A Carlo Scarpa architetto…

Luigi Nono
A Carlo Scarpa architetto, ai suoi infiniti possibili (1984)
per orchestra a microintervalli.
Sinfonieorchester des Südwestfunks, Michael Gielen, direction.

A Carlo Scarpa architetto, ai suoi infiniti possibili è opera dell’ultima vertiginosa stagione creativa del compositore veneziano, segnata dall’assoluta libertà formale, da un tessuto musicale fatto di lancinanti frammenti e importantissimi silenzi divarie sfumature, di anticipi e tensioni a quello che ancora mancao a quello che a fatica si ode. Dopo i trent’anni di una splendida stagione creativa, dai contenuti umanissimi e politici, Nono approda all’Unklangbar di Wittgenstein, alla violenza espressiva dell’irresonabile (come può tradursi il neologismo wittgensteiniano). Il compositore, anima autenticamente rivoluzionaria, intesse le sue partiture di pianissimo (sino a sette p!) contro la violenza non solo acustica del quotidiano contemporaneo ma anche contro la violenza di un passato musicale spesso subìto, cerca un “mondo lontanissimo e misterioso […] per sognare vari possibili futuri”. Il lavoro compositivo è sempre più fatto con altri, che sia l’Iperuranio di menti elevate che abitano gli studi, le letture e il lavorìo intellettuale del compositore, che sia fisicamente il lavoro sperimentale fatto con i musicisti interpreti, ormai consustanziale all’idea creativa: “ascoltare nel silenzio gli altri l’altro”. Il suono si carica del senso dell’essere e la sua naturale evidenza, non piegata da ragioni formali, crea una condizione di tensione permanente sentita come l’unica autenticamente umana. Evidentemente non c’è nulla di superfluo in questi luoghi sonori di arrischiata immaginazione. Se già del Canto sospeso erano stati rilevati la concentrazione eloquente e il riserbo, le isole di suono dell’ultima produzione, “infiniti colori-suoni-echi-spazi”, sono le illuminazioni di un mistico. E Nono trova il motto del suo ultimo ciclo di lavori, “caminantes, no hay camino, hay que caminar” a Toledo nel chiostro di un convento francescano del XVIII secolo.
In A Carlo Scarpa risuona l’utopia degli infiniti possibili, in perfetta consonanza col lavoro creativo dell’architetto amico, che parimenti usava dello spazio come elemento compositivo. Una natura aristocraticamente artigianale, il genio per i dettagli tecnologici, la raffinata sensibilità materica e la tensione creativa verso spazi possibili (e impossibili) avvicinano Scarpa a Nono, che nell’opera in memoria dell’amico realizza i suoi frammenti su due sole note mosse da microintervalli di 1/4, 1/8 e 1/16 di tono, sugli aloni e gli “infiniti colori-suoni-echi-spazi” derivati  da una impressionante gamma di dinamiche: “Microintervalli di altezza e di dinamica sono tecnicamente possibili evitando banali approssimazioni ed effetti inquinanti di ottave, articolando tecnica e qualità del suono, vari gradi di sua presenza-pensiero, varie gradualità possibili tante, tutte da poter ascoltare”.
L’orchestra è attentamente pensata: mancano gli oboi e la tuba e sono rafforzati i flauti e i tromboni, il gruppo ascetico delle percussioni (campane, timpani e 7 triangoli di diversa altezza) è come un’orchestra Zhou (Cina 1075-221 a.C.) e gli archi senza secondi violini sono otto per sezione. Ne nasce un’opera ieratica, di spazi cupi e sacri che potrebbero essere occupati da silenziosi e misteriosi rituali.
Non si può tacere il nome di Scelsi parlando di un lavoro sulle variazioni microtonali di due unici suoni, e tutto sommato il nome di Scelsi getta luce sul percorso estremo di Nono legato a tante fascinazioni alchemiche, al confine del non poter dire – un processo che Cacciari, che così spesso ha trovato all’ultimo Nono le
parole per dire, definisce kenotico, di svuotamento. Dunque anche Nono verso una riduzione che apre l’ascolto di tempi e spazi inauditi; il ricercare luoghi sonori abitati da una tensione verso l’infinito avvicina Nono a Scelsi, e a Scarpa, come Scelsi più consapevole dell’Oriente presente in tale percorso. Eppure per Nono, diversamente che per Scelsi, non si tratta di una liberazione dal mondo ma di una liberazione del mondo, dall’imposizione che lo condanna al male dell’insignificanza o alla meccanicità dell’accadere, sognando un futuro concretamente possibile, come gli infiniti di Carlo Scarpa, per “non dire addio alla speranza”.
[Luciana Galliano]

A Pierre. Dell’Azzurro silenzio, inquietum

Luigi Nono: A Pierre. Dell’Azzurro silenzio, inquietum (1985)
a più cori, per Flauto contrabbasso in Sol, Clarinetto contrabbasso in Si bemolle e live electronics(1985)

Roberto Fabbriciani, Flauto
Ciro Scarponi, Clarinetto

Possibilmente ascoltatelo con qualcosa di meglio delle cassettine da computer.

Dedicato a Pierre Boulez per i suoi 60 anni (compiuti il 26 marzo 1985), A Pierre. Dell’azzurro silenzio, inquietum fu eseguito per la prima volta il 31 marzo 1985 a Baden-Baden, con Roberto Fabbriciani, Ciro Scarponi e la realizzazione live electronics dell’Experimentalstudio di Friburgo. La partitura porta la data 20 febbraio 1985.

La collaborazione con Fabbriciani (flauto) e Scarponi (clarinetto) e l’indagine sui loro strumenti ha un posto di grande rilievo nella ricerca dell’ultimo decennio di Nono, nello scavo nella vita interiore del suono compiuto con l’aiuto dell’elettronica dal vivo e di alcuni interpreti congeniali. La ricchezza di armonici del flauto contrabbasso è uno degli aspetti indagati nel pezzo, dove l’apporto degli strumentisti dal vivo e quello del live electronics è difficilmente distinguibile, perché si persegue una compiuta integrazione, una fusione tra suoni dal vivo e suoni elaborati elettronicamente: insieme formano una fascia sonora ininterrotta caratterizzata da un continuo fluttuare, da una mobilità interna delicatissima e incessante, composta nello spazio e per lo spazio, alle soglie tra il suono e l’ “azzurro silenzio”.

Mobilità e spazialità sono aspetti decisivi e spiegano perché Nono può usare a proposito di un pezzo per due strumenti l’espressione ‹‹a più cori››, riprendendo la terminologia veneziana del secolo dei Gabrieli, da lui usata in molte altre occasioni (ad esempio chiamò “cori” i sette gruppi strumentali di No hay camino, hay que caminar…Andrej Tarkovskij).

Scrisse nel breve testo di presentazione:
Più cori continuamente cangianti per formanti di voci-timbri-spazi interdinamizzati e alcune possibilità di trasformazione del live electronics ‹‹Più cori continuamente cangianti››: di questo appunto si tratta. Nella parte dei due solisti, con dinamiche quasi sempre comprese tra “piano” (p) e “pianissimo” (ppppp), con rare incursioni fino al “mezzo forte”, è richiesta una continua varietà di modi di emissione, dal suono in emissione ordinaria a quello in cui prevale il rumore d’aria, con presenza variabile o assenza di altezze determinate, dai sovracuti suoni “eolien”, ai suoni con fischio, ai cluster, ai bicordi di armonici, dove talvolta dovrebbe apparire, come intermittente, discontinuo “suono ombra”, il suono fondamentale dei bicordi.

L’elettronica, determinante per l’articolazione nello spazio, aiuta a rendere percepibili i suoni degli strumenti, di incorporea levità, li trasforma e se ne appropria attraverso il “delay”, facendo in modo che con breve “ritardo” il suono registrato entri a far parte del suono complessivo. Con il delay il suono dello strumento si ascolta anche quando il solista tace, e anche in questa continuità si riconosce un aspetto della fusione tra strumenti ed elettronica che è determinante nel pezzo.
[Paolo Petazzi in cematitalia]

Nota mia:
Il ritardo di cui sopra non è propriamente breve, musicalmente parlando. Si tratta di due delay di 12 secondi, a tratti utilizzati anche in serie per un totale di 24 secondi. In questo modo si crea il continuum sonoro.