibile, tanto che anche i soldati avanzano lentamente, attenti a non fare rumore…
(ciò non toglie che immediatamente dopo sequestrano la mia macchina fotografica e riducono la pellicola a un groviglio di plastica accartocciata)
NB: con la banda ridotta degli schifosissimi altoparlantini del computer se ne sente metà (forse meno). Mancano i bassi e gli acuti estremi e sia le fasce continue che gli intermezzi rumoristici perdono completamente di profondità. Sorry.
Federico Mosconi: electric guitar, various effect processing
Mauro Graziani: Max/MSP laptop
Una lunga e bella improvvisazione di Tania Chen (pno) & Li-Chuan Chong (laptop) distribuita dalla netlabel Interlace.
Apprezzo molto il fatto che Tania Chen, giovane ed emergente pianista e compositrice contemporanea, si dedichi anche all’improvvisazione e riesca a mantenere intatto il suo linguaggio anche in tale contesto.
A long and beautiful improvisation by Tania Chen (pno) & Li-Chuan Chong (laptop) from the site of the netlabel Interlace.
I am pleased to see that Tania Chen, young and emerging exponent of contemporary piano music, is also writing her own music and playing improvised music with piano, electronic and voice.
I colori interni di questo brano emenano da cinque citazioni dall’Apocalisse (Rivelazione IV, 3; VIII,6; IX,1; XXI,11; XXI,19-20), come lo stesso Messiaen spiega qui sotto.
I riferimenti ai canti degli uccelli si spiegano sapendo che Messiaen era anche un appazionato ornitologo. Inoltre era anche un sinesteta e precisamente percepiva colori insieme ai suoni.
The form of the piece depends entirely on colours. The themes, melodic or rhythmic and the complexes of sounds and timbres evolve like colours. In their perpetually renewed variations, there can be found (by analogy) colours that influence their neighbors, shading down to white, or toned down to black. These transformations can be compared to the superimposition of plays enacted on several stages, the simultaneous unfolding of several different stories that assume and call out for it. Plainsong Alleluias, Greek and Hindu rhythms, permutations of note-values, the bird-song of different countries were all collected and used in this work. All these accumulated materials are placed at the service of colour and of the combinations of sounds that assume and call out for it. The sound-colours, in their turn, are a symbol of the Celestial City and of Him who dwells there. Above all time, above all place, in a light without light, in a night without night… That which the Apocalypse, still more terrifying in its humility than in its visions of glory, describes only in a blaze of colours… To the song of two New Zealand birds is opposed “the abyss”, with its pedal-notes for the trombones and the resonance of tam-tams. To the cries of the Brazilian Araponga is opposed “the coloured ecstasy” of pedal points. The work ending no differently from the way it began, but turning on itself like a rose-window of flamboyant and invisible colours.
Olivier Messiaen, Les Couleurs de la Cité Céleste, per piano, 3 clarinetti, 3 xilofoni, ottoni and percussioni. Orchestre National de France, Myung-Whun Chung, Conductor
Russian sound artist Polina Voronova creates shimmering tapestries that walk the fine line between pretty and mystical. Minimal and drone oriented, her compositions are often delicate and full are bell-like tones; a city of chimes and tuning forks.
The album is free available from the Excentrica netlabel in 320kbps MP3.
Clara Rockmore (1911-1998), virtuosa del theremin, esegue l’Habanera di Ravel. Altri video di Clara Rockmore su YouTube.
Ravel’s Habanera performed by Clara Rockmore (1911-1998), the first performer to bring complete musical artistry to the theremin. Other videos from You Tube.
Holger Czukay, già bassista dei Can (uno dei più rappresentativi e originali esponenti del krautrock anni 70), oggi produce brani con largo e intelligente uso di ricevitori a onde corte.
Holger Czukay, formerly Can bass player, now plays music using short-wave transmissions.
Un altro assaggio del nostro duo di improvvisazione (che presto avrà bisogno di un nome; i suggerimenti sono graditi)
Questa volta è un brano un po’ più strutturato, nato nel giorno di S. Valentino (da cui il nome).
In seguito, abbiamo messo giù uno schema aperto del pezzo, definito in termini di suoni, azioni e atmosfere, tipo: inizia con dei tuoi suoni lunghi che io catturo, poi c’è un crescendo che si accumula in un delay e termina con questo segnale da cui si trae il ritmo successivo, etc.
Another piece from our improvised music duo (who needs a name; please suggest).
This is a more structured piece born in S. Valentine day (whence the title comes). We set up an open scheme of the piece, in terms of sounds, actions and atmospheres (the static beginning, then a crescendo ending with a well defined signal and so on).
Federico Mosconi: electric guitar, various effect processing
Mauro Graziani: Max/MSP laptop
Un primo assaggio del nostro duo di improvvisazione (quasi) totale che vi proponiamo così come è uscito in una sera di maggio.
Un brano basato su un ostinato di tre note su cui si muovono sonorità più o meno lontane che, nella mia mente, evocano suggestioni nordiche e laghi ghiacciati.
Rilassatevi e ascoltate. I commenti sono graditi.
A first taste of our duo playing improvised music.
On a three notes riff, sounds comes from away and disappear like visions in the cold landscape of a frozen lake.
The piece is proposed as we improvised it some days ago. No further elaboration.
Relax and listen. Comments are welcome.
Personnel
Federico Mosconi: electric guitar, various effect processing
Mauro Graziani: Max/MSP laptop
Sempre da UbuWeb, ecco il film di Peter Greenaway, Four American Composers (1983).
Diviso in quattro parti, è dedicato a Robert Ashley, John Cage, Philip Glass e Meredith Monk.
From UbuWeb, here is the Peter Greenaway’s film Four American Composers (1983).
The composers are Robert Ashley, John Cage, Philip Glass and Meredith Monk.
UbuWeb ha messo in linea questa pagina dedicata a John Cage da cui potete scaricare vari scritti, nonché le partiture dei Song Book I e II libro per voce.
C’è anche il testo del 1966 “How to Improve the World (You Will Only Make Matters Worse)” e vari Mesostics.
1960: John Cage esegue la sua Water Walk nella popolare rubrica televisiva I’ve Got A Secret davanti ad un attonito presentatore che lo tratta come una specie di freak.
Notate come la performance (che inizia al minuto 5) sia eseguita con grande serietà, nonostante le risate del pubblico.
Più o meno lo stesso era accaduto nel 1958 a Lascia o raddoppia (da dove, peraltro, se ne era andato con in tasca un bottino di $6000).
Here’s John Cage performing Water Walk in January, 1960 on the popular TV show I’ve Got A Secret.
Composto tra il 1987 e il 1989, Rebonds b utilizza un set misto di strumenti a membrana e wood blocks. Un aggressivo ostinato ritmico, interpolato da violenti accenti, viene via via interrotto da veloci figurazioni eseguite sui wood blocks, fino al progressivo disfacimento in forti rulli. Nella coda finale un’ulteriore linea sui wood blocks è progressivamente sovrapposta all’ostinato iniziale, in un contrappunto che evolverà nell’esasperazione sonora delle ultime misure. [Davide Anzaghi da Novurgia]
The first work in history to use brain waves to generate sound. It was composed during the Winter of 1964-65, with the technical assistance of physicist Edmond Dewan, and was first performed on May 5, 1965, at the Rose Art Museum, Brandeis University with the encouragement and participation of composer John Cage. Since then it has been performed many times by Alvin Lucier, in solo concerts and on tour in Europe and America with the Sonic Arts Union.
Electrodes are attached to the performer’s head to detect his alpha brain waves. His alpha brain waves are then transmitted by amplifiers to loudspeakers that are used to resonate percussion instruments placed around a concert hall.
Lucier wrote:
I realized the value of the EEG situation as a theater element … I was also touched by the image of the immobile if not paralyzed human being who, by merely changing states of visual attention, can activate … a large battery of percussion instruments including cymbals, gongs, bass drums, timpani, and other …
Performance realized by course members of Space, Environment & Context taught by Anne Wellmer – Generative Arts class Udk Berlin spring of 2018
Alarm Will Sound is a 20-member band committed to innovative performances and recordings of today’s music. Musical Artists-in-Residence at Dickinson College, they have established a reputation for performing demanding music with energetic virtuosity. Their performances have been described as “equal parts exuberance, nonchalance, and virtuosity” by the London Financial Times and as “a triumph of ensemble playing” by the San Francisco Chronicle. The New York Times says Alarm Will Sound is “the future of classical music.”
The versatility of Alarm Will Sound allows it to take on music from a wide variety of styles. Its repertoire ranges from European to American works, from the arch-modernist to the pop-influenced. The group fosters close relationships with contemporary composers, premiering pieces by Steve Reich, David Lang, Anthony Gatto, Cenk Ergün, Aaron Jay Kernis, Michael Gordon, Augusta Read Thomas, Stefan Freund, and Wolfgang Rihm.
La computer music compie 50 anni.
Più o meno in questi giorni, nel 1957, presso i laboratori della Bell Telephone, Max Mathews faceva i suoi esperimenti di sintesi del suono con il MUSIC I, il primo sintetizzatore virtuale della storia, l’antenato di tutti i software di sintesi usati attualmente, come CSound o Max/MSP (così chiamato proprio in suo onore).
Nonostante non sia stato il primo caso di musica generata dal computer (in Australia il computer dello CSIRAC fu programmato per produrre musica già nel 1951), i programmi di Mathews furono i primi a creare uno standard e ad essere utilizzati da una comunità di musicisti via via sempre più vasta.
Il compleanno sarà celebrato con dei concerti presso il CCRMA, alla Stanford University dove Max, che ha da poco compiuto 80 anni, ricopre la carica di professor emeritus.
ANABlog ripubblica un “vecchio” (anni ’60) lavoro di Bernard Parmegiani che vale la pena di ascoltare.
Questo brano deriva da un pezzo del 1963, VoloStries per violino e nastro. Parmegiani riprende la registrazione di questo pezzo e la riarrangia sia come sonorità, elaborandone i suoni con i sintetizzatori dell’epoca, sia rimontando le parti originali.
Sounds produced by a violin are fed into the synthesizers. The transformations they have undergone have not entirely erased their original character. Their interwoven horizontal form, their unchanging thickness, and their invariable color enable the TWO to sculpt them, to paint with them. The performers’ chisels and brushes are the modulators and filters which give them relief, color them, break them up, interchange them, lighten or darken them.
But in spite of all these manipulations, the original sound is preserved. It can still be divided: while one part of it is processed, the other remains intact. All this takes places within a framework which can be enriched on the spur of the moment with inspired finds.
John Cage’s lecture.
The lecture begins with reading of Mureau, the first part of “Empty Words”, which is based on a Thoreau text. The program concludes with a lengthy question and answer session that followed Cage’s appearance at the Cabrillo Music Festival in August 1977. It is often in addressing the public’s questions that Cage’s brilliance is most memorable, and this example is no exception. Of particular interest is his description of how he uses chance operations in his creative processes.
Una lezione tenuta da John Cage nell’agosto 1977.
Inizia con una esecuzione di Mureau, una lettura basata su testi di Henry David Thoreau, che, qualche anno dopo, diventerà la prima parte di Empty Words.
Mureau (1970) è descritto come
An I-Ching determined Collage of Quotes on Music, Sound & Silences from the Diaries of D.H.Thoreau
e in effetti il titolo è la giustapposizione della prima parte della parola Music e di quella finale di Thoreau.
Prosegue, poi, con una serie di domande del pubblico e relative risposte. Di particolare interesse, in questa seconda parte, la descrizione dell’utilizzo di operazioni casuali come parte del processo creativo.
Un altro brano di Artem’ev (Эдуард Артемьев) che mostra come la sua collaborazione con Tarkovsky non fosse poi così incidentale come alcuni sostengono.
Eduard Nikolayevitch Artemyev – Dedication To Andrei Tarkovsky
Un giusto titolo per Pasqua.
Qui abbiamo “The Perilous Night”, composto nel 1943/44 da John Cage per pianoforte preparato. Uno dei brani in cui è maggiormente evidente il carattere percussivo della preparazione del pianoforte.
John Cage – The Perilous Night (1943/44) – Benjamin Kobler prepared piano
An electroacoustic work by Alfred Schnittke published by russian label Electroshock records.
Che Alfred Schnittke avesse scritto anche della musica elettroacustica, sinceramente non lo sapevo. Ma la già citata etichetta russa Electroshock records, in questa antologia denominata “Electroacoustic Music Vol. IV,” che raccoglie musica elettroacustica russa realizzata fra il 1964 e il 1971, ha tirato fuori questo Steam, un brano di “drone music” decisamente apprezzabile.
Questo brano è stato realizato con l’ANS synthesizer, una macchina costruita in un’unica copia da Evgeniy Murzin e oggi conservata presso l’Università Lomonosov a Mosca. Vedi ANS synthesizer in wikipedia ita o eng.
Eduard Nikolayevitch Artemyev, nato il 30 Novembre 1937 a Novosibirsk, russo, è uno dei più importanti compositori dell’era dei sintetizzatori analogici (dal 1960 alla fine degli anni ’80). Dopo aver fatto parte della classe di composizione di Yuri Shaporin, presso il conservatorio di Mosca, è stato introdotto all’elettronica da Yevgeniy Murzin, uno dei primi a costruire un sintetizzatore nel 1958.
In occidente, è noto soprattutto per le colonne sonore dei film di Andrei Tarkovsky, Nikita Mikhalkov e Andrei Konchalovsky.
Grazie a Youtube, possiamo ascoltare la colonna sonora realizzata da Artemiev per Solaris di Andreij Tarkovsky, oggi ripubblicata in un CD che raccoglie estratti dai tre film di Tarkovsky musicati da Artemiev (Solaris (1972), Stalker (1979) e The Mirror (1975)), pubblicato dall’etichetta Electroshock, diretta da suo figlio Artemly.
Ovviamente tutti i suoni vengono da sintetizzatori analogici.
DAC Crowell is a 41 composer from Illinois.
He hate describing his music, but he say
As for the sound of my own work, it often employs sounds that change _very_ slowly over time. So there are a lot of drone-type elements, things which appear to repeat, and the like…but the real fact is that there are very slow permutations going on, usually at a rate slower than most listeners’ perceptions. I also like a very ‘immersive’ sound, something which surrounds and envelops the listener. At first, this might seem like I’m trying to do something ‘New Age’, but I don’t think the term applies at all because I often like to add ‘noisy’ elements to my works, or use an overall feel that’s darker than the average fluffy New Age sound.
DAC Crowell è americano. Ha 41 anni e compone dei brani in lenta evoluzione pubblicati dalla netlabel Magnatune. Ha studiato.
Nella sua pagina in Magnatune trovate molte informazioni.
Mi piace la sua dichiarazione di amore per le onde corte. È una cosa che da bambino ho provato anch’io: passavo ore a giocare con la radio.
Years and years ago, around the same time I was first learning piano as a small child, I also encountered the shortwave radio. It fascinated me…this box of strange sounds, pulsations, voices from other places phasing in and out. And then later in the 1960s, I heard the first stirrings of the Moog synthesizer…and others as well, as I attended a concert given by David Rosenboom while still in the second grade, with him performing his meditative style of electronics on a massive ARP 2500 rig. I suppose it was that formative experience that cemented what I was to try and do in my life.
In risposta a erri e max su Musica in via di estinzione?
Avete ragione entrambi.
Il punto è che prendersela con il conservatorio è come sparare sulla croce rossa. Almeno qui da noi. In altri stati, fare musica contemporanea in conservatorio è più facile
È un dato di fatto che i programmi (soprattutto quelli di storia della musica) vanno aggiornati. Attualmente arriviamo all’assurdo che ho trovato una mia allieva prossima ventura (almeno credo), laureata al DAMS ma non ancora diplomata in strumento e passata da me per informazioni sul biennio, più preparata sulla musica contemporanea rispetto a molti di quelli che mi arrivano con un diploma di strumento (mentre noi dovremmo essere la scuola specialistica).
Come è un dato di fatto che quelli che lavorano in conservatorio e amano la musica contemporanea, si danno da fare per diffonderla.
Il problema, secondo me, non sono nemmeno i concerti, almeno a livello di grande città. Se uno vive a Milano, una rassegna all’anno la trova. Ok, non è tanto, ma non è di questo che mi lamento.
La cosa di cui mi lamento è la presenza in internet. Ormai internet è il mezzo principale di circolazione dell’informazione e delle idee. Se su internet una cosa non c’è, per volontà o per ignavia, non esiste perché quasi nessuno può saperne qualcosa.
Facciamo qualche esempio: Continua a leggere→
Il 26 marzo Pierre Boulez ha compiuto 82 anni.
Anche noi lo ricordiamo pubblicando le battute iniziali della sua Prima Sonata per piano scritta a soli 21 anni.
Cliccate sull’immagine per ingrandire.
Ok, forse il titolo è eccessivo; in fondo la musica contemporanea può anche essere considerata un optional, però la sua situazione è piuttosto drammatica.
Principalmente a causa dell’opposizione dei discografici e degli editori, ma anche per la cecità di buona parte dei musicisti, la musica di produzione recente su internet praticamente non esiste.
Chi, come il sottoscritto, gestisce un blog dedicato alla musica sperimentale, se ne rende conto pesantemente.
L’unica musica che si trova facilmente è quella distribuita dalle netlabel. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di pop o similia, più raramente di musica sperimentale non accademica e praticamente mai di musica contemporanea accademica.
Quello di cui non riesco a rendermi conto è come i compositori possano essere così ciechi. Sui loro siti, almeno su quelli dei pochi che ce l’hanno (e già questo è indice di idiozia diffusa), molto raramente si trova un po’ di musica da ascoltare. E quando dico “un po’ di musica” intendo dire alcuni brani, interi, non un minuto su 10. Nell’Archivio Luigi Nono, tanto per fare un esempio, non c’è un solo pezzo da ascoltare.
Come pensino di incrementare il proprio seguito se nessuno può ascoltarli, è un mistero.
Nel caso della musica classica, la situazione migliora almeno un po’. Essendo ormai scaduti i diritti d’autore, se l’interprete acconsente e la sua esecuzione non è su disco, può essere diffusa, ma nel caso della musica contemporanea non è possibile, a meno che non si muova il compositore in persona, perché, a quanto pare, sia i discografici che gli editori sono sordi al riguardo.
Ora, considerate che, anche nel nostro conservatorio e fra i compositori, pochi conoscono nomi come Murail. Grisey, Crumb, Gubaidulina. Al massimo li conoscono di nome, ma non hanno ascoltato quasi nulla. E se fate un sondaggio, vedrete che anche le opere dei compositori storici (Berio, Nono…), non sono così conosciute. E non mi sembra strano: a meno di sforzi, non è possibile ascoltarli.
Recentemente, in un mondo sensibile sia alla tecnologia che all’auto-promozione, come quello americano, si nota qualche segno di cambiamento. Vari compositori, soprattutto giovani o non ancora affermati, hanno iniziato a mettere brani e partiture in rete e anche qualche europeo lo fa.
Ma è sempre troppo poco e non riesco proprio a capire perché non lo capiscano.
Il solito Anablog, specializzato in musica analogica ormai fuori catalogo, pubblica Le Voile D’Orphée, composta da Pierre Henry nel 1953.
Si tratta della prima versione, di 27 minuti. Nel 1958, infatti, venne prodotta una seconda versione, più breve (circa 15′), utilizzata nel balletto di Maurice Bejart “Orpheus”.
Questo brano è uno dei più rappresentativi della prima musica concreta, basata su filtraggi, cambi di velocità e montaggi di nastri.
Qui Henry tratta i suoni concreti in modo quasi sinfonico. A circa 50 anni di distanza, questa musica conserva intatto il senso di mistero che la ispirava.
Dal sito dell’AvantGarde Project si possono scaricare entrambe le versioni del brano in formato flac (compressione senza perdita).
An expectant hum filled the Brighton Dome as the thousand-strong audience took their seats for the world premiere of A British Symphony.
They had travelled from all over the country in the hope of hearing something extraordinary from Andrew Gant, the respected composer who is also the Queen’s choirmaster. Instead, they heard it from Barry Wordsworth, the conductor of the Brighton Philharmonic Orchestra (BPO).
Moments before the afternoon’s performance was due to begin he announced that he “did not believe” in the work and it would therefore be hypocritical to perform it. Gant’s patriotic homage to the British Isles had been replaced by Mendelssohn’s Italian Symphony.
[from The Times]
So, what do you think about. Please, vote and/or drop a line.
Secondo il Times del 10 marzo, Barry Wordsworth, direttore stabile della Brighton Philharmonic Orchestra si è rifiutato di dirigere un brano del compositore e organista contemporaneo Andrew Gant intitolato A British Symphony. Il tutto è accaduto il 25 febbraio, a poche ore dalla rappresentazione (nel programma della serata, il brano è stato sostituito dalla Sinfonia Italiana di Mendelssohn).
Per spiegare il proprio comportamento Wordsworth ha dichiarato che “non credeva nel pezzo”.
L’ambiente si è diviso in due partiti: quelli che lodano l’onestà intellettuale e quelli che criticano la mancanza di professionalità.
Così, d’istinto, mi viene da iscrivermi al primo (semmai criticando il fatto che non lo abbia detto prima), ma poi ho pensato alle volte in cui ho fatto l’esecutore in qualche brano di musica elettronica che non mi piaceva più di tanto, sempre sforzandomi di fare bene quello che andava fatto e magari cercando di metterci qualcosa che me lo facesse amare almeno un po’ e così non sono più tanto sicuro.
Voi che ne pensate?
Provo a lanciare un altro poll. Naturalmente potete anche commentare.
faune & seis tormentas together in this release titled “zone de guerre” (2006) for the netlabels unshell records and pathmusick by Alex Cortex.
faune e seis tormentas insieme in questo “zone de guerre” del 2006 per le netlabel unshell records e pathmusick di Alex Cortex.
Trovo affascinanti queste fasce sonore composte di pochissimi elementi in perpetuo loop, quasi un residuo di qualcosa che è già stato a cui noi non abbiamo assistito e di cui non sappiamo nulla.
In effetti questa situazione mi ricorda un po’ Stalker, non tanto il film di Tarkovskij, quanto il racconto da cui è tratto: quel Picnic sul ciglio della strada (1971) dei fratelli Arkadi e Boris Strugackij
Come dopo un picnic sul ciglio della strada, a metà del viaggio fra una galassia e l’altra, gli extraterrestri hanno mollato i propri avanzi sul prato. “Avanzi” che hanno cambiato radicalmente leggi fisiche e natura di quei luoghi..
The Well-Tuned Piano (iniziato nel 1964, eseguito in prima assoluta a Roma nel 1974 e in fondo sempre in progress) è l’opus magnum di La Monte Young, il lavoro in cui molte delle sue teorie si cristallizzano e prendono forma.
Un pianoforte, il vecchio Bosendorfer dello stesso La Monte Young accordato secondo una delle possibili varianti della scala naturale (just intonation) assume sonorità molto particolari. L’accordatura esatta rimase segreta per 27 anni, fino a quando, nel 1991, Kyle Gann ne decodificò 10 note su 12 usando un computer, un DX7 e un CD player.
Perché solo 10? Perché una nota (il SOL#) non viene mai utilizzata e un’altra, il DO#, appare solo una volta in più di 5 ore di esecuzione. Comunque, a questo punto, l’accordatura venne resa nota e risultò essere come segue (riporto la tabella dal link di cui sopra, aggiungendo una riga):
Notes:
Eb
E
F
F#
G
G#
A
Bb
B
C
C#
D
Ratios:
1/1
567/
512
9/8
147/
128
21/
16
1323/
1024
189/
128
3/2
49/
32
7/4
441/
256
63/
32
Cents:
0
177
204
240
471
444
675
702
738
969
942
1173
Temp Cents:
0
100
200
300
400
500
600
700
800
900
1000
1100
Come si può notare osservando la linea “Cents”, che rappresenta l’accordatura delle singole note espresse in centesimi di semitono (100 cents = 1 semitono temperato), le differenze con l’accordatura temperata (quella comunemente usata, espressa nella linea “Temp Cents”) sono notevoli. Praticamente soltanto la 5a e la 2a maggiore sono invariate.
Vale la pena di ricordare che l’accordatura naturale (just intonation) si ottiene trasponendo all’interno dell’ottava gli armonici naturali. Il punto è che la maggior parte delle note si possono ottenere partendo da parecchi armonici, con intonazione leggermente diversa. La scelta determina la qualità della scala e il grado di frizione degli accordi costruita su di essa.
La sonorità della scala naturale, comunque, è migliore rispetto alla scala temperata (più naturale, appunto). Il prezzo da pagare, però, è immenso, almeno dal punto di vista della musica occidentale: funziona bene solo in una, massimo due tonalità. Addio alle modulazioni, che invece sono una pratica fondamentale nella nostra musica.
In questo estratto di alcuni minuti (sulle quasi 6 ore dell’opera), tratto dalla sezione iniziale, si può sentire come La Monte Young la utilizzi per costruire dapprima armonie ripetitive e poi nuvole di suoni a pedale quasi sempre premuto, dando vita a una serie infinita di risonanze che avvolgono l’intera trama.
Un altro buon lavoro di Steve Layton per sole percussioni, “The Place of the Solitaires” del 2007, concettualmente collegato con un brano precedente, sempre per percussioni, “The Pulling into the Sky”, scritto due anni prima.
Rispetto al precedente, questo nuovo movimento utilizza anche un set di percussioni melodiche: campane, marimba e vibrafono.
Il titolo si ispira a un poema di Wallace Stevens, che riportiamo, e che, secondo Steve, spiega il brano meglio di ogni altra cosa (…un luogo di perpetuo ondeggiare…)
Let the place of the solitaires
Be a place of perpetual undulation.
Whether it be in mid-sea
On the dark, green water-wheel,
Or on the beaches,
There must be no cessation
Of motion, or of the noise of motion,
The renewal of noise
And manifold continuation;
And, most, of the motion of thought
And its restless iteration,
In the place of the solitaires,
Which is to be a place of perpetual undulation.
Il giorno in cui qualcuno si laurea con una tesi su John Cage seguita e ispirata dal sottoscritto deve essere celebrato, per cui mettiamo questo post.
All’inizio del 1947 John Cage scrisse The Seasons, un Balletto in un atto pensato per la compagnia di Merce Cunningham che la portò in scena nello stesso anno con scene e costumi di Isamu Noguchi.
Il brano prende la forma di una suite in 9 movimenti: Prelude I – Winter – Prelude II – Spring – Prelude III – Summer – Prelude IV – Fall – Finale (Prelude I).
Si tratta di una composizione dolce e lirica che, come le Sonate e Interludi e lo String Quartet, si ispira, concettualmente, all’estetica indiana nella quale l’inverno è visto come uno stato di quiete, la primavera come creazione, l’estate come conservazione e l’autunno come distruzione.
È uno di quei pezzi in cui Cage tenta di “imitare il modo di procedere della natura”, altra idea tratta dalla filosofia indiana e il brano, pur nella sua complessità ritmica, ha un andamento ciclico, con la fine che equivale ad un nuovo inizio. Così anche Cage, come altri compositori, ha le sue stagioni in cui le cose nascono, crescono, mutano e si distruggono, ma qualche volta ritornano.
In realtà The Seasons esiste in due versioni. Quella per piano solo venne composta per prima e in seguito Cage la orchestrò con l’aiuto di Lou Harrison and Virgil Thomson.
Qui potete ascoltare lo stesso estratto (Prelude I e Winter) in entrambe le versioni e apprezzare le differenze di uno stesso testo affidato prima alla concentrazione monotimbrica del pianoforte in cui, proprio per questo, l’interprete deve giocare su sottili sfumature coloristiche e poi alla pluralità di suoni dell’orchestra, più ricca, ma anche meno definita dal punto di vista ritmico e armonico.
John Cage – The Seasons (1947)
solo piano version – Margaret Leng Tan, pianoforte
orchestral version – BBC Symphony Orchestra conducted by Lawrence Foster
Difficile scrivere poche righe su La Monte Young.
Nato nel 1935, considerato come uno dei primi minimalisti e celebrato dalla suddetta scuola, sebbene formalmente abbia molto poco in comune con compositori come Glass e Reich, i suoi lavori sono considerati fra i più importanti e radicali nel panorama dell’avanguardia post-bellica e sperimentale.
Ispiratore del gruppo Fluxus, le sue composizioni concettualmente minimali investono la stessa definizione di musica. Molti dei suoi pezzi, infatti, sono costituiti da un eterno bordone.
Ricordo che, nella mia ormai lontana gioventù, 8) rimasi colpito da una sua partitura costituita unicamente da due note in 5a (mi pare SI e FA#), con la scritta “to be held for a long time”. Probabilmente il brano più lungo con la partitura più corta mai composto.
Rimasi anche colpito da una sua riflessione che investiva la nostra considerazione del tempo:
Se un giro di blues dura 12 battute, perché non può durare 12 giorni? 4 giorni in DO, 2 giorni in FA…..
Autore del Well Tuned Piano (il pianoforte ben temperato), un’opera monumentale per piano solo accordato secondo la scala naturale (just intonation), la cui durata in alcune esecuzioni supera le 6 ore ed è documentata in una edizione in 5 CD da Grammavision (e poi in DVD per la sua etichetta Just Dreams), è stato un pioniere dello studio degli effetti generati da intervalli musicali naturali mantenuti a lungo e insieme con Marian Zazeela ha realizzato una serie di Dream Houses, ambienti in cui si combinano i suoi tappeti di onde sinusoidali in just intonation con le sculture di luce in forme simmetriche e quasi calligrafiche di Zazeela.
Ha anche studiato musica classica indiana con Pandit Pran Nath a cui è dedicato questo brano composto unicamente da un bordone di tampura e messo in linea da AnaBlog.
È lungo e sempre uguale e ricordate, se un suono non vi piace è perché non l’avete ascoltato abbastanza.
Un altro brano di Takemitsu con sonorità decisamente notevoli.
Questo pezzo fa parte della colonna sonora del film Kwaidan (怪談, Kaidan: Storie di Spettri) diretto da Masaki Kobayashi nel 1964, un lavoro considerato un po’ come The Twilight Zone giapponese, anche se questa definizione non è del tutto appropriata. Si tratta di quattro storie di spettri tratte dalle raccolte di leggende giapponesi di Lafcadio Hearn.
Qui la musica di Takemitsu si fa onirica e perde anche le sue connotazioni orchestrali. Non ci è dato conoscere la formazione, anche perché questi brani non sono pensati per essere eseguiti dal vivo. Si indovinano sonorità percussive e di strumenti tradizionali giapponesi, ma a tratti il suono fa anche pensare a qualche elaborazione elettronica.
Grande lavoro di sound design per un film affascinante.
Che Stockhausen, Xenakis, Ligeti, Boulez, Cage e molti altri del genere avessero uno spazio su MySpace non lo avrei mai detto, ma la fede dei fans è grande e accade anche questo.
La cosa è stata portata alla mia conoscenza dai colleghi bloggers di sounDesign in questo post (c’è anche una interessante proposta cageana).
Naturalmente, nello spazio dedicato a John Cage, uno dei brani ascoltabili è il solito 4’33″… (ma anche la delicatissima Music for Marcel Duchamp). Ovviamente non ho resistito e ho lanciato l’ascolto dell’infame brano silenzioso L’ho ascoltato guardando l’indicatore del traffico di rete che mostrava kili e kili di zeri viaggiare da MySpace al mio computer.
4’33” è il pezzo di Cage più scambiato in rete, è in vendita su iTunes a $ 0.99, è stato oggetto di una causa: tonnellate di banda usate ogni giorno per trasmettere il nulla…
Se però penso agli skirillioni di bytes che viaggiano ogni ora per trasmettere idiozie, preferisco di gran lunga il nulla, che, come il vuoto quantico, è un nulla che non è vuoto.
Il vento dell’Oriente e il vento dell’Occidente si incontrano in America e producono un movimento ascensionale nell’aria; lo spazio, il silenzio, il nulla che ci sostiene…
Toru Takemitsu (武満 徹, Takemitsu Tōru, Tokyo, 8 ottobre 1930 – Tokyo, 20 febbraio 1996) è stato un personaggio chiave nella musica contemporanea giapponese. È il compositore che, più di ogni altro, è riuscito a coniugare le innovazioni stilistiche della nuova musica occidentale con le sonorità e a tratti anche lo spirito della musica tradizionale giapponese (ma non le forme: “Non amo usare melodie giapponesi come materiale. Nessuna forza… nessuno sviluppo. Le melodie giapponesi sono come il Fuji – belle ma eternamente immobili”).
Non rifiutò però di utilizzare gli strumenti della tradizione giapponese, inserendo in molte opere, sia orchestrali che da camera, biwa (un liuto a 4/5 corde e 4/5 tasti) e shakuhachi (il flauto traverso tradizionale).
L’anima giapponese di Takemitsu è presente, però, in maniera forse anche più significativa e profonda, ossia nell’astratto, nella filosofia, nell’ideologia che aleggia fra le sue note (notare anche l’importanza del silenzio o la concezione di un brano come libero flusso musicale non strutturato).
Takemitsu non crea, quindi, una semplice fusione di due stili, quello occidentale e quello orientale, ma ne crea uno nuovo, frutto di una piena conoscenza dei due, nel quale è impossibile fare divisioni accurate. Il compositore giapponese sembra quindi coronare il suo desiderio di “nuotare nell’oceano che non ha né Oriente né Occidente”, desiderio all’insegna di una visione a 360 gradi della musica
Nella sua formazione musicale, Takemitsu fu quasi totalmente un autodidatta; subì molte influenze dalla musica francese, in special modo da autori come Claude Debussy e Olivier Messiaen.
Scrisse anche circa 100 colonne sonore per film come Ran di Akira Kurosawa (1985) e l’incredibile Kuroi ame (Pioggia nera) di Shohei Imamura (1989), sul dopo-Hiroshima.
Recentemente l’Avant Garde Project ha iniziato a distribuire vari brani di Takemitsu ormai fuori catalogo in occidente, disponibili in formato FLAC (compressione senza perdita, quindi di qualità massima) in questa pagina.
Forse non fra i pezzi più famosi, ma sempre belli. Questo Asterism (1968), per piano e orchestra con una sezione di percussioni allargata, “rispettosamente dedicato a Yuji Takahashi e Seiji Ozawa”, è un brano composito in cui convivono una scrittura fatta di figurazioni quasi esplosive per pianoforte, arpa e glockenspiel accanto ad accordi impressionisti nel registro alto degli archi e accordi di ottoni in stile Messiaen, fino al finale in cui, dopo un crescendo di pattern ciclici quasi scoordinati, la musica entra in uno stato di sospensione in cui emerge una tessitura trasparente che sfuma nel silenzio, fino all’ultima, singola nota del piano.
Toru Takemitsu – Asterism (1968), per piano e orchestra
Toronto Symphony Orchestra – Seiji Ozawa (conductor) – Yuji Takahashi (piano)
MAKI ISHII was born in 1936 into an artistic family. In 1958 he settled in Germany, studying at the National Musical Academy in Berlin. He has written orchestral music (“Transition”), chamber works (“Aphorisms”), and electro-acoustic music.
KYOO was composed in 1968 and won an award at the National Arts Festival. The title, which means “echoes,” refers to the formal concept of the work: one sound giving rise to a family of sounds which in their turn engender other families, etc. There are various sound sources: piano, brass, percussion, and electronic devices. The instrumental sounds are heard sometimes in their original form and sometimes transformed electronically. The piano in particular is treated in a variety of ways: played normally, played according to the techniques of the “prepared piano,” and finally amplified and transformed instantaneously through microphones installed inside the frame.
KYOO è stato composto nel 1968 da MAKI ISHII (1936).
Il titolo significa echi ed è collegato alla forma del brano: ogni suono dà vita a una famiglia di suoni simili e da uno di qusti si parte per creare un nuovo insieme sonoro in una catena in continua mutazione sul filo delle analogie acustiche.
Le sorgenti sonore sono sia elettroniche che strumentali, queste ultime in forma sia strumentale che elaborata elettronicamente. Il pianoforte, in particolare, è trattato in molti modi: preparato, ampificato e elaborato in tempo reale tramite dei microfoni inseriti nella sua struttura.
Messiaen – Oiseaux éxotiques
Orchestra: Royal Concertgebouw Orchestra conducted by Riccardo Chailly
Pianist: Jean-Yves Thibaudet
Score is in C and written at octave.
Per gli amanti di Philip Glass ecco una playlist di Einstein on the Beach (1976), secondo me il punto più alto della sua carriera, eseguita dallo stesso Glass e dal suo ensemble.
Lunedì 12/2 alle ore 18, Staffan Mossenmark, compositore e sound-artist svedese, farà una presentazione del suo lavoro nell’Aula Magna dell’Accademia Cignaroli in Via Montanari (vicino a piazza Cittadella).
Questo evento servirà anche per inaugurare il progetto “VERONA RISUONA” che si svolgerà nei prossimi mesi e si concluderà alla fine di aprile.
Nell’immagine: Staffan Mossenmark impegnato nella performance Wroom!, mentre dirige 100 Harley Davidson nella piazza di Copenhagen. Click qui per ingrandire.
Psappha (1975) di Iannis Xenakis eseguita da Adélaïde Ferrière.
Psappha è la versione arcaica del nome di Saffo (Sappho), poetessa dell’antichità (VII sec. ac), che inventò il principio astratto di variazione (metabole) su unità metriche (ritmiche) dette saffiche.
Nella sua prima composizione per percussioni sole, Xenakis decide di concentrarsi unicamente sul ritmo. Soltanto la cassa, infatti, è esplicitamente specificata in partitura, mentre gli altri strumenti sono indicati soltanto come diverse classi di timbri (pelli, legno, metallo, ogni zona deve essere disponibile in 3 registri).
A partire da questa organizzazione, Xenakis sovrappone diversi moduli ritmici, a strati, fino a livelli di complessità molto elevata.
Psappha è suddivisa in 5 sezioni, ognuna caratterizzata da diversi moduli di tempi, timbri e tessiture. Vi sono passaggi in cui la pulsazione continua in modo regolare, colorata da accenti timbricamente diversi. Altri in cui, per contrasto, la pulsazione apparentemente scompare e le frasi si dissolvono in gruppi di suoni di densità variabile.
Gérard Grisey – Quatre chants pour franchir le seuil per soprano e 15 strumenti (1996-1997).
Quasi una premonizione, l’ultima composizione di Grisey che morirà nel 1998.
Ho concepito i Quattro Canti per superare la soglia come una meditazione musicale sulla morte in quattro aspetti: la morte dell’angelo, la morte della civilizzazione, la morte della voce e la morte dell’umanità. I quattro movimenti sono separati da brevi interludi, polveri sonore morbide, destinati a mantenere un livello di tensione leggermente superiore al silenzio educato ma rilassato che regna nelle sale di concerto tra la fine di un movimento e l’inizio del seguente. I testi scelti appartengono a quattro civilizzazioni (cristiana, egiziana, greca, mesopotamia) ed hanno in comune un discorso frammentario sull’inevitabile della morte. La scelta della formazione è stata dettata dall’esigenza musicale di opporre alla leggerezza della voce di soprano una massa grave, pesante e tuttavia suntuosa e colorata.
I 4 canti:
Prelude: La mort de l’ange – D’après Les heures de la nuit de Christian Guez-Ricord
Interlude: La mort de la civilisation – D’après les Sarcophages égyptiens du Moyen Empire
Interlude: La mort de la voix – D’après Erinna
Faux Interlude: La mort de l’humanite – D’après L’Épopée de Gilgamesh
Il testo della prima parte, tratto da Les Heures de la Nuit di Christian Guez-Ricord (La Sétérée, Jacques Clerc Editeur, 1992)
De qui se doit de mourir comme un ange ……………….
comme il se doit de mourir comme un ange je me dois de mourir moi-même
il se doit son mourir son ange est de mourir comme il s’est mort comme un ange
Fa un certo effetto vedere insieme due leggende della musica del ‘900: Edgar Varèse (sin.) e John Cage (centro) con il percussionista Max Neuhaus (des.) in una foto ormai sgranata pubblicata sul New York Times (September 1, 1963).
Io non sono un fan della musica minimale, però questo Piano phase di Steve Reich del 1967 è importante e coinvolgente. Si tratta del primo brano totalmente strumentale in cui Reich utilizza la tecnica del phasing, fino ad allora usata solo in elettronica.
Il phasing può essere descritto semplicemente come il suonare due frasi identiche con una leggera differenza metronomica (l’una appena più veloce dell’altra). Di conseguenza le due frasi dapprima suonano all’unisono. Poi, quando la differenza è ancora molto piccola, si ha una strana percezione, come se le note si allungassero o avessero un riverbero. In seguito la differenza diventa chiaramente percepibile: la melodia si sdoppia anche come numero di note (2 note nel tempo di una). Infine la melodia ritorna in fase, ma mentre un pianista suona la prima nota, l’altro suona la seconda: abbiamo così dei bicordi al posto dell’unisono iniziale.
In questo brano il processo continua attraverso vari stadi di fase e controfase, fino a quando i due pianisti sono sfasati al punto in cui la prima nota dell’uno si sovrappone all’ultima dell’altro. Così una frasetta di 12 note genera un brano di circa 20 minuti.
Fino ad oggi, il brano era per due pianoforti e due pianisti in primo luogo perché le note sono le stesse e in secondo luogo perché, pur essendo la frase molto facile, sembrava impossibile che una persona sola potesse suonarla a due velocità di poco diverse. Invece in questa esecuzione dell’ottobre 2006, il russo Peter Aidu fa tutto da solo, creando i due flussi sonori con le due mani su due pianoforti (e candidandosi per il premio schizo – scherzi a parte, quello che fa è neurologicamte pazzesco, anche perché, mentre i due pianisti usano entrambi la destra, lui non può).
More in this Internet Archive page.
Disgraziani fa parte dell’onda iconoclasta del 1982, quando improvvisavamo, Zoo Zorzi ed io, sezionando e distruggendo tutte le strutture melodico/armoniche che ci capitavano sottomano.
Nella presentazione in concerto, infatti, dicevo: “il brano inizia con dei bei suoni di chitarra con arco, che io elaboro facendoli diventare via via sempre più brutti, fino a quando assomigliano solo a disturbi radio”, esternando l’intenzionalità distruttiva.
Ovviamente, nel corso di questa azione altre strutture emergevano, si formavano e scomparivano. Qualcuna riusciva anche a farsi largo ed esistere, come accade per l’arpeggio finale (vedi schema tecnico nell’immagine sotto; partite dalla bolla verde e procedete in senso orario).
I nostri pezzi, quindi, erano pieni di spettri e di presagi, fantasmi di un passato o rovine su cui costruire qualcosa.
Questa registrazione è proprio quella della prima esecuzione che si è tenuta in una galleria d’arte, intorno al 10 Giugno del 1982 (anche questo per alcuni è un presagio).
Mi dà una strana sensazione pensare che, nel 2022, Disgraziani compirà 40 anni. Ascoltandolo adesso, lo trovo melodico. Come diceva Cage, tutto, prima o poi, è destinato a diventare melodico.
Il titolo è frutto della mente bacata di Zoo :). Le nostre prove erano costituite da improvvisazioni totali, senza alcun accordo preliminare, che venivano registrate. Poi, riascoltando, lui diceva “che pacco, questo” e io dicevo “allora lo suoniamo in concerto”. La nostra misura della validità dei brani era quanto potevano essere temibili per l’ascoltatore.
Poi chiedevo “come lo intitoliamo, questo?” e quella volta Zoo rispose
Disgraziani!, quello che ci dirà la gente…
Graziani/Zorzi – Disgraziani! (1982) – Free improvised music by Mauro Graziani synth, electronic devices, loop control & Roberto ‘Zoo’ Zorzi electric guitar, devices
Désintégrations (1983), per orchestra da camera e nastro magnetico è uno dei lavori più rappresentativi di Tristan Murail e della musica spettrale.
Désintégrations è stata composta dopo un lavoro approfondito sul concetto di “spettro”. Tutto il materiale del brano (sia il nastro che la partitura orchestrale), le sue microforme, i suoi sistemi d’evoluzione, deriva dalle analisi, dalle decomposizioni o dalle ricostruzioni artificiali di spettri armonici o inarmonici.
La maggior parte di questi spettri è d’origine strumentale. Suoni di bassi piano, di ottoni, di violoncello sono stati particolarmente utilizzati.
Il nastro magnetico non cerca di ricostituire suoni strumentali. Questi ultimi fungono soltanto da modelli o da materiale per la costruzione di timbri o di armonie (per me del resto c’è poca differenza tra queste due nozioni), ed anche per la costruzione di forme musicali.
Molti tipi di trattamenti degli spettri sono usati nel brano:
Frazionamento: si utilizza soltanto una regione dello spettro (ad esempio, suoni di campana dell’inizio e della fine ottenuti con frazionamento di suoni di piano).
Filtraggio: si evidenziano o si eliminano alcune componenti.
Esplorazione spettrale (movimenti all’interno del suono): si ascoltano le parziali una dopo l’altra, il timbro diventa melodia (ad esempio, nella terza sezione, suoni di piccole campane che provengono dalla disintegrazione di timbri di clarinetto e flauto).
Creazione di spettri inarmonici, “lineari” per somma o sottrazione di una frequenza (per analogia con la modulazione in anello o la modulazione di frequenza), “non lineari” con torsione di uno spettro o descrizione di una curva di frequenze (ad esempio, nella penultima sezione, torsione progressiva di un suono di trombone grave).
Il nastro è stato realizzato con sintesi additiva: si descrive in tutte le proprie dimensioni ogni componente di un suono. Questo permette di agire sugli spettri in modo estremamente preciso ed analitico e avvicinare processo di sintesi e processo di composizione, a tal punto che il nastro è stato veramente “scritto” prima di essere realizzato.
La scrittura orchestrale ha anche beneficiato della potenza dell’elaboratore, per la definizione delle altezze e delle durate ed anche per il disegno di alcune microforme. Nastro e strumenti procedono dunque dalla stessa origine e sono in relazione di complementarità. Spesso, il nastro evidenzia il carattere degli strumenti, diffrange o disintegra il loro timbro, o amplifica gli effetti orchestrali. Deve essere perfettamente sincrona, da cui la necessità di “clic” di sincronizzazione che il direttore deve seguire.
Le due fonti, strumentali e sintetiche, sono quasi sempre fuse e contribuiscono a creare momenti sonori o percorsi musicali nuovi; il discorso musicale gioca spesso sull’ambiguità tra queste due fonti, essendo lo scopo ultimo di cancellare ogni differenza fra dei mondi sonori a priori distinti.
La musica procede seguendo dei percorsi più che per sezioni distinte. Ogni momento mette l’accento su un trattamento spettrale particolare, ogni percorso fa evolvere variamente la materia musicale, tra armonicità ed inarmonicità, ombra e luce, semplicità e complessità. Contorni precisi sorgono da oggetti fluidi, l’ordine sorge da caos ritmici, i suoni evolvono incessantemente, si deformano cambiando natura…
Tristan Murail – Désintégrations (1983), per orchestra da camera e nastro magnetico
Il canto armonico (Overtone singing) è una modalità di emissione vocale in cui il/la cantante manipola le risonze che si creano nel tratto vocale (quello che si trova tra le corde vocali e la bocca) per evidenziare gli armonici della propria voce (per gli addetti, manipola i formanti).
Difficile da spiegare, ma semplice da capire perché, a basso livello, lo facciamo tutti, quando passiamo da una vocale all’altra (provate a dire aaaaaeeeeeiiiiiioooooouuuuu).
Ecco due esempi eseguiti da Mark van Tongeren, il primo molto semplice, il secondo più complesso.
Questo modo di utilizzare la voce, sia pure con diversi stili e tecniche, è diffuso in Asia Centrale (Tuva, Mongolia, Altai), fra le popolazioni nordiche (eschimesi del Canada, Lapponi) ed esiste anche in Barbagia.
Le tecniche sono varie. Queste popolazioni spesso lo utilizzano per creare un certo tipo di polifonia, pur con una sola voce come in questo esempio in cui si sente distintamente una nota alta che si muove sopra a quella di base.
In occidente, la pratica di un canto armonico rilassato e meditativo si è diffusa in seguito al rinnovato interesse verso l’oriente risalente alla fine degli anno ’60. Stockhausen è stato uno dei primi autori “colti” a utilizzarlo nella sua composizione “Stimmung” del 1968 (di cui abbiamo già parlato; ecco un esempio audio e alcune note), ma poi si sono formati vari gruppi di praticanti.
Qui vi presentiamo alcuni estratti di Spectral Voices, un gruppo americano che arricchisce i propri brani con il riverbero naturale di una enorme cisterna un tempo usata come acquedotto.
Vari altri esempi e una trattazione più tecnica del canto armonico si trovano su Tertium Auris, un blog specificamente dedicato all’analisi vocale e alla sperimentazione sonora.
That Goodbye è una elaborazione del primo verso tratto dalla poesia “Do not go gently into that goodnight” di Dylan Thomas, letto dall’autore e tratto da una registrazione d’epoca.
L’idea di questo brano è di mettere a punto delle tecniche tali per cui la parola via via si “consumi” diventando lentamente puro suono.
Ora, una delle cose che mi hanno sempre affascinato è l’eco. Ma l’eco è una ripetizione (quasi) identica all’originale. In “That Goodbye” invece, ho adottato delle tecniche di elaborazione per cui l’eco ritorna modificato sempre di più ad ogni ripetizione.
Queste tecniche consistono nell’inserire il dispositivo di elaborazione all’interno del loop che genera l’eco. Quindi il suo effetto si accumula e cresce ad ogni ripetizione che così si trasforma sempre di più rispetto all’originale.
Questo modo di comporre è abbastanza lontano dalle tecniche tradizionali. Qui, io seleziono processi di elaborazione che generano risultati di lunga durata. La composizione, a questo punto, equivale alla scelta dei frammenti sonori e dei processi di elaborazione attraverso i quali devono ‘rotolare’.
Alcuni esempi [NB: per non costringevi ad ascoltare mezz’ora di esempi, tutti gli eventi sono accelerati rispetto al loro utilizzo nel brano, nel senso che il delay è molto breve (circa 1 sec.) e quindi la frequenza delle ripetizioni è elevata per cui la trasformazione avviene nel giro di pochi secondi].
Elemento di elaborazione: riverbero
In questo esempio l’accumulo della riverberazione a ogni ciclo di loop produce un alone sempre più lungo e presente per cui il riverbero si “mangia” letteralmente il suono riducendolo alle sole frequenze di risonanza eccitate dall’input. Il collegamento con in frammento iniziale rimane in forma agogica. Sotto l’aspetto frequenziale, il risultato dipende sia dalle frequenze presenti nell’input che dalle frequenze di risonanza del riverbero.
Elemento di elaborazione: filtro
Ad ogni ciclo di loop l’input è filtrato con un passa-banda a guadagno unitario, che lascia inalterata solo la freq. di centro-banda e attenua tutte le altre. Il suono, via via, si semplifica fino a lasciare una singola sinusoide.
Elemento di elaborazione: flanger
L’effetto flanger applicato a un suono si incrementa a ogni ripetizione dando vita a battimenti di complessità crescente.
Elemento di elaborazione: ring modulator
Il modulatore ad anello, con modulante piazzata su uno degli armonici, espande lo spettro e ne cambia il bilanciamento a ogni ciclo di loop.
That Goodbye inizia con la voce di Dylan Thomas che passa attraverso un banco di 8 filtri passa-banda e viene suddivisa in altrettanti flussi audio indipendenti che rapidamente si sfasano.
Ognuno di essi si infila, poi, in una linea di ritardo con tempo differenziato rispetto alle altre (da circa 5 a circa 12 secondi). Le frequenze di taglio e la larghezza di banda dei filtri non sono regolarmente spaziate, ma sono state tarate sulle bande di maggiore attività del segnale e vanno da 100 a 5000 Hz.
In questa prima fase l’elemento di elaborazione nel loop è principalmente il riverbero che allunga il suono e lo trasfigura distruggendo le parole e trasformandolo in bande frequenziali di altezza differenziata. Le bande basse e medie hanno tempi di riverbero più lunghi (fino a 6-8 secondi) e formano rapidamente delle fasce sonore di sfondo in evoluzione su cui si muovono gli elementi più acuti.
Nella seconda fase utilizzo come input alcuni dei punti finali di trasformazione della prima che vengono inviati a delay con processing differenziati, soprattutto flanger, filtri, ring modulator e inviluppi. Questi ultimi due sono i responsabili dell’emergere di suoni tipo campana derivanti dalla trasformazione spettrale delle bande medio-alte e dall’applicazione di un inviluppo che all’inzio è lineare e si fonde con il resto, ma diventa più sensibile e differenziato via via che si fa maggiormente percussivo.
Verso la fine della seconda fase parte una terza fase che inizia sulle bande basse a cui si applicano delay con ring modulator e pitch shift sulla scala armonica dando vita a una scalata agli armonici che si espande ad ogni ciclo di loop.
Questa parte si risolve in una quarta e ultima fase che si muove quasi all’indietro nel pezzo mandando in loop i risultati di varie convoluzioni fra la frase originale e e frammenti tratti dalle tre fasi precedenti creando una serie di fantasmi del frammento di partenza.
Un lavoro importante di Crumb sono i quattro libri del Makrokosmos (1972-1974). I primi due libri sono per pianoforte solo, mentre il terzo (chiamato anche Music for a Summer Evening, parte del quale ascoltiamo qui) è per due pianoforti e percussioni ed il quarto (noto anche con il titolo Celestial Mechanics) per pianoforte a quattro mani. Il nome di questo ciclo allude ai sei libri pianistici del Microcosmos di Béla Bartók; come il lavoro di Bartók, il Makrokosmos è costituito da una serie di brevi pezzi dal carattere differenziato. Oltre a quella di Bartók, George Crumb ha riconosciuto in questo ciclo influenze di Claude Debussy, sebbene le tecniche compositive utilizzate siano molto differenti da quelle di entrambi gli autori citati. Il pianoforte viene amplificato e preparato sistemando vari oggetti sulle sue corde; in alcuni momenti il pianista deve cantare o gridare alcune parole mentre sta suonando.
Crumb – from Music for a Summer Evening (Makrokosmos III), 5 – Music of the Starry Night (1974), for 2 pianos and 2 percussionists
Author’s program notes (excerpt):
As in several of my other works, the musical fabric of Summer Evening results largely from the elaboration of tiny cells into a sort of mosaic design. This time-hallowed technique seems to function in much new music, irrespective of style, as a primary structural modus. In its overall style, Summer Evening might be described as either more or less atonal, or more or less tonal. The more overtly tonal passages can be defined in terms of the basic polarity F#-D# minor (or, enharmonically, Gb-Eb minor). This (most traditional) polarity is twice stated in “The Advent” — in the opening crescendo passages (“majestic, like a larger rhythm of nature”), and in the concluding “Hymn for the Nativity of the Star-Child”. It is stated once again in “Music of the Starry Night”, with the quotation of passages from Bach’s D# minor fugue (Well-tempered Clavier, Book II) and a concluding “Song of Reconciliation” in Gb (overlaid by an intermittently resounding “Fivefold Galactic Bells” in F#). One other structural device which the astute listener may perceive is the isorhythmic construction of “Myth”, which consists of simultaneously performed taleas of 13, 7, and 11 bars.
Non so chi siano. Il sito dell’etichetta che li distribuiva non esiste più. Su Discogs si trovano, ma non c’è niente su di lui/lei/loro.
Semplicemente costruiscono queste fascie sonore i cui titoli sono in francese. Magari non sono particolarmente geniali, ma in giro non ci sono molte cose di questo tipo.
Led by pianist Franco Evangelisti the Gruppo performed as a collective from 65 -71. The focus was to expand both the sonic capabilities of their instruments, but also the sensitivity of each performer within the context of the improvisation. The result(s) remain some of the purist and elevated abstract explorations put to tape retaining both warmth and intelligence. Piano, percussion, double bass, trombone, cello, trumpet, etc are the tools for unparalleled types of aesthetic experiences I was led through and into. This could easily be described as difficult music but only if one remains on the surface of its architecture.
Nuova Consonanza was a brilliant and prolific composer’s collective exploring extended techniques and new sound sources through the medium of improvisation. Although very much a product of its time, their music remains timeless. They were instrumental in founding a radical tradition of western musical improvisation that owed little or nothing to anybody and created some of the strangest music ever made. They were utterly unique. from John Zorn liner notes, NYC 2006
Consapevoli della rarefatta e marginale presenza della produzione contemporanea nel panorama concertistico romano degli anni ’50, un ristretto circolo di giovani compositori interessati alle avanguardie matura l’intenzione di fondare un’associazione destinata alla promozione e alla diffusione della musica contemporanea a Roma, convinti della necessità di scendere nel cuore della vita musicale romana ufficiale per far sentire una voce di dissenso e proporre nuove iniziative. Le associazioni concertistiche ufficiali, in quegli anni non favorivano la conoscenza e la diffusione della musica contemporanea se non in modo del tutto sporadico e casuale. Si delineò così la consapevolezza che soltanto muovendosi in prima persona, gestendo direttamente un’attività concertistica, in alternativa a quella esistente, potesse emergere la nuova musica. L’idea si concretizza nei primi anni ’60 ad opera di Mauro Bortolotti, Aldo Clementi, Antonio De Blasio, Franco Evangelisti, Domenico Guaccero, Egisto Macchi, Daniele Paris, Francesco Pennisi.
Il nome Nuova Consonanza, citazione di una celebre prefazione seicentesca di Ottavio Rinuccini, allude all’esigenza di aggiornamento permanente e, al tempo stesso, alla volontà di recuperare gli indirizzi marginalizzati dalle tendenze più radicali della musica internazionale.
Nata non come movimento omogeneo di pensiero, bensì come incontro di personalità molto diverse e musicalmente distanti, professionalmente già formate, Nuova Consonanza si fonda non su ideali estetici comuni, ma sulla necessità di svecchiamento della musica in Italia attraverso un’azione comune ai fini della diffusione della musica contemporanea, al di là delle posizioni personali e dei singoli itinerari linguistici.
Tra le molteplici iniziative sostenute, occupa un posto di assoluto rilievo il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza (GINC) sorto a Roma nel 1964 ad opera di Franco Evangelisti. Unico gruppo di improvvisazione formato esclusivamente da compositori, il GINC costituiva il punto di approdo di tutte le profonde mutazioni intervenute in quegli anni nel rapporto compositore-esecutore e mirava sovvertire l’assunto base dell’opera aperta (l’esecutore diventa compositore), trasformando il compositore in esecutore, attraverso un’operazione di identificazione permanente tra l’atto del comporre e l’atto dell’eseguire. Ne hanno fatto parte, accanto a Evangelisti e Carmine Pepe, un folto insieme di musicisti non italiani: Larry Austin, John Eaton, John Heineman, Roland Kayn, William O. Smith, Ivan Vandor.
Un brano acquatico ed evocativo questo Vox Balenae composto nel 1971 da George Crumb per flauto, violoncello e piano, tutti amplificati (non c’è trattamento audio; ci si limita all’amplificazione).
Ispirato a una registrazione di canti delle balene, il brano imita e trasfigura i suoni della natura, che divantano materiale da elaborare musicalmente.
C’è anche un aspetto teatrale: i musicisti devono indossare una maschera intesa a cancellare la loro umanità per portarli a impersonare le forze della natura. Inoltre, l’esecuzione dovrebbe avvenire in luce blu.
Di questa composizione Crumb dice:
The form of Vox Balenae (Voice of the Whale) is a simple three-part design, consisting of a prologue, a set of variations named after the geological eras, and an epilogue.
The opening Vocalise (marked in the score: “wildly fantastic, grotesque”) is a kind of cadenza for the flutist, who simultaneously plays his instrument and sings into it. This combination of instrumental and vocal sound produces an eerie, surreal timbre, not unlike the sounds of the humpback whale. The conclusion of the cadenza is announced by a parody of the opening measures of Strauss’ Also sprach Zarathustra.
The Sea-Theme (“solemn, with calm majesty”) is presented by the cello (in harmonics), accompanied by dark, fateful chords of strummed piano strings. The following sequence of variations begins with the haunting sea-gull cries of the Archezoic (“timeless, inchoate”) and, gradually increasing in intensity, reaches a strident climax in the Cenozoic (“dramatic, with a feeling of destiny”). The emergence of man in the Cenozoic era is symbolized by a partial restatement of the Zarathustra reference.
The concluding Sea-Nocturne (“serene, pure, transfigured”) is an elaboration of the Sea-Theme. The piece is couched in the “luminous” tonality of B major and there are shimmering sounds of antique cymbals (played alternately by the cellist and flutist). In composing the Sea-Nocturne I wanted to suggest “a larger rhythm of nature” and a sense of suspension in time. The concluding gesture of the work is a gradually dying series of repetitions of a 10-note figure. In concert performance, the last figure is to be played “in pantomime” (to suggest a diminuendo beyond the threshold of hearing!); for recorded performances, the figure is played as a “fade-out”.
Olivier Messiaen was born 98 years ago, on December 10, 1908.
The Quartet for the End of Time was written after Messiaen, then a French soldier, was captured and incarcerated in a German prisoner-of-war camp, and first performed by the composer and three fellow inmates in the unheated barracks of Stalag VIIIA on January 15, 1941, before an audience of 300 prisoners and their German guards.
Clarinette : Barnaby Robson
Violon : James Clark
Violoncelle : David Cohen
Piano : Matthew Schellhorn
Ci sono dieci tuoni nel Wake. Ognuno è un crittogramma o una spiegazione codificata delle conseguenze tonanti e riverberanti dei principali cambiamenti tecnologici in tutta la storia umana. Quando un uomo tribale sente un tuono, dice: “Cosa ha detto quella volta?”, con la stessa spontaneità con cui diciamo “Gesundheit” (trad. “Salute”).
[Marshall McLuhan]
Ecco i tuoni (in realtà non tutti sono veri tuoni, alcuni sono battimani, colpo di tosse, sbattere di porta…), come li ha scritti James Joyce e il primo interpretato da John Cage
I Six Encores sono sei brevi pezzi, scritti tra il ‘65 e il ‘90, e raccolti sotto questo titolo, quasi ad evidenziarne la forma breve, aforistica e solo apparentemente disimpegnata.
I primi quattro Encores sono dedicati agli elementi empedoclei: acqua, aria, terra, fuoco.
Wasserklavier, del 1965, indaga gli aspetti simbolici e le suggestioni che possono essere legate al concetto di acqua, specie in relazione con gli strati “sommersi” della memoria: di qui l’utilizzo di materiale armonico derivato dall’Impromptu op. 142 n. 1 di Schubert e dall’Intermezzo op. 117 n. 2 di Brahms. Il risultato è di toccante nostalgia, anche grazie ad un attento ed originale studio sul timbro dello strumento, di cui si rievocano alcuni tratti salienti (in particolare derivati dal pianismo di Chopin, Debussy e Skriabin) con grande maestria ed originalità.
Erdenklavier (1969) consiste in un’esplorazione degli effetti timbrici legati alla risonanza per simpatia ottenuta con giochi di note tenute e con forti contrasti dinamici. È un brano pressoché monodico,e forse anche per questo richiama atmosfere arcaiche, che possono essere associate ad una concezione archeologica dell’idea di “terra” e di ciò che sotto (o dentro) di essa si trova.
In Luftklavier (1985), l’elemento “aria” è rievocato attraverso un rapido movimento di notine in pianissimo, non troppo differentemente dal successivo Feuerklavier (ma d’altro canto anche il fuoco, come l’aria, è imprendibile e in continuo movimento). Il “colore” pianistico è iridescente e cangiante, ed assume sempre diverse sfumature in base a vari accostamenti di materiale tematico. Feuerklavier (1989) è basato su un flusso turbinoso ed incessante di biscrome, attorno al quale si addensano materiali tematici in continuo sviluppo. L’estro virtuosistico è qui espresso con grande classe ed efficacia strumentale.
Brin e Leaf (1990), che completano la raccolta degli Encores, sono brevi pagine con una poetica esplorazione delle possibilità timbriche del pianoforte: affiorano sonorità magiche o impalpabili, con evocative risonanze ottenute grazie al sapiente gioco di pedali e note tenute.
[Da “La produzione pianistica di Luciano Berio” di Roberto Prosseda]
I. Brin
II. Leaf
III. Wasserklavier
IV. Erdenklavier
V. Luftklavier
VI. Feuerklavier
Treize couleurs du soleil couchant (1978) è uno dei lavori più noti di Tristan Murail e della corrente della musica spettrale da lui fondata insieme a Grisey.
Scritta per quintetto (violino, violoncello, flauto, clarinetto, pianoforte) e elaborazione elettronica, l’opera si basa su 13 note generatrici dalle quali se ne ricavano altre applicando una tecnica concettualmente derivata dal modulatore ad anello di analogica memoria.
Al di là dei paroloni, si tratta di derivare nuove note per somma e differenza fra le frequenze di una serie di note date. Esempio: prendiamo un La 110 Hz e un Mi 165 Hz (la 5a sopra). La loro differenza dà 55 Hz che è un La all’8va sotto il precedente; la somma dà 275 Hz che è un Do# (appena stonato).
Questa tecnica compositiva, da tempo nota e utilizzata da tutti coloro che hanno avuto a che fare con la musica elettronica analogica, Stockhausen in primis (Mantra per 2 pianoforti e ring modulator), è molto interessante perché esibisce la seguente proprietà:
se le due frequenze generatrici sono in rapporto armonico (ovvero l’una è un armonica dell’altra, come nell’esempio di cui sopra), la loro somma e differenza creano altri armonici;
se non sono in rapporto armonico, anche le frequenze generate sono inarmoniche.
Murail divide idealmente il brano in 13 sezioni, ognuna centrata su una delle note generatrici, attorno alle quali si creano delle “ombre” sotto forma di altre note e suoni elettronici generati con il sistema suddetto. Pilotando il metodo, cioè articolando la sequenza delle note generatrici e i registri in cui le note sono utilizzate, Murail costruisce un percorso timbrico analogo (o ispirato) alle variazioni di luce dipinte da Monet nel suo ciclo delle cattedrali.
Nel 1894 Monet realizzò una serie di trenta tele dedicate alla facciata della cattedrale di Rouen. In queste tele ciò che l’artista cerca è la luce, e come essa riesce a modificare la percezione della realtà. Così egli rappresenta la cattedrale in diverse ore del giorno e con diverse condizioni atmosferiche, giungendo ogni volta a risultati pittorici diversi. La cattedrale a volte sembra smaterializzarsi, a volte si cristallizza in forme più salde, ma la luce ne modifica in ogni caso la percezione cromatica, così che la sua facciata cambia di colore a seconda dell’ora del giorno. L’insieme delle trenta tele è davvero impressionante e suggestivo, in quanto lo stesso oggetto dà luogo a trenta immagini differenti.
Analogamente, Murail ripete lo stesso oggetto musicale all’interno di ciascuna sezione, variandone la colorazione timbrica e scrive
partant d’une clarté moyenne dans les premières sections, le timbre progresse vers une lumière réverbérante marquée par un intervalle très resserré dans l’aigu (sixième couleur), pour aboutir à un crépuscule sonnant, dans son extrême fin, comme un glas
Tristan Murail – Treize couleurs du soleil couchant (1978) per violino, violoncello, flauto, clarinetto, pianoforte e live electronics
Ilhan Mimaroglu è un compositore turco, nato nel 1926 ed emigrato negli USA, che ha prodotto parecchia musica elettronica analogica negli anni ’60.
Ora l’etichetta EARLabs ha ripubblicato i suoi lavori rendendoli accessibili qui.
Fra i brani disponibili, ho scelto il “Prelude for magnetic tape XI”, curioso in quanto l’unica sorgente sonora è un elastico di gomma le cui vibrazioni sono sotto la soglia udibile, ma possono essere incise da un apposito microfono e rese udibili con amplificazione e trasposizione.
Ilhan Mimaroglu – Prelude for magnetic tape XI
Att.ne: EARLabs usa ftp invece del solito http per il trasferimento dei file audio. Se il player del vostro sistema non funziona, scaricate il file con il tasto destro, salvatelo e poi ascoltatelo.
Così recita un antico proverbio russo.
Ma Sofia Gubaidulina, tartara lo è davvero. Nata nel 1931 a Chistopol nella Repubblica Tatara, ha studiato anche la musica popolare del suo paese e gli echi sono rimasti nella sua musica.
Questo “Quasi Hoquetus” (1984), per una formazione poco comune (fagotto, viola e pianoforte), basa la sua struttura ritmica sulla serie di Fibonacci e sull’hoquetus, un’antica tecnica ritmica contrappuntistica che alterna figure e silenzi, creando un movimento quasi stereofonico in cui la stessa figura musicale si sposta fra due voci.
Sofia Gubaidulina – Quasi Hoquetus (1984) for bassoon, viola and piano.
Un brano di Scelsi degli anni ’60 per flauto e clarinetto in Sib, in due movimenti.
In questo pezzo i due strumenti sono perfettamente fusi in un’unica entità che dà vita a una superficie sonora armonicamente statica, ma continuamente increspata da battimenti generati dai quarti di tono, leggeri glissati, frullati, gruppetti di note vicine, multifonici, dissolvenze, vari tipi di vibrato.
Il pezzo vive di queste continue mutazioni timbriche e dinamiche che ne annullano la staticità, facendone un oggetto di contemplazione.
Giacinto Scelsi – Ko-Lho, for flute & clarinet Bb (1966)
Lichtbogen è ispirato alle luci del nord che Kaija Saariaho ha visto nel cielo artico della sua Finlandia.
La pulsazione costante dell’aurora boreale è presente in questa musica sotto forma di cambiamenti continui nella sonorità e nel ritmo.
Lichtbogen was inspired by the Northern Lights, which Saariaho had seen in the Arctic sky. The constant flickering of the aurora borealis can be heard in the music as unending changes in sonority and rhythm.
Lichtbogen (1985–1986) – flute, percussion, harp, piano, 2 violins, viola, cello, double bass and live electronics
Di nome e di fatto.
Perché Giacinto Scelsi ha sempre scelto di non conformarsi al mainstream dell’epoca e ha sempre proposto opere originali.
Come i Quattro Pezzi su una nota sola per orchestra da camera del 1959. Mentre il mondo musicale esce faticosamente dall’impasse del serialismo integrale, la sua opera apre la strada ad una concezione nuova dedicata all’esplorazione del timbro: Scelsi nella sua poetica musicale indaga la microstruttura del suono, sconfinando in territori fino ad allora insondati, utilizzando tecniche all’epoca non convenzionali (tra cui un uso intensivo dei microintervalli).
Qui ascoltate il primo e il secondo dei Quattro Pezzi su una nota sola per orchestra da camera (1959).
“Quando si entra in un suono ne si è avvolti, si diventa parte del suono, poco a poco si è inghiottiti da esso e non si ha bisogno di un altro suono.”
C’è sul solito YouTube questo film di Dick Fontaine (regista indipendente fra i primi a usare il direct cinema), diviso in 3 parti (tot. 25 minuti ca.), in cui un giovane John Cage (giovane rispetto a come lo ricordo io; in realtà ha 50+ anni) e Rahsaan Roland Kirk (sassofonista di quel jazz sperimentale e afro, tipico dei roaring sixties) parlano del suono (a un certo punto compare anche David Tudor). Naturalmente lo fanno da punti di vista opposti, tanto opposti che a volte si compenetrano.
È anche bello rivedere le cose che faceva Roland Kirk, tipo il suonare insieme 2/3 sassofoni, oppure quei soli di flauto che diventeranno pop grazie a Ian Anderson.
Soprattutto c’è quella simpatica atmosfera anni ’60 in cui sembrava fosse possibile provare tutto. Erano appunto i tempi dei festival ONCE, in cui ogni cosa poteva essere tentata almeno una volta.
Il parlato è in inglese sottotitolato in francese, ma comunque si capisce senza sforzarsi (Cage parla piano e chiaro). Questa è la prima parte. Seguono i link.
A differenza delle scuole tedesca e francese, la politica dello Studio di Fonologia della RAI di Milano, fondato nel 1955, è stata sempre improntata all’empirismo e al lasciare i compositori liberi di ricercare in qualsiasi direzione puittosto che conformarsi a delle dichiarazioni di principio. Maderna e Berio, i primi a lavorarvi, coadiuvati dal tecnico Marino Zuccheri, si accostano a queste nuove tecniche senza determinismi e idee preconcette circa la loro organizzazione confrontandosi con il materiale. Più tardi, nel 1960, a loro si aggiunse Nono.
La sensibilità musicale di Maderna ottiene subito dei risultati con Notturno (1956), un’opera quasi sussurrata, da ascoltare in pianissimo e Continuo (1958). Di quest’ultimo brano esistono pochi appunti di Maderna che lo descrive come un pezzo avente alla base un unico suono che passa attraverso 22 stadi di lenta e graduale trasformazione, senza soluzione di continuità. Secondo la testimonianza di Marino Zuccheri, però, quell’unico suono non sarebbe sintetico, bensì una nota del flauto di Gazzelloni.
Il risultato, per l’epoca, è affascinante in ogni caso perché qui si lascia che sia il materiale a evolversi e a dettare le proprie regole. Il sonogramma approssimato che potete vedere è di Giordano Montecchi, che ha svolto un’attenta analisi su questo brano pubblicata nei Quaderni della Civica Scuola di Musica, num. 21-22, 1992, Milano (click immagine per ingrandire).
Un’ultima considerazione riguarda lo Studio di Fonologia della RAI di Milano, che ha chiuso per obsolescenza nel 1983. Lo Stato Italiano lo ha fondato e così lo ha lasciato, senza mai aggiornarlo. Già da molti anni non vi lavorava più nessuno.
Una struttura che ha svolto un ruolo importantissimo nella sperimentazione sonora degli anni ’50 e presso la quale hanno lavorato musicisti come Bruno Maderna, Luciano Berio, Luigi Nono, John Cage, Henri Pousseur, Vladimir Ussachevsky, Franco Donatoni e molti altri e che, di conseguenza, si era costruita una reputazione nell’ambiente musicale mondiale è andata buttata solo per mancata volontà, non certo per costi. Tutto ciò getta una luce ancora più sinistra sulla totale assenza dimostrata in tempi recenti dalle istituzioni italiane per quanto riguarda la sperimentazione sonora.
Il periodo del pianoforte preparato inizia nel 1940 con il brano Bacchanale di Cage, composto per la danza di Syvilla Fort.
Può darsi che Cage non sia stato il primo a introdurre materiali vari nel pianoforte, ma sicuramente è il primo che lo fa consciamente e sviluppa l’idea, per cui la storia lo ricorda come l’inventore di questo ‘strumento’. In effetti, nelle sue mani, il pinoforte preparato si trasforma in un ensemble piano-percussioni con sonorità che vanno dalla marimba, a piccoli tamburi, fino al pianoforte vero e proprio, passando per i suoni metallici di campane non intonate i cui rintocchi sono dedicati non a un Dio, ma al Nulla.
Analiticamente, possiamo esaminare le preparazioni per le Sonatas & Interludes (1948), di cui vedete una immagine del risultato (click immagine per ingrandire). In base all’effetto acustico, si possono classificare in 4 categorie:
Oggetto inserito
Effetto
Note
Pezzi di gomma o altro materiale smorzante
Simile allo smorzatore: il suono viene bloccato
con effetto percussivo
Il suono è più o meno smorzato in base alla distanza dell’oggetto dal punto di percussione
Viti o altri oggetti metallici puntuali
Creazione di un ‘nodo’ nella corda con produzione simultanea di più suoni
Il risultato dipende strettamente dalla distanza dell’oggetto dal ponte: sui punti in cui si producono armonici, questi ultimi vengono evidenziati.
In punti diversi si producono suoni non armonici con sustain più breve
Lamelle o altri oggetti vibranti
La nota, più o meno smorzata, è accompagnata dalla vibrazione della lamella
Oggetti posati sulle corde
Intensa vibrazione
Infine, bisogna tener presente che l’inserimento di oggetti altera più o meno leggermente la tensione delle corde fra cui sono inseriti, quindi si hanno anche effetti di leggera scordatura.
In questi brani, le preparazioni non sono oggetto del caso. Cage di che esse «vanno scelte come le conchiglie su una spiaggia», cioè in modo intuitivo, senza un piano preciso.
Dal 1940 al ’52, scriverà circa 30 pezzi per questo strumento di cui è, ovviamente, il principale utilizzatore, ma che, soprattutto negli Stati Uniti, verrà usato anche da altri compositori. In Europa, invece, la cosa ha scarso seguito. Gli europei, a partire dai primi anni ’50, si dedicano a un intenso studio per allargare le possibilità acustiche del pianoforte creando suoni compositi di cluster e note singole con diverse durate e dinamiche, arrivando a risultati decisamente belli (pensiamo soprattutto a Stockhausen), quanto di difficile esecuzione, ma raramente osano toccare l’interno del piano che rimane come un feticcio freudiano nella cultura musicale europea. Vale la pena di notare, però, come l’effetto di una singola vite di Cage sia spesso paragonabile a un intero suono composito.
La giustificazione portata dal nostro per l’invenzione del pianoforte preparato è in sè stessa una provocazione tale da far saltare i nervi a qualsiasi europeo. Secondo la tradizione artistica europea, le innovazioni arrivano come risultato di una ricerca oppure come effetto collaterale di quest’ultima (vedi il saggio di Stockhausen su Scoperta e Invenzione). La spiegazione di Cage è, invece, assolutamente pratica: per la danza di Syvilla Fort serviva un gruppo di percussioni, ma, nei piccoli teatri in cui si esibiva, non c’era sufficiente spazio, per cui il pianoforte è stato trasformato in modo da produrre anche suoni percussivi.
Tornando alle Sonatas & Interludes, possiamo notare come, nonnostante il titolo, siano formalmente lontane dalla sonata classica:
le Sonate 1-8 e 12-16 hanno struttura ritmica AABB
gli Interludi 1-2 non hanno alcuna ripetizione
gli Interludi 3-4 e le Sonate 9-11 sono composte da preludio, interludio, postludio
È interessante ascoltare una sonata, per es. la prima, guardando la partitura (click immagine qui sotto per ingrandire). Si nota che corrispondenza suono – segno non esiste più.
Le Sonatas & Interludes, infatti, hanno effetti collaterali che vanno al di là dell’opera in sè stessa. Se ci pensate, infatti, siamo in presenza di un deciso mutamento nella funzione della partitura.
La normale partitura è una ‘partitura di risultato’. Essa informa l’interprete di ciò che il compositore vuole ottenere, non di quali azioni si debbano compiere per ottenerlo. Quest’ultima parte è compito dell’esecutore che deve capire il brano, costruirsi una diteggiatura, eccetera.
Nella partitura delle Sonatas, invece, c’è una differenza fondamentale: non sempre il risultato corrisponde a quanto è scritto. L’esecuzione di una nota, spesso, non produce quella nota, ma un suono che con quest’ultima può anche avere ben poco a che fare. Pensateci bene: l’analisi pura e semplice della partitura, senza sapere niente delle preparazioni, porterebbe su una strada completamente sbagliata. In questo caso, la partitura non è l’opera.
Si tratta, quindi, di uno dei primi esempi moderni (perché andando indietro esistono le intavolature) di ‘partitura operativa’ in cui il compositore non indica il risultato, ma le azioni da compiere. Il risultato, poi, è altra cosa.
John Cage (1912-1992) . Sonatas and Interludes (1946-48) for prepared piano
Orlando Bass, piano
Ancora Ligeti. Lo merita.
Da YouTube (che si rivela un buon veicolo promozionale), due esecuzioni di “L’Escalier du Diable”, studio num. 13 dal secondo libro degli studi per pianoforte, Questo pezzo sta diventando il brano virtuosistico per antonomasia del XXI° secolo.
La prima (Francesco Libetta), quasi più veloce di quanto prescritto, ha un audio migliore e pur non avendo la precisione di Aimard (ma questa ripresa è dal vivo; vorrei vedere Aimard live), mi sembra un’ottima esecuzione.
Anche la seconda (Greg Anderson) è buona, ma meno canonica, un po’ più lenta, con l’audio inciso in modo più aggressivo (quasi al limite: forse dovrete abbassare un po’ il volume sul computer, non sulle casse) e decisamente più libera. Un tot di effetti video non la valorizzano, ma la maggiore lentezza rende più semplice la comprensione della struttura. Poi, vedere uno che suona Ligeti in maglietta, blue jeans e ghigno alla Malcom McDowell di Arancia Meccanica è divertente.
OK, adesso faccio il serio e vado a cercare la partitura nei meandri della mia biblioteca. Intanto ditemi che ne pensate.
Idil Biret esegue gli studi di Ligeti, Libro I° (1985), fre cui il nr. 6, questo bellissimo “Automne à Varsovie” che, al di la della difficoltà, è quasi nostalgico.
Potete comunque ascoltare quello che volete cliccando il menu in alto a destra.
Maderna (nella foto, con Berio) è morto il 13 Novembre 1973 a soli 53 anni.
Il suo necrologio su Le Monde diceva “…il sole e la luna sono sempre presenti nella sua musica…”.
ANABlog lo ha ricordato mettendo in linea vari pezzi fra cui questa Serenata 2a, piena di bellissimi e delicati colori orchestrali (ascoltatela in un momemto di calma: è davvero bella).
Chissà perché queste cose le trovo sempre e solo all’estero; qualcuno ha scritto una riga da noi?
ANABlog, il blog dell’Analog Art Ensemble di cui abbiamo gia parlato, pubblica la prima pagina di questa partitura della Music for Cello and Piano (1955) di Earl Brown con tanto di mp3 completo.
Ci trovate, inoltre, vari brani di Maderna, tutti scaricabili dal sito dell’Avant Garde Project che abbiamo già descritto qui.
Il rivolgersi a oriente tipico della seconda metà degli anni ’60 coinvolge anche Stockhausen che, nel fatidico 1968, abbraccia con decisione le filosofie orientali. Passando attraverso Stimmung, giungerà gradualmente alla definizione di una musica intuitiva, praticamente priva di partitura
Stimmung, per 6 voci (2 soprani., contralto, 2 tenori, basso; in altre versioni un tenore è sostituito da un baritono), è considerata come l’opera pop di Stockhausen, un po’ a causa della sonorità marcatamente modale, un po’ per l’aspetto (ingenuamente) mistico dell’opera, sottolineato dalle invocazioni alle divinità di varie culture.
Il carattere meditativo dell’opera è evidenziato dal fatto che il materiale base, anzi, l’unico materiale, è costituito da un accordo di 6 note ricavato dai primi armonici di una fondamentale (figura a sin.). Questo non significa che tutta l’opera, che dura ben 70 minuti, sia costituita da un unico accordo, ma quasi. Un accordo di 6 note implica una gamma di possibilità che va dalle singole note fino ad accordi composti di 2, 3, 4, 5 e finalmente 6 note. Inoltre, ogni nota può essere potenzialmente eseguita da più di un cantante (tutti dovrebbero poter cantare il RE).
Stockhausen quantifica in 21 le possibili combinazioni di cantanti su una sola nota, ovvero il SIb può essere cantato solo dal basso (1), il FA da basso e 2 tenori (3), l’altro SIb da basso, 2 tenori e contralto (4), il RE da tutti (6), il LAb da 2 tenori, contralto e 2 soprani (5), il DO solo da 2 soprani (2), totale 21. Notare che il DO potrebbe essere cantato anche dal contralto, ma questa possibilità viene scartata perché così si ottiene il totale dei numeri da 1 a 6 nella serie 1-3-4-6-5-2 e notare anche che 1+2+3+4+5+6 = 21.
Ora esaminiamo il numero dei possibili accordi da 2 a 6 note: con 2 note abbiamo 15 combinazioni; con 3, 20; con 4, ancora 15; con 5, 6; con 6, 1. Totale 55. Stockhausen ne seleziona 30 che, aggiunte alle precedenti 21, fanno 51: queste sono le sezioni (senza soluzione di continuità) di cui è composta l’opera.
La regola è che in ogni sezione un cantante agisce come guida e propone una struttura ritmica enunciando uno dei nomi magici (divinità di varie culture), mentre gli altri si porteranno, molto gradualmente, a identificarsi con la voce guida mantenendo, però, la propria nota. L’articolazione ritmica è ottenuta mediante una modulazione del suono effettuata con le vocali, a evidenziare gli armonici. Il tessuto è, così, molto più complesso di quanto sembra.
In questa figura, disegnata dal compositore, si vedono, per ogni sezione, i cantanti attivi in quella sezione con la voce guida in neretto (sopra) e le note loro assegnate (sotto). Un circoletto identifica la nota assegnata alla voce guida. [NB: in una prima stesura, quella di questi appunti, l’accordo venne scritto sul SOL].
Karlheinz Stockhausen (1928-2007): Stimmung, per 6 voci (1968 = prima versione).
Collegium vocale Köln diretto da Karlheinz Stockhausen
Un cofanetto di 4 dischi, Electronic Panorama, pubblicato da Philips negli anni ’70 e ormai fuori catalogo viene ora distribuito gratuitamente in formato digitale dal sito Earlabs.
Si tratta di materiale storico, rappresentativo di scuole diverse, prodotto dalle avanguardie elettroniche degli anni ’50 e ’60 negli studi di Parigi, Utrecht, Varsavia e Tokyo.
Come esempio ascoltate Screen di Jaap Vink (Utrecht), uno di quei brani stile grande fascia in auge alla fine degli anni ’60.
Il pianista e compositore giapponese Yûji Takahashi pubblica parecchie partiture delle proprie composizioni sul suo sito.
Nella maggior parte dei casi si tratta di opere aperte che richiedono un intervento decisionale da parte dell’interprete.
Sono praticamente sicuro che nessuno di voi ha mai sentito, in concerto, musiche di Harry Partch.
Eppure Harry Partch (1901-1974), compositore americano, è uno dei più innovativi, iconoclasti e individualisti musicisti di tutti i tempi. Per far capire la cosa anche ai cultori del pop, la sua posizione nella musica classica è, in un certo senso, simile a quella di Frank Zappa nel pop. Gli aggettivi utilizzati per definirli sono gli stessi e anche la carica ironica.
A tratti geniale, ma isolato perché la sua musica è impossibile da eseguire con una orchestra tradizionale. Partch, infatti, non utilizza il sistema temperato, ma la scala naturale, strettamente basata sulla serie degli armonici (mentre il sistema temperato fa una serie di aggiustamenti). Per scrivere con questo sistema, Partch, oltre ad utilizzare spesso una notazione non tradizionale, ha costruito da solo i propri strumenti. Ne ha realizzato decine, tali da organizzare una intera orchestra. Le sue creazioni, originali e/o ricostruite, comprendono strumenti a percussione, a corde e vari tipi di organi a canne o ad ancia. Oggi formano la Harry Partch Instrument Collection e vengono utilizzate per le incisioni e per i concerti.
