Intervista Lachenmann

Ermes mi segnala che l’Osservatore Romano ha pubblicato una breve intervista con Helmut Lachenmann, premiato il 3 ottobre dalla Biennale musica di Venezia con il Leone d’Oro alla carriera con la seguente motivazione:

Amatissima e controversa, la musica di Helmut Lachenmann ha avuto ed ha una grande influenza sui compositori di almeno due generazioni. La concezione molto radicale e utopica a un tempo di un suono disseccato, spogliato di peso semantico fino a raggiungere uno stato che si può definire “minerale”, ha emblematicamente siglato le estreme conseguenze dell’avanguardia musicale strutturalista. Ma contemporaneamente, e questo è l’aspetto forse più interessante e anche sorprendente, ha aperto un nuovo mondo sonoro forzando provocatoriamente i limiti della percezione. Nata da una concezione negativa dell’orizzonte semantico, ha infine dischiuso una nuova idea di linguaggio e, per così dire, una nuova forma di “verginità” della materia sonora

L’intervista, nella sua, brevità, è simpatica e il premio a Lachenmann è sacrosanto (appunto 🙂 ), ma la motivazione mi inquieta un po’.

Se da un lato non ho nulla da eccepire al premio, dall’altro mi è difficile non rilevare che la motivazione suddetta si adatterebbe benissimo a qualche compositore di musica elettronica o, meglio, digitale. Musica che, invece, viene generalmente ignorata, o al massimo sopportata, dalla gran parte delle rassegne nazionali.

In anni recenti, anzi, abbiamo assistito alla ripresa e al “porting” (per usare un termine informatico) in area strumentale di idee sviluppate dall’elettronica e dal digitale. La stessa musica spettrale, che, per carità, ha prodotto opere notevoli nelle mani di compositori come Grisey, Murail, Radulescu e quant’altri, altro non è che un adattamento strumentale tecnicamente improbabile di idee sviluppate e utilizzate già da anni nella musica digitale.

E dico “tecnicamente improbabile” perché è assurdo chiedere a un violinista di eseguire un RE# crescente di 28 cents, in quanto 23° armonico di un LA 110 Hz, anche se, bontà sua, approssimato al quarto di tono. Gli strumenti classici non sono fatti per questo e a mio avviso, dal punto di vista tecnico, l’intera nozione di musica spettrale strumentale è soltanto un’idea, un concetto, una fonte di ispirazione. Si tratta, in pratica, di un ideale che viene tradotto per approssimazione in una partitura che, a sua volta, è tradotta in modo approssimato in esecuzione. L’unico modo di farlo davvero è utilizzare un sistema digitale, cosa che, del resto, è stata fatta ben prima da persone come, per es., Truax e Risset.

Lo stesso discorso può applicarsi, in fondo, a cose come la fasce sonore di Ligeti (che resta sempre un grande). Nello stesso modo, la musica concreta strumentale di Lachenmann è bellissima, ma, secondo me, non ha affatto “aperto un nuovo mondo sonoro forzando provocatoriamente i limiti della percezione”. Elaborazioni di suoni strumentali e non che fanno la stessa cosa ne esistono da sempre nella musica concreta analogica e digitale.

Quindi, senza alcuna vena polemica, mi chiedo per quanto ancora una gran parte del mondo musicale accademico si ostinerà a restare per quanto possibile unplugged e se questo dipenda da ragioni estetiche o semplicemente dal fatto che la musica elettronica, digitale, via laptop, etc., scardina meccanismi di mercato consolidati assicurati dalla triade compositore – editore – interprete.

In altre parole, è soltanto l’impossibilità di disporre di una partitura standard per gli strumenti elettronici a generare il problema o c’è dell’altro?

Atti convegno su rock britannico

Here you can download the Proceedings of the International Conference “Composition and Experimentation in British Rock 1966-1976” held in Cremona, Italy, 2005.
There are very interesting lectures by reaserchers and musicians. Here is the index in english.