Così, nei suoi pezzi non è raro vedere un ensemble come questo:
E proprio questo ensemble strumentale è relativo alla sua opera in due atti “Delusion of the Fury – A Ritual of Dream and Delusion” (1965-66), che potete ascoltare cliccando sui “Related Posts” qui sotto.
Anche la sua vita non è stata molto convenzionale. Musicista precoce (suonava clarinetto, harmonium, viola, piano, chitarra già da bambino e componeva prima dei 20 anni vincendo borse di studio), attraversò un periodo molto duro durante la grande depressione, riducendosi a vivere come un hobo (musicista vagabondo, senza fissa dimora), viaggiando a sbafo sui treni e sopravvivendo con lavori casuali in luoghi diversi.
In tutto questo periodo, durato 10 anni, continuò a scrivere le sue esperienze su un giornale chiamato Bitter Music (musica amara), spesso sotto forma di frammenti di conversazioni udite per caso, notate su pentagramma in base all’altezza delle varie voci.
Quante persone conoscete con un cognome così impronunciabile?
È perfino peggiore di quello di Jan Łukasiewicz, l’inventore della notazione polacca (in matematica, non in musica), poi applicata ai computer e tuttora in uso nei processori con il nome di “notazione polacca inversa”, proprio perché nessuno si ricordava quello dell’inventore.
Il nome di Rzewski, invece, si ricorda bene, anche perché non è un tipo che passa inosservato.
Nato nel 1938 nel Massachussets e morto a Montiano, in Toscana nel 2021, ha studiato musica ad Harvard e Princeton, fra gli altri con Roger Sessions, e Milton Babbitt. Nel 1960 è venuto a Roma per studiare con Dallapiccola. Qui, a metà degli anni ’60, con Alvin Curran e Richard Teitelbaum, ha fondato MEV (Musica Elettronica Viva), un gruppo di americani a Roma (ed essere americani a Roma, in quegli anni, era perfino meglio che essere americani a Parigi) orientato verso la sperimentazione e l’improvvisazione e soprattutto verso la de-composizione di qualsiasi forma precostituita.
Mettendo insieme le avanguardie della musica contemporanea, dell’elettronica e del jazz, MEV sviluppa una estetica musicale basata su un processo collettivo spontaneo incredibilmente fecondo e condiviso con le altre formazioni di punta di quegli anni (penso al Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina e alla Scratch Orchestra di Cornelius Cardew).
Amico anche di molti esponenti delle avanguardie americane (Cage, Wolff, Tudor, Behrman), le sue prime composizioni (Les Moutons de Panurge, Coming Together) sono fortemente influenzate da queste esperienze e mescolano stilemi sia della musica scritta che di quella improvvisata.
Attraversa poi il periodo delle partiture grafiche (Le Silence des Espaces Infinis, The Price of Oil) e negli anni ’80 esplora nuovi modi di utilizzare la tecnica seriale (Antigone-Legend, The Persians).
Le sue composizioni più recenti sono meno strutturate e più spontanee (Whangdoodles, Sonata e la sua partitura più impegnativa, The Triumph of Death, un oratorio di 2 ore basato su “L’istruttoria” di Peter Weiss).
Ma una particolarità di Rzewski, rara nel club della musica contemporanea, è il suo impegno politico, che, in questo senso, lo avvicina a personaggi come Nono, Pollini e Cardew. Ma Rzewski va più in la. È uno che durante un concerto è capace di smettere di suonare per gridare “Stop the War!” e questo non una, ma 12 volte nel corso di un pezzo, peraltro suo, come ha fatto sabato scorso a Kansas City.
Queste considerazioni, come nel caso di Cardew, lo portano anche a porsi il problema della incomprensibilità della musica contemporanea. Dice Rzewski:
Mi sembrava che non ci fosse ragione per cui le più intricate e complesse strutture formali non si potessero esprimere in una forma che riuscisse ad essere compresa da un largo numero di ascoltatori. Ero anche interessato a quella che mi sembrava un punto critico, non solo in musica, ma anche nelle scienze e nella politica: l’assenza di una teoria generale e di un comportamento critico. Ho incominciato a esplorare una forma in cui i linguaggi musicali esistenti potessero essere accostati.
Ed ecco le “36 Variazioni su El Pueblo Unido Jamas Sera Vencido” degli anni ’70, “Coming Together” (con dentro “Attica Blues”), basata sulle lettere dei prigionieri del carcere di Attica all’epoca della rivolta del 1971, con quella famosa frase ripetuta fino alla nausea “Attica is in front of me!”, fino all’Antigone che teorizza una opposizione di principio alle politiche di ogni stato, perché il problema è lo stato in sè.
Come altri intellettuali radicali (in senso americano), Rzewski ha lasciato gli USA. Dal 1977 insegna al Conservatorio di Liegi.
Resta sempre irrisolto l’interrogativo finale: qual’è la pronuncia corretta di Rzewski?
Ebbene, la risposta è JEV-ski, con G dolce francese e poi “evski”.
0:03 – Thema 1:32 – Variation I 2:33 – Variation II 3:36 – Variation III 4:46 – Variation IV 5:55 – Variation V 7:05 – Variation VI 8:15 – Variation VII 9:17 – Variation VIII 10:39 – Variation IX 11:48 – Variation X 12:50 – Variation XI 13:53 – Variation XII 15:09 – Variation XIII (“Bandiera Rossa”) 17:08 – Variation XIV 18:32 – Variation XV 19:54 – Variation XVI 21:55 – Variation XVII 23:11 – Variation XVIII 25:14 – Variation XIX 26:07 – Variation XX 26:57 – Variation XXI 28:04 – Variation XXII 28:57 – Variation XXIII 29:39 – Variation XXIV 32:21 – Variation XXV 34:21 – Variation XXVI („Die Solidarität”) 35:44 – Variation XXVII (36:51 – cadenza) 41:12 – Variation XXVIII 42:39 – Variation XXIX 43:15 – Variation XXX 46:57 – Variation XXXI 48:06 – Variation XXXII 49:14 – Variation XXXIII 50:28 – Variation XXXIV 51:50 – Variation XXXV 53:00 – Variation XXXVI (54:50 – cadenza) 1:00:47 – Thema
Ed eccolo dal vivo in uno dei suoi ultimi concerti
Nel Febbraio 1991, durante un giro di musicisti americani in Russia, John Chowning (l’inventore della FM), George Lewis (trombonista) e il compositore Paul Lansky si trovarono a salire le scale di una vecchia casa.
In quell’appartamento di due stanze abitava il 95enne Leon Theremin (Lev Sergeyevich Termen, August 15, 1896–November 3, 1993) che, naturalmente, possedeva un theremin originale a valvole.
In questo video qucktime girato da George Lewis con una videocamera dell’epoca, si vede Theremin impartire una veloce lezione a Paul Lansky, il cui assolo finale ci viene graziosamente risparmiato ;-).
Si vede anche lo strumento: uno scatolotto con antenna (le versioni odierne stanno nel palmo di una mano), grosso, per colpa delle valvole.
Ne potrebbe nascere l’ennesima diatriba fra i sostenitori della superiorità del valvolare nei confronti del transistor. Ecco il video.
Negli USA ci sono grandi festeggiamenti per i 70 anni di Steve Reich (3 ottobre), tanto che il suo editore (Boosey & Hawkes) ha appositamente creato una pagina sul proprio sito.
Festeggiamenti ben giustificati se consideriamo che, a differenza di altri minimalisti che non hanno saputo sviluppare la propria musica diventando via via più banali, Reich, pur rimanendo sempre coerente al proprio stile compositivo, è stato in grado di evolversi e produrre sempre brani di livello dignitoso e a tratti anche molto belli. Effettivamente, fra i minimalisti è uno dei più raffinati.
Dai pezzi di Reich, Boosey & Hawkes ha tratto anche delle suonerie da cellulare. Data la loro ripetitività, funzionano quasi meglio di quelle ricavate dai brani di classica della serie booseytunes. Le trovate qui. Sono in vendita a 1.5 sterline [i soliti € 2 (figli di cani!)].
Saltando a piè pari gli esempi audio miseria (max 1 minuto) disponibili sul sito del suo editore, ecco un intero movimento di Music for 18 Musicians (1974-76) e un video, tratti dal sito personale di Reich.
Conoscete Margaret Leng Tan e Isabel Ettenauer?
Sono due fra le principali interpreti del piano giocattolo, che non è una stupidaggine, ma uno strumento con un repertorio specifico (fra gli altri, Cage, che comunque non è l’unico).
Eccovi Isabel Ettenauer in Sequitur V, un brano di Karlheinz Essl per Toy Piano and Electronics.
e Hyekyung Lee in un brano di Rob Smith, con il fantastico titolo di “Schroeder’s Revenge”
C’è un sito ufficiale di Zappa con in copertina una mucca con l’Italia sopra.
Cliccando vari punti della mucca succedono cose. Però, per vederla dovete scegliere “High Browse” dopo l’animazione iniziale. Altrimenti potreste finire nella pagina che pubblicizza il tour europeo di Dweezil, figlio di Frank, con la sigla “Zappa plays Zappa”.
In verità, fra i figli illustri, Dweezil Zappa è uno dei più simpatici (meglio del rampollo Moggi, per esempio e anche di Ciccio De André), ma quando faranno una legge che vieta ai figli di gente famosa di fare il mestiere dei genitori sarà sempre troppo tardi.
Comunque sarebbe giusta. Vi ricordate la legge che è alla base del film “Salvate il soldato Ryan”? Se qualche tuo fratello è già morto per la patria, tu vieni rimandato a casa. È come dire: la tua famiglia ha già dato.
Ecco, è lo stesso: in questo campo la tua famiglia ha già dato.
Here you can listen to
Six Japanese Gardens (1992), percussions and electronics
Six Japanese Gardens is a collection of impressions of the gardens I saw in Kyoto. Each of the six parts gives a specific look at a rhythmic material, including complex polyrhythmic or ostinato figures and purely coloristic materials. The percussion is extended with the electronic part, in which we hear nature’s sounds, ritual singing, and other instruments.
from a note by Kaija Saariaho
Shane Jones percussions
Près (1992) for cello and electronics
Près for cello and electronics is in three movements. The electronic element (synthetic sounds, modified pre-recorded cello, and live sound processing) expands the musical gestures of the cello in many different directions. The title of the work links it to Gauguin’s painting By the Sea; and hence to the experience of the sea itself and waves, their rhythms and sounds, stormy weather and calms.
from a note by Kaija Saariaho
Anssi Karttunen, cello, Carlo Barbagallo, electronics
Un nuovo (2006) lavoro di Steve Layton (compositore residente a Seattle nato nel 1956) che a un primo ascolto notturno, mi è piaciuto.
Interessante anche il metodo. La base del brano è costituita da un frammento tratto da una composizione di un amica (At the Abyss di Alex Shapiro), dilatato dalla sua durata originale di 5 secondi fino a più di 18 minuti. Questo è stato il template della composizione, il sentiero da seguire e a cui adattarsi, trovando una propria strada fra evocazioni e connessioni.
Il titolo è tratto dalla sezione finale del poema di Eliot “The Wasteland” (Terra Desolata).
A new work by Steve Layton (composer based in Seattle, born 1956) that I like.
The composer says:
A “journey” or “meditation” similar to this year’s earlier O, Hebdomeros. A tiny snippet of a recording (5 seconds from the second movement of my composer-friend Alex Shapiro’s At the Abyss) was stretched to something over 18 minutes. This became the template for the composition, a kind of path that I had to accept, finding my way through, making whatever evocations and connections appear somehow form a thread of their own sense and meaning. The title is taken from the final section of T.S. Eliot’s iconic poem “The Wasteland”.
Steve Layton – What the Thunder Said (2006) flute, piano, vibraphone, strings/electronics
Tim Page, il critico del Washington Post, ha pubblicato la sua scelta dei 25 dischi più rappresentativi del 20mo secolo nell’area della musica contemporanea.
La lista è interessante per i commenti e per qualche suggerimento su autori finora trascurati. La trovate qui.
Credo che Edgar Varèse sia uno dei compositori del ‘900 storico più sottovalutati (almeno rispetto alla sua grandezza) e meno studiati (anche perché è di non facile analisi).
Eccovi Offrandes (1921), per soprano e orchestra da camera. Sarah Leonard, soprano ASKO Ensemble, Riccardo Chailly (1996)
Offrandes è un insieme di due poesie di Vicente Huidobro e José Juan Tablada. Questo è il testo di Huidobro (in francese):
From YouTube, a piece by Edgar Varèse: Offrandes (1921), for soprano and chamber orchestra. Sarah Leonard, soprano ASKO Ensemble, Riccardo Chailly (1996)
Texts by Vicente Huidobro and José Juan Tablada. Here is the original text by Huidobro (in french):
La Seine dort sous l’ombre de ses ponts.
Je vois tourner la terre
Et je sonne mon clairon
Vers toutes les mers.
Sur le chemin de ton parfum
Toutes les abeilles et les paroles s’en vont.
Reine de l’Aube des Pôles,
Rose des Vents que fane l’Automne!
Dans ma tête un oiseau chante toute l’année.
Questa è la mia traduzione. Perdonate l’inadeguatezza.
La Senna dorme all’ombra dei suoi ponti.
Vedo girare la terra
e suono la mia tromba
verso tutti i mari.
Sulla scia del tuo profumo
vanno tutte le api e le parole.
Regina dell’Alba dei Poli,
Rosa dei Venti che appassisce l’Autunno!
Nella mia testa un uccello canta tutto l’anno.
Il Seattle Improv Meeting è un gruppo che si dedica all’esplorazione dell’improvvisazione strutturata. Utilizzando vari tipi di partiture non convenzionali (grafiche, verbali, testuali, disegni che scorrono in Flash, etc) il gruppo sperimenta il confine fra composizione e improvvisazione. Uno dei loro principali interessi è l’interpretazione del Treatise di Cornelius Cardew (ne abbiamo già parlato su questo blog) che è attualmente in corso al ritmo di 4-6 pagine per session (dato che in questa partura manca una esplicita scala del tempo, il Treatise può anche essere eseguito in parti, al limite una sola pagina per volta).
Sul sito si trova anche una guida al Treatise con vari materiali e link.
Renewable Music riporta una bella citazione in cui Boulez paragona la tradizione al telefono senza fili
C’è un gioco che facevamo da bambini. Ci si siede intorno a un tavolo, il primo sussurra una frase all’orecchio del proprio vicino “Ho il fazzoletto in tasca”.
La frase passa da orecchio a orecchio, sempre più veloce, e come diventa alla fine? “Il gatto mangia la cioccolata”.
Ecco. Questa è la tradizione – spesso solo l’eredità di manierismi. Qualcuno imita gesti senza capire il loro spirito. [trad. mia]
Trovo questo paragone molto bello e centrato. Rende conto anche della distanza.
D’altronde Boulez non è mai stato tenero con i recuperi di qualsiasi tipo. Leggete questa intervista a Repubblica datata 2000:
Maestro Boulez, come vede la musica del nostro tempo?
“In uno stato di regressione, pigrizia e mancanza di coraggio. Per paura del presente ci si rifugia in brutte copie del passato, ovvero il cosiddetto post-modernismo, esecrabile. Negli anni ’50, dopo la guerra, quando non c’era più niente da perdere, la guerra aveva già azzerato tutto, si era più intrepidi, non si temevano sperimentazioni radicali. Ora si è ossessionati dalla conservazione. Nelle arti, e nella società in generale, si teme la perdita d’identità: in quella gran miscela che è diventato il mondo si ha come il terrore di annullarsi dentro una massa ibrida e confusa, senza più profili e caratteri. Perciò ci si difende tuffandosi nella propria cultura e nel passato. Col risultato di due tendenze: la mania dell’ autenticità e della filologia, vedi il revival di Bach e del barocco mitizzato come epoca d’oro; e il mito della caricatura, ovvero rifare, naturalmente meno bene, cose immaginate cento anni fa o di più. Accade ovunque, nella musica come in architettura, coi vari orripilanti neoellenismi… Spaventosi come il post- moderno in musica”.
Crede nelle contaminazioni con la musica pop?
“No! Trovo il pop alienante e opprimente. Apprezzo la vitalità dei suoi interpreti, ma è un’energia che potrebbe essere indirizzata verso obiettivi più interessanti. E’ una musica fatta di cliché che cambiano, come la moda. Mi fa pensare a un certo modo di mettere il berretto: un anno con la visiera davanti, l’ anno dopo di lato, e ora tutti la portano indietro… Il pop è dominato da superficialità e imitazione. L’unico che mi ha interessato è stato Frank Zappa, curioso, avventuroso, radicale. Apparizione eccezionale in quel contesto”.
Lei fu un pioniere nel campo dell’informatica musicale. I risultati attuali sono pari alle sue aspettative?
“Lo sviluppo è interessante ma ancora molto deve accadere. Se un tempo si temeva che la tecnica soffocasse l’interprete, oggi ci si rende conto che è salvaguardato. L’elettronica non domina: è funzionale. E’ una possibilità fantastica di estensione del mondo strumentale. Non indispensabile: si può benissimo scrivere ancora solo per strumenti. Ma per un universo musicale può fungere da arricchimento formidabile”.
Il pensiero di Boulez sulla tradizione è ulteriormente chiarito in questo frammento tratto da una intervista al Telegraph:
No, non credo nella tradizione. Io credo nella storia. Le lezioni che ricavi dalla storia sono le tue proprie lezioni, tu stai insegnando a te stesso. La tradizione è semplicemente il manierismo di gente che è venuta prima di te. La tradizione è passiva, la storia è attiva.
Sospeso nella bolla immobile del ferragosto in una città che sembra totalmente ferma. Dondolante su un’amaca in un quartiere deserto, questa mi sembra la musica adatta. È una mia composizione del 1980 pensata come arredamento per un appartamento vuoto.
Io suono al piano brevissime frasi diatoniche (da 1 a 6 note) generate da un processo casuale, ogni frase per una sola volta. Un eco di 6 secondi le ripete e le fonde costruendo forma, ritmo, tensioni, risoluzioni, eventualmente emozioni.
UBU Web è un archivio indipendente dedicato alle varie avanguardie e alle tendenze artistiche meno convenzionali. Vi si trovano moltissimi materiali che vanno dai readings di poesia e letteratura, alla musica, all’arte contemporanea, al cinema sperimentale e molte altre testimonianze artistiche,
Tutti i materiali sono liberi per uso scolastico e non-commerciale.
La sezione audio, originariamente dedicata alla poesia sonora, si è allargata fino a comprendere anche molte composizioni musicali soprattutto del periodo Fluxus (anni 60-70).
Da qui, vi invito all’ascolto di due partiture grafiche degli anni ’60:
Morton Feldman – The King of Denmark (1964) nella realizzazione di Max Neuhaus, un brano molto delicato, tutto in ppp come tipico del Feldman di quegli anni (alzate un po’ il volume).
Cornelius Cardew – Treatise (1963-67) che può essere considerata come l’Everest delle partiture grafiche (193 pagine di numeri, forme e simboli la cui interpretazione è lasciata agli interpreti) eseguito dalla Scratch Orchestra al Cardew Memorial Concert nel 1982.
Non ho mai smesso di considerare i compositori di musica da film fra i principali responsabili del fatto che la musica contemporanea e elettronica, per il grande pubblico è associata a emozioni come suspence, orrore, ansia e simili.
Adesso perfino Ennio Morricone, intervistato dal Guardian, conferma questa tesi affermando, a proposito di Dario Argento,
“His films are full of blood, so contemporary electronic music works perfectly and the audience accepted the music as linked to those strong scenes.”
[trad mia: I suoi film sono pieni di sangue, per cui la musica elettronica contemporanea funziona benissimo e il pubblico ha accettato questa musica come collegata a quelle scene forti].
A parte queste considerazioni, Morricone mostra una corretta attitudine nei confronti delle major cinematografiche (leggi: Hollywood). Non si è mai trasferito a Hollywood e non ha mai imparato l’inglese.
“They said they would give me a villa, I told them I liked it in Italy, and there was no need to leave Rome because I only speak with the director about the score, not the studio.” [trad mia: Mi hanno detto che mi avrebbero dato una villa. Ho risposto che mi piace l’Italia e che non c’era nessun bisogno che io lasciassi Roma, tanto io parlo della partitura solo con il direttore, non con lo studio.]
È la grande lezione di Hemingway che suggeriva che il modo migliore per uno scrittore di fare affari con Hollywood era di incontrarsi con i produttori al confine della California e poi “tu gli butti il libro, loro ti buttano i soldi. Poi tu schizzi in macchina e guidi nella direzione opposta alla maggior velocità possibile” [cit. da CNN].
Steve Hubback si autodefinisce “Percussionist and Metal Sculptor”. Nato come batterista, dal 1990 Hubback costruisce strumenti per se stesso e per altri percussionisti.
Le sue creazioni, oltre ad avere un bel suono, sono anche esteticamente apprezzabili, tanto da essere utilizzate anche per installazioni in cui si fondono con la natura, come in questo live al No Noise Festival 2023.
Il suono è affascinante, come testimonia un esempio tratto da questa pagina in cui ne potete trovare molti altri.
Alcune interessanti immagini del padiglione Philips all’expo del 1958, progettato da Le Corbusier con la collaborazione di Xenakis per ospitare la performance del Poème Électronique di Edgar Varèse.
Le trovate in questa pagina del CCRMA.
Tiding up old books I found this one: Desert Plants – conversations with 23 american musicians by Walter Zimmermann, Vancouver, 1976. An old style book, clearly printed and written with IBM electric typewriter. Questions in italic and answers in monospace fonts.
Browsing I found this gag:
Walter Zimmermann to Philip Glass:
John Cage describes your work as follows: “Though the doors will always remain open for the musical expression of personal feelings, what will more and more come through is the expression of the pleasures of conviviality. And beyond that a non-intentional expressivity: a being together of sounds and people.”
How do you relate this quote to your music?
A bothered Philip Glass:
Well, I think it has more to do with his music than mine.
Riordinando i vecchi libri mi è caduto in mano questo: Desert Plants – conversations with 23 american musicians by Walter Zimmermann, Vancouver, 1976. Un libro vecchio stile scritto con una macchina elettrica IBM. Le domande stampate in corsivo e le risposte nei classici caratteri da macchina da scrivere.
Sfogliando qui e là ho trovato questa gag:
Walter Zimmermann a Philip Glass:
John Cage describes your work as follows: “Though the doors will always remain open for the musical expression of personal feelings, what will more and more come through is the expression of the pleasures of conviviality. And beyond that a non-intentional expressivity: a being together of sounds and people.”
How do you relate this quote to your music?
Philip Glass, seccato:
Well, I think it has more to do with his music than mine.
Ecco il video di una mitica esecuzione di 4'33" per orchestra. Il momento in cui il direttore si deterge il sudore fra il primo e il secondo movimento è puro humour inglese.
Problema: come valutare una esecuzione di 4'33" :-P?
Here is the video of a good execution of Cage’s 4'33", orchestral version. The director wiping off his sweat between 1st and 2nd movement is a moment of great humour.
Problem: how to evaluate a 4'33" execution :-P?
I have nothing to say
and I am saying it
and that is poetry
as I needed it
— John Cage
Come è giusto i tributi sono molti. YouTube rilancia il video originariamente trasmesso da arté (la TV culturale che si vede ovunque in Europa tranne che in Italia) con l’esecuzione del Poema Sinfonico per 100 Metronomi.
There are many “in memoriam” tributes on the web. On YouTube you can see the arté video of the Poème Symphonique pour 100 Metronomes.
Odio scrivere coccodrilli così come dare brutte notizie. Comunque 2 giorni fa è morto a Vienna György Ligeti (83 anni).
Saltando le inutili formule di circostanza, per me e per la mia formazione l’importanza di Ligeti sta tutta nelle composizioni degli anni ’60, da Apparitions del ’59 al Doppio Concerto per Oboe e Flauto del ’72, passando attraverso lavori come il Requiem, il Cello Concerto, Lux Aeterna, Lontano, Ramifications, il Chamber Concerto, Melodien. Opere in cui Ligeti abbandona completamente armonia, melodia e ritmo tradizionalmente intesi per creare un personalissimo flusso sonoro formato da cluster, accordi, masse apparentemente statiche ma dotate di una complessa micropolifonia interna che danno vita a un tessuto sonoro più o meno cangiante in cui il ritmo e l’armonia si rovesciano nel timbro, traendo dagli strumenti delle sonorità quasi elettroniche.
Molte altre sue cose sono importanti, ma le emozioni che mi hanno dato questi pezzi quando li ascoltavo nei primi anni ’70 sono le cose che preferisco ricordare.
Audiopad è stato sviluppato da due neolaureati del MIT (James Patten and Ben Recht) ed è una delle più interessanti interfacce musicali esistenti. Può essere utilizzato come strumento autonomo perché include una propria libreria di campioni audio ed è in grado sia di suonare che di eseguire operazioni di elaborazione audio nello stesso tempo, ma può anche essere usato come controller di un software di sintesi in realtime che gira su un computer esterno (come Max/Msp) oppure anche di una serie di sintetizzatori MIDI.
La cosa più interessante, però, è sicuramente l’interfaccia. Si basa su una grande superficie orizzontale su cui appaiono dei simboli, in modo simile a uno schermo piatto. Fin qui non ci sarebbe niente di diverso da un grande touch-screen, ma sulla superficie di Audiopad, gli esecutori muovono anche degli oggetti la cui posizione e movimento sono rilevati dal sistema.
Audiopad genera musica interpretando il movimento di tali oggetti e la loro posizione rispetto ai simboli che si trovano sullo “schermo”.
Ovviamente il tipo di simboli e il loro significato, così come l’interpretazione del movimento e della posizione degli oggetti, può cambiare in base al software. Per esempio, i simboli possono rappresentare diversi strumenti e gli oggetti delle parti strumentali. In tal caso, il fatto che l’esecutore muova un oggetto su un simbolo significa assegnare quella parte a quello strumento. Oppure un oggetto può essere un microfono e allora muovere uno strumento vicino/lontano dal microfono significa alzare/abbassare il suo volume.
Inoltre il display non è statico, ma può cambiare quando l’esecutore porta un oggetto in determinate posizioni aprendo così nuove vie di elaborazione audio o interpretazione. Il tutto è fluido perché guidato dal software.
Audiopad, quindi, è molto diverso dalla tradizionale interazione con il computer basata sul modello desktop, tastiera, mouse e per questa ragione è anche difficile da descrivere. In questo caso l’immagine vale decisamente più di 1000 parole, così vi invito a vedere questo buon filmato.
Sfortunatamente Audiopad non è ancora in vendita. L’unica cosa sul mercato che va in questa direzione è Lemur (ne parleremo), ma è solo un passo perché, per quanto carino, si tratta solo di un touch-screen programmabile, molto lontano dalla complessità di Audiopad.
Per commemorare i 40 anni dall’uscita di Freak Out (1966, uno dei dischi più sperimentali nella scena rock dell’epoca), ricordiamo qualche curiosità relativa a Frank Zappa.
Finora gli sono stati dedicati:
Due asteroidi: “3834 Zappafrank” e “16745 Zappa”.
3834 Zappafrank è un piccolo asteroide (fra 5 e 11 km di diametro) che appartiene alla fascia principale orbitante fra Marte e Giove (periodo orbitale 4.08 anni) scoperto da Ladislav Brožek nel 1980 all’Osservatorio di Kleť (CZ).
La campagna per dedicarlo a Frank Zappa è stata guidata da John V. Scialli, uno psichiatra forense di Phoenix e si è tenuta via internet nel 1994, un anno dopo la morte di FZ, coinvolgendo fans di 22 paesi.
La motivazione dice:
Named in memory of Frank Zappa (1940-1993), rock musician and composer of innovative contemporary symphonic, chamber and electronic music. Zappa was an eclectic, self-trained artist and composer with incredible energy and a biting wit, and his music transcends the usual music barriers. Before 1989 he was regarded as a symbol of democracy and freedom by many people in Czechoslovakia.
Di 16745 Zappa so solo che è stato scoperto nel 1996 in Italia, all’Osservatorio San Vittore (BO).
Comunque non è stata la prima volta: tutti i Beatles hanno dato il nome a un asteroide (‘Lennon’, ‘McCartney’, ‘Harrison’ and ‘Starr’, Nos. 4147 – 4150), così come Eric Clapton (‘Clapton’, No. 4305), Mike Oldfield (‘Oldfield’, No. 5656), and Jean-Michel Jarre (‘Jarre’, No. 4422). Mi sembra che anche Jerry Garcia ne abbia uno.
Un gene: “ZapA”, gene del microbo Proteus mirabilis che, a dispetto del suo bellissimo nome, è causa di infezioni del tratto urinario. In realtà si tratta di una famiglia di geni, da ZapA a ZapE.
Una medusa: Phialella zappai, così chiamata dal suo scopritore, il ricercatore italiano Ferdinando Boero, di Genova.
Un pesce: Zappa confluentus, scoperto nel 1978 da Tyson Roberts nelle paludi fangose del Fly River (Papua Nuova Guinea) e identificato come appartenente a un nuovo genere solo 10 anni dopo da Ed Murphy che gli ha attribuito il nome.
Un mollusco estinto: Amauratoma zappa, un bivalve che si nascondeva nel fango.
Un ragno: Pachygnatha zappa, così chiamato a causa di un segno addominale che ricorda i baffi di Zappa. Nome attribuito nel 1994 dai biologi belgi Robert Bosmans and Jan Bosselaers che stavano catalogando le nuove specie scoperte fra l’81 e l’83 dai loro colleghi dell’Università di Gent (Gand) nel corso di alcune spedizioni nel Congo.
Una scheda madre prodotta dalla Intel nel 1995. Nome interno Advanced/ZP; proc/chipset Pentium P54C, Socket 5, 82430 FX Triton Chipset; bus PCI/ISA.
I dettagli di alcune di queste storie si trovano qui.
Una statua dedicata a Zappa a Vilnius, Lituania.
La discografia di Zappa è sterminata: qui alcuni estratti di Zappa serio diretto da Boulez (att.ne: sono estratti da vari pezzi e cambiano improvvisamente); qui estratti da Hot Rats del 1969 (idem); qui trovate molti altri estratti (att.ne: cliccate sull’altoparlante, non sul titolo).
.microsound è una mailing list non mediata orientata alla discussione degli stili della musica digitale e post-digitale spinta dalla diffusione dei sistemi software per l’elaborazione del suono. Il focus di .microsound è la discussione e l’esplorazione di una “estetica digitale” che si manifesta in una grande varietà di stili e discipline, dalla computer music accademica al post-industrial noise fino all’ambient sperimentale e alla post-techno.
Ok, queste sono le dichiarazioni ufficiali. Promesse difficili che comunque .microsound mantiene lanciando progetti innovativi e a volte quasi provocatorii, invitando a parteciparvi chiunque si senta coinvolto.
Ne esce un’estetica che a tratti sfiora noise e lo-fi, in ogni caso stimolante. Non è tutto oro, ma è spesso affascinante.
Fra i miei preferiti, city of the future, ispirato a Solaris, in cui potete ascoltare, fra i molti contributi, questo poetico frammento di Andrey Kiritchenko. Ma anche alcune idee solo apparentemente folli come 7econds il cui tema è creare un brano di durata massima 7 secondi, ma con una forte valenza strutturale (tipo A-B-A, A-B-B-A, A-B-C-A…). O come π (pi greco) che chiede pezzi basati sul suddetto numero trascendente e durata di 3.14. O ancora butterFuct: non cliccate niente; aprite la pagina e lasciate che i vari brani arrivino (ma non con gli altoparlantini del computer per favore: ne sentite metà; paradossalmente il noise vuole una buona amplificazione).
Andateci.
La citazione con cui iniziava il post precedente è di David Lee Myers, un compositore che si trova nella scomoda situazione di essere sconosciuto al grande pubblico perché non fa “pop” e sconosciuto agli accademici perché i suoi lavori non si inseriscono nella tradizione “colta”. Però è conosciuto dagli sperimentatori a oltranza, da quelli che non si accontentano di ri-elaborare delle idee maturate nell’ambito di una corrente, quelli un po’ scontenti e un po’ solitari che regolarmente disfano quello che hanno appena fatto per il gusto di ricominciare da capo.
Proprio le considerazioni di cui al precedente post hanno condotto D. L. Myers alla pratica di una musica estrema, totalmente priva di input: niente partitura, nessuna tastiera, nessun suono da elaborare, nessun sistema di sintesi propriamente detto. Una musica in cui sia i suoni che le strutture non nascono dalla pressione di un tasto o dal fatto che qualcuno mette giù un accordo, ma dall’interazione spontanea di una serie di circuiti collegati fra loro in retroazione che l’essere umano si limita a controllare.
Quello che Myers faceva, già nel 1987 con apparecchiature analogiche, era feedback music.
Il feedback positivo in una catena elettroacustica è stato sperimentato, con fastidio, da chiunque abbia usato un microfono e lo abbia inavvertitamente puntato verso gli altoparlanti. In breve si produce un fischio lancinante, mentre i tecnici si lanciano verso il mixer per abbassare il volume.
Questo problema, meglio conosciuto come Effetto Larsen, si verifica perché il microfono, a volume un po’ troppo alto, capta dei suoni che vengono amplificati e inviati all’altoparlante. Se gli stessi suoni, in uscita dall’altoparlante, vengono nuovamente captati dal microfono, amplificati e ri-inviati all’altoparlante, si crea una retroazione positiva tale per cui entrano in un circolo chiuso in cui vengono continuamente amplificati fino ad innescare un segnale continuo a forte volume.
Come si può immaginare, il feedback è un po’ il terrore di tutti i tecnici del suono, ma in determinate circostanze può essere controllato e se può essere controllato, può anche diventare uno stimolo per uno sperimentatore.
Bisogna puntualizzare che non si tratta di una idea di Myers. Ai tempi della musica elettronica analogica questo effetto è stato utilizzato in parecchi contesti. Io stesso ne ho fatto uso in una installazione audio-video del 1981 (si chiamava “Feedback Driver”, appunto), ma credo che negli anni ’80 l’abbiano provato un po’ tutti, con alterni risultati. I miei primi ricordi relativi a questa tecnica risalgono al lavoro di Tod Dockstader, un ricercatore e musicista americano relativamente poco noto, anche se alcune sue musiche sono finite nel Satyricon di Fellini.
Quello che distingue Myers dagli altri, però, è l’averne fatto una vera e propria poetica. Lui non sfrutta il feedback per elaborare qualcosa, non parte da elementi esterni o da algoritmi di sintesi, ma collega in retroazione una serie di dispositivi (principalmente mixer e multi-effetti) e variando i volumi sul mixer (che a questo punto diventa la sua “tastiera”) e cambiando tipo e profondità degli effetti ne trae una serie di sonorità suggestive, sempre in bilico fra il fascino di una musica che si muove in modo quasi biologico e il totale disastro delle macchine fuori controllo. Senza dubbio, Myers è un virtuoso, ma, a differenza del virtuoso tradizionalmente inteso, lui non domina il proprio strumento. Piuttosto lo asseconda, cercando di spingerlo in una direzione, come nei due brani qui sotto. Qui la composizione consiste nel definire una rete di collegamenti fra i dispositivi e la tecnica si fa estetica.
Sul suo sito, nella sezione “releases“, troverete molti altri estratti.
True electronic music does not imitate the classical orchestra or lend well worn melodies the cloak of unexpected timbres – it exists to evoke the hitherto unknown. And it comes from circuits and wires, though I do not believe that electronic sound is “unnatural”, as some people might. La vera musica elettronica non imita l’orchestra classica e non presta un mantello di timbri inattesi a melodie ben formate – essa esiste per evocare ciò che fino ad ora è sconosciuto. E nasce da circuiti e cavi, ciò nonostante io non credo che il suono elettronico sia così “innaturale” come qualcuno pensa.
[David Lee Myers, 1988]
Credo di poter tranquillamente dire che queste parole sono condivise, almeno in linea teorica, dalla maggior parte dei compositori che lavorano nell’area della musica elettronica (o della musica digitale, visto che l’elettronica analogica praticamente non esiste più).
Personalmente le condivido. Tuttavia, dopo un primo periodo decisamente improntato alla sperimentazone, mi sembra che la situazione attuale veda un momento di riassorbimento della musica elettronica nell’area della musica strumentale sia sotto il profilo dell’esecuzione che sotto quello dell’estetica.
Mi rendo conto che può trattarsi semplicemente di un periodo di assestamento benefico che può portare all’entrata della musica elettronica nella più generale concezione di “musica”, ma, in ogni caso, la mia impressione è che, in questo processo, qualcosa di importante vada perso.
Il problema dell’esecuzione
Per quanto riguarda l’esecuzione, è sempre piuttosto difficile, almeno in Italia, proporre concerti di sola musica elettronica, senza strumentisti live. Qualcuno sostiene trattarsi di una necessità connaturata alla fruizione musicale. Può darsi. Ma si tratta di una necessità reale, cioè legata alla qualità della musica prodotta oppure soltanto psicologica, determinata dal fatto che il pubblico non accetta di rivolgersi a un palco vuoto?
Per quanto mi riguarda, propendo per la seconda ipotesi. Racconto una mia esperienza. Una volta ho eseguito in concerto un brano elettronico suonando in playback. Per dirla in termini terra-terra, mi sono presentato su un palco con un computer, un mixer e qualche altro ordigno che ho manipolato dal vivo con mosse collegate alla musica che in realtà il computer stava riproducendo senza nessuna partecipazione da parte mia, leggendo un file.wav (inutile chiederlo; non dirò mai quando è stato). La cosa è perfettamente possibile e molto facile, se pensate che in entrambi i casi (CD o esecuzione live) il suono esce solamente dalle casse.
In quell’occasione il mio brano ha avuto un buon successo, che non so se avrebbe avuto in egual misura se fosse stato proposto come una riproduzione da CD. Ma quello che mi ha veramente colpito è stato il fatto che alcune persone, musicalmente non ingenue (anche qualche compositore), che conoscevano il pezzo per averlo ascoltato a casa propria su CD, sono venute a complimentarsi dicendomi che quel brano, eseguito dal vivo, acquistava una grande intensità rispetto alla versione registrata, mentre ovviamente era perfettamente identico.
Ora, cercate di capire: in quell’occasione non ho voluto prendere in giro nessuno. Si trattava di un esperimento che, ammetto, è andato al di là delle mie aspettative, ma mostra ancora una volta quanto la nostra percezione della realtà sia confusa.
In realtà quelle persone non sono stupide. Semplicemente era la prima volta che sentivano il brano a un volume da concerto, in una sala con buona acustica e con 4 ottime casse, trovandosi, quindi, totalmente avvolte nel suono, invece che in una situazione casalinga con solo 2 casse frontali, di solito piccole, non eccelse e soprattutto a volume medio-basso.
Tutto ciò mi porta a concludere che la difficoltà di accettazione dell’esperienza acusmatica (ascolto del suono isolato da un contesto visivo: acusmatiche erano le lezioni di Pitagora che parlava ai discepoli nascosto da una tenda perché potessero concentrarsi esclusivamente sulle sue parole) sia principalmente di carattere psicologico. Ovviamente mi piacerebbe sentire molte altre opinioni.
Il problema estetico
Il problema estetico si può riassumere in queste parole: nel comporre un brano elettronico deve essere cercata una estetica specifica alla musica elettronica, strettamente legata allo strumento elettronico e da quest’ultimo determinata? Magari anche a costo di rinunciare a una maggior facilità di ascolto?
Se, per esempio, penso a un pezzo storico come Kontakte, vedo una grande coerenza compositiva in cui la scelta del materiale di base e della tecnica di sintesi determinano in gran parte il risultato finale.
Al contrario, ultimamente mi capita molto spesso di ascoltare brani per strumenti ed elettronica in cui quest’ultima è piegata alle esigenze strumentali, a cominciare dall’uso del sistema temperato fino alla costruzione dei suoni. In questa situazione l’elettronica è vista come un allargamento delle sonorità strumentali, ma non sviluppa un discorso autonomo.
Nello stesso tempo, sento delle composizioni strumentali che, dal punto di vista teorico, verrebbero molto meglio se fossero fatte con l’elettronica. Consideriamo, per esempio, la musica spettrale francese. Ora, io apprezzo questo tipo di musica, la ascolto volentieri e spesso mi piace. Quando, poi, guardo le partiture, le vedo piene di quarti di tono che l’esecutore, per quanto preparato, esegue sempre vagamente e non tutti.
Allora ne deduco che, rispetto ai suoi presupposti teorici, la musica spettrale è una farsa oppure la nozione di “spettralità” è soltanto una fonte di ispirazione perché è inutile pretendere che uno strumentista piazzi una nota sull’11mo armonico di un DO, cioè esegua un FA# calante di una quantità che è oltretutto diversa dal quarto di tono. Evidentemente questa musica sarebbe molto più coerente con la propria teoria di base se fosse elettronica. Questa cosa mi sembra così evidente che mi chiedo se la rinuncia all’elettronica da parte di questi compositori sia dettata da incapacità, necessità (non si vive senza dare una partitura agli editori) o scelta personale.
E di conseguenza mi chiedo anche se la musica elettronica come io la concepisco, cioè come mezzo espressivo autonomo, portatore di una propria estetica, eventualmente utilizzabile insieme agli strumenti tradizionali, ma senza perdere le proprie caratteristiche, esista ancora.
Le domande
In pratica, alla luce di queste considerazioni, gli argomenti di riflessione, su cui sollecito un intervento sia da parte dei compositori che degli studenti (ma anche da chiunque si interessi alla musica) sono i seguenti:
Attualmente è concepibile una musica priva di esecutore visibile o no?
Una estetica propria della musica elettronica e ad essa specifica è ancora possibile?
Mi piacerebbe qualche risposta (potete anche dire che sono sbagliate le domande…)
In realtà succede per caso, però sono molto contento di aprire questo blog parlando di John Cage.
Nella piccola chiesa di St. Burchardi, in Halberstadt (Germania), è in corso l’esecuzione di Organ2/ASLSP di Cage, iniziata nel 2001, la cui durata prevista è di 639 anni (finirà nel 2639).
In breve 🙂 la storia è questa.
La Composizione
L’ASLSP originario è un brano del 1985 per pianoforte solo: 4 pagine manoscritte, nello stile sparso e delicato dell’ultimo Cage. Il titolo è insieme una indicazione esecutiva e un riferimento al sempre presente Finnegan’s Wake:
The title is an abbreviation of ‘as slow as possible.’ It also refers to ‘Soft morning, city! Lsp!’ the first exclamations in the last paragraph of Finnegans Wake (James Joyce).
(Cage, note collegate alla partitura)
Si tratta di un lavoro in 8 sezioni, una delle quali, all’atto dell’esecuzione, deve essere omessa e sostituita con una qualsiasi altra, che, quindi, viene ad essere eseguita due volte.
La notazione è quella tipica di molti lavori di Cage, con parti non correlate fra le due mani, ma da eseguirsi simultaneamente. Le altezze sono scritte in modo preciso, mentre le durate devono essere calcolate, con una certa approssimazione, in base alla distanza fra le note. Il tempo e la dinamica sono liberi (ma quest’ultima dovrebbe essere soft). Nelle diverse esecuzioni, la durata varia fra 6 e 25 minuti.
Nel 1987, su suggerimento dell’organista Gerd Zacher, l’indicazione strumentale venne estesa all’organo e il titolo divenne Organ2/ASLSP. Chiaramente, la versione per organo è radicalmente diversa da quella per piano. Da un lato, infatti, scompare quel delicato gioco di risonanze generato da alcuni tipici manierismi cagiani, come quello degli accordi eseguiti in staccato, tranne una nota che può essere tenuta anche oltre l’estinzione e vibra per simpatia come un pedale tonale. Dall’altro, però, il cambiamento investe in modo sostanziale l’interpretazione dell’indicazione “as slow as possibile” che può essere estesa praticamente all’infinito, grazie alle note tenute. Se, con il pianoforte, tenere un accordo per 10 minuti non ha senso o, al massimo, ha un senso cagiano (l’irrompere dei suoni esterni nello spazio che si crea nella composizione), con l’organo siamo al bordone potenzialmente infinito alla La Monte Young.
In effetti, nel 1997, a Trossingen, organisti e musicologi riuniti a congresso si trovarono a dibattere, fra l’altro, dell’interpretazione di quel “as slow as possibile”, contemplando anche la tesi estrema di una composizione che trascende i limiti non solo del tempo di un concerto tradizionalmente inteso, ma del tempo stesso (il desiderio di eternità è connaturato alla specie umana). Di qui, il progetto.
Il Progetto
Il progetto è quello di una esecuzione, localizzata in Halberstadt, della durata di 639 anni. Perché Halberstadt e perché 639 anni?
Semplicemente perché la cattedrale di Halberstadt ospita il primo organo liturgico di cui si abbia notizia, il Blockwerk organ di Nikolaus Faber. Questo strumento è anche il più antico organo esistente con tastiera a 12 note organizzata secondo lo schema di quelle attuali, il che comunque non comporta una accordatura temperata. La suddetta tastiera risale, infatti, al 1361, cioè 639 anni prima del 2000, anno del secondo millennio e della presentazione del progetto.
C’è, dunque, un collegamento simbolico, un passaggio di testimone fra uno degli organi più antichi e il più popolare compositore contemporaneo (oggi, su Google, John Cage ha 26.800.000 reference, Stockhausen 3.170.000, Boulez 2.520.000, Schoenberg 5.130.000, Webern 1.520.000 e il sottoscritto meno di un migliaio. Per confronto, l’intera famiglia Bach ne ha 78.300.000).
Il luogo dell’esecuzione è la cappella sconsacrata di St. Burchardi, una delle più antiche d’Europa (ca. 1050), più volte semidistrutta e ricostruita e attualmente lasciata in stato di degrado. Si è reso, quindi, necessario un restauro. Nella stessa, inoltre, è stato anche piazzato un nuovo organo che è tuttora in via di ampliamento (nuove canne vengono installate via via che si rendono necessarie altre note).
L’esecuzione è iniziata nel 2001, il 5 Settembre, data di nascita di Cage, il cui spirito ironico si è manifestato alla cerimonia di apertura quando l’organista si è limitato ad avviare lo strumento e andarsene, in quanto la partitura inizia con una pausa la cui durata, fatti i debiti calcoli, risulta essere di un anno e mezzo.
Solo nel febbraio 2003 si sono sentite le prime note: una triade SOL#,SI, SOL# alla quale, nel 2004, si sono aggiunti due MIb in 8va, destinati a terminare il 5 Maggio di quest’anno. Il 2006 è comunque un anno ricco di eventi perché il 5 Gennaio quel che rimaneva del primo accordo era stato sostituito dal secondo: LA, DO, FA# (ovviamente i tasti vengono bloccati con dei pesi).
Per convenzione, tutti i cambiamenti vengono eseguiti il 5 di ogni mese alle 5 pm, sia per ricordare il giorno di nascita del nostro, che per facilitare la vita ai turisti.
Infine, per la modica cifra di € 1000, potete dare il vostro nome a un anno e sponsorizzare parte del progetto (anche in condivisione): una targa metallica viene piazzata sul posto con il vostro nome e una frase di vostra scelta. Gli anni fino al 2010 e anche altri nell’arco di una vita umana, sono già stati venduti. Più avanti nel tempo c’è ancora molto posto, sebbene alcuni ottimisti abbiano già acquistato il 2639.
Qualche riflessione
IMNHO (in my never humble opinion), credo che i sospetti di strumentalizzazione che nascono inevitabilmente di fronte a operazioni di questo tipo, possano essere messi da parte. Se, da un lato, è vero che la connessione con Cage può apparire forzata e gratuita (ci sono vari autori contemporanei più significativi per l’organo rispetto a lui, per es. Messiaen, e la stessa idea di composizioni che durano anni è di La Monte Young), è anche vero che nessuno ha proposto sfide visionarie come il nostro e che con questo progetto si raggiungono alcuni risultati apprezzabili:
si restaura una chiesa del 1050
si crea un ambiente tranquillo con un bordone di sottofondo
si ricorda John Cage
si stimola qualche discussione
Soprattutto quest’ultimo punto mi interessa. Perché, se a qualche mente limitata una composizione di 639 anni può sembrare solo un’idea balzana, per una che fa lavorare la propria immaginazione è una bella fonte di riflessione.
Innanzitutto, il senso musicale. Anche con durate di gran lunga inferiori a 639 anni, il senso della composizione svanisce. Come insegna la psico-acustica, quando un evento dura abbastanza da “bucare” la capacità della memoria a breve termine (inferiore al minuto), la sua connessione con il tutto si perde. In pratica, se si suona una banale progressione armonica tenendo ogni accordo per un tempo superiore al minuto, non si ha più la sensazione di una progressione, ma ogni accordo tende a diventare un mondo a sè.
Così, entrando nella chiesa di St. Burchardi non si ascolta una parte di una composizione, almeno non nel senso che diamo comunemente a queste parole. Piuttosto si entra in un ambiente che in quel momento è in quello stato. Magari il bordone è una 8va tranquilla, mentre tornando 6 mesi dopo c’è una dissonanza raccapricciante ed è bella l’idea di un ambiente sonoro che si evolve come un ambiente biologico.
Quindi, dal punto di vista sonoro, si tratta di una esperienza che, per la maggior parte della gente, è nuova, e questa è una delle funzioni dell’arte.
Veniamo adesso alla durata. 639 anni sono un sacco di tempo. In passato, simili distese temporali erano prese in considerazione solo dalle religioni (…nei secoli dei secoli…) o dagli imperi (l’imperatore dei 10.000 anni), come metafora di eternità e quindi di potenza, ma il loro unico vero scopo era quello di arginare il grande buio, di spingere l’uomo a progettare nonostante la morte, a pensare al di là non solo del contingente, ma della propria vita, cosa che, a quanto ne sappiamo, è la vera caratteristica unica dell’homo sapiens sapiens.
Adesso, nella nostra civiltà che evolve rapidamente, non siamo più abituati a pensare e a progettare in questi termini di tempo. Quale fra le cose costruite nel dopoguerra è stata progettata per durare 639 anni? Certamente non il condominio in cui vivo, ma nemmeno grandi cose come il nuovo aeroporto di Tokyo o Postdamer Platz a Berlino.
In realtà, mi chiedo se lo abbiamo mai fatto. Molto probabilmente i romani, quando costruivano arene e acquedotti, non immaginavano che sarebbero state ancora qui dopo più di 2000 anni e gli stessi costruttori della più grande opera in muratura della storia, la Grande Muraglia, non costruivano certo per i millenni, ma solo per tener lontani i barbari, peraltro con scarsi risultati. Mi chiedo anche se i progettisti delle piramidi guardassero ai millenni chiudendo gli occhi e immaginando la piana di Giza o pensassero solo a una tomba imponente per il faraone/dio.
Paradossalmente, le uniche opere moderne progettate per durare non secoli, ma decine di millenni non sono destinate alla gloria della specie umana, ma alla testimonianza della sua idiozia: sono i depositi delle scorie radioattive che decadono in 10 o 20.000 anni o il sarcofago di Chernobyl che racchiude 190 tonn. di uranio e una di plutonio, mortali per chiunque si avvicini.
Il Cage-OrgelProjekt, invece, è una costruzione culturale che non ha bisogno di grandi mezzi, ma è specificamente progettata sulla durata.
Una delle cose più intriganti di questo progetto, sempre ammesso che riesca, è proprio questa. Ripeto, 639 anni sono un sacco di tempo. Come cambieranno il mondo e la stessa razza umana in tutto questo tempo? Chi ci sarà, se mai ci sarà qualcuno, a vedere il rilascio dell’ultimo tasto? Sarà ancora umano?
E poi, che significato assumerà questo luogo in cui risuona un eterno bordone, fra 3 o 400 anni? E cosa ci sarà intorno? Sembrano domande banali, ma pensando alle sfide che ci aspettano, riscaldamento globale, conflitti economici, risorse naturali, ma anche tecnologia, spazio, ingegneria genetica, etc, mi fa un po’ rabbia il non saperlo.
Penso anche che la cappella di St. Burchardi e il suo eterno bordone siano un buon tema per un racconto di fantascienza (ho suggerito agli organizzatori di creare un concorso).
Qualcuno dice che una vita troppo lunga non ha senso, ma essere fra il pubblico alla fine mi piacerebbe, credetemi. Firmerei subito. Ho le mie ragioni.