Da questo sito dell’Università di Pavia si possono scaricare gli atti del convegno “Composizione e sperimentazione nel rock britannico:1966-1976”, tenutosi a Cremona nell’ottobre 2005.
Alcuni interventi sono molto interessanti. Ecco l’indice in italiano:

Introduzione

Gianmario Borio / Serena Facci, Quarant’anni dopo… Una musicologia pluralistica per il rock britannico

Il paesaggio culturale

John Covach, L’estetica hippie: posizionamento culturale e ambizioni musicali nel primo progressive rock
Franco Fabbri, “Non al primo ascolto.” Complessità progressiva nella musica dei gruppi angloamericani, 1960-1967
Veniero Rizzardi, Il rock e l’autocritica del compositore

Nuovi strumenti e nuove tecnologie

Christophe Pirenne, Romanticismo vs economia: le tecnologie e lo sviluppo del progressive rock
Lelio Camilleri, Loop, trasformazioni e spazio sonoro
Laura Leante, Aspetti multimediali dell’esibizione concertistica

Tecniche compositive

Mark Spicer, Foxtrot dei Genesis
Allan Moore, Octopus dei Gentle Giant
Vincenzo Caporaletti, Third dei Soft Machine

Poesia e canto

Dai Griffiths, Musica memorabile, parole trascurabili? I dilemmi della canzone del progressive rock inglese tra underground e mainstream, circa 1972
Roberto Agostini / Luca Marconi, Voce, melodia e parole nel primo progressive rock inglese

Workshop: Le procedure compositive nei gruppi progressive rock

Chris Cutler (Henry Cow)
Hugh Hopper (Soft Machine)
Toni Pagliuca (ex Orme)

Tavola rotonda: Le procedure compositive all’incrocio tra i generi

Mario Garuti, Come angeli annoiati
Maurizio Pisati, Insegnare e segnare utopie
Nicola Sani

Le ragioni del cambiamento

La domanda/commento di nicola al post sul momento del cambiamento pone, in breve, il seguente problema: perché, a quel punto della storia, la musica dei morti cominciò a contare di più di quella dei vivi?
Non abbiamo una risposta definitiva, comunque, sempre secondo Sandow, all’inizio del 19mo secolo cominciò a formarsi l’idea che vedeva nell’epoca classica un periodo d’oro, di perfezione assoluta.
Così cominciò anche ad emergere l’idea di musica classica; l’idea, cioè, che la musica di alcuni compositori del passato avesse un valore trascendente, che non fosse mero entertainment e quindi che dovesse essere ascoltata con grande attenzione e che dovesse essere eseguita esattamente com’era stata scritta.
E naturalmente anche i compositori del’800 cominciarono ad aspirare a scrivere musica del genere. Una musica che esprimesse sentimenti superiori, non un semplice divertimento. Una musica che li rendesse immortali, anche. E per il romanticismo, così pieno di nostalgia, di grandi ideali e di spinta verso l’assoluto, una concezione del genere era perfetta.
Il sentimento romantico di reverenza per il passato perduto è ben rappresentato da questo aneddoto raccontato da Berlioz e riportato da Peter Gay nel suo libro The Naked Heart.
Berlioz racconta che Listz, durante un concerto, aveva suonato il Chiaro di Luna di Beethoven rovinandolo con una quantità di trilli, tremoli e abbellimenti che strappavano applausi al pubblico.
Più tardi, però, senza il pubblico e alla presenza degli amici, aveva fatto spegnere tutte le luci, suonando al buio l’Adagio dalla stessa sonata e qui Berlioz dice:

…dopo un attimo di pausa, iniziò nella sua sublime semplicità la nobile elegia che prima aveva così duramente sfigurato; ma stavolta non una nota, non un accento erano diversi da come li aveva pensati il compositore. Quello che stavamo ascoltando era la fusione dello spirito di Beethoven con il grande virtuoso. Tutti noi tremavamo in silenzio e dopo l’estinguersi dell’ultimo accordo, nessuno osava parlare… eravamo in lacrime.

Qui c’è anche il primo indizio di scissione: il divertimento per il pubblico, la profondità del sentire per un ristretto cenacolo di veggenti.

Un altro aneddoto.
Jan Swafford, nella sua biografia di Brahms, racconta che nell’ottobre del 1895, Brahms si recò a Zurigo per dirigere il suo Triumphlied all’inaugurazione della nuova Tonhalle. Entrando nella sala, guardò sul soffitto i ritratti dei grandi compositori e vide Bach, Mozart, Beethoven… e sè stesso.
Sandow fa notare come questa fosse un’esperienza del tutto nuova. Bach, Mozart e Beethoven non avrebbero mai potuto trovarsi in una situazione del genere. E ricorda anche che, già nel 1840, l’insegnante di Brahms, Marxsen, affermava che le forme musicali create da quei compositori (più Haydn) erano “eternamente incorruttibili”.

Qualcosa era cambiato. Per sempre.

Il momento del cambiamento

Greg Sandow (storico dell’arte) pubblica questi dati che individuano con una certa precisione il momento in cui si è sviluppato il concetto di musica classica:

Fra il 1815 e il 1825, nei concerti promossi da una delle principali organizzazioni musicali di Vienna, il 77% della musica era di compositori viventi e solo il 18% di compositori morti (il restante 5% era di compositori a noi sconosciuti, di cui ignoriamo la biografia).
Nel 1849 la percentuale era quasi esattamente invertita.

Post-modernismo

Tanto per parlare dei cosiddetti “barbari” (quelli di Baricco su Repubblica), beccatevi questa tabella di opposizioni stilistiche allo scopo di identificare i modi attraverso i quali il postmodernismo si sarebbe posto come reazione al modernismo delle avanguardie artistico-letterarie del Novecento. Redatta da Ihab Hassan in Pluralism in Postmodern Perspective, in Critical Inquiry, 12, n. 3, 1986.
Decidendo da che parte vi riconoscete, per ogni riga, potreste calcolare il vostro tasso di post-modernismo.
Anzi, facciamo un calcolo un po’ brutale. Le righe sono 30, quindi basta contare le righe in cui vi piazzate nella colonna del post-moderno, dividere per 30 e moltiplicare per 100, per sapere il vostro tasso di post-modernismo espresso in percentuale.
C’è anche un sistema più raffinato, ma sarebbe un po’ complicato. Potrei scrivere un programmino…

Modernismo Postmodernismo
Romanticismo / Simbolismo Patafisica / Dadaismo
Forma (chiusa, congiuntiva) Antiforma (aperta, disgiuntiva)
Scopo Gioco
Disegno Caso
Gerarchia Anarchia
Mestria / Logos Esaurimento / Silenzio
Oggetto d’arte / Opera finita Processo / Performance / Happening
Distanza Partecipazione
Creazione / Totalizzazione Decreazione / Decostruzione
Sintesi Antitesi
Presenza Assenza
Accentramento Dispersione
Genere / Confine Testo / Intertesto
Paradigma Sintagma
Ipotassi Paratassi
Metafora Metonimia
Selezione Combinazione
Radice / Profondità Rizoma / Superficie
Interpretazione / Leggere Disinterpretare
Significato Significante
Lisible (Leggibile) Scriptible (Scrivibile)
Narrativo Antinarrativo
Dio Padre Lo Spirito Santo
Sintomo Desiderio
Fallico / Genitale Androgino / Polimorfo
Paranoia Schizofrenia
Origine / Causa Differenza — Differanza / Traccia
Metafisica Ironia
Determinazione Indeterminazione
Trascendenza Immanenza

Ma la musica elettronica esiste?

True electronic music does not imitate the classical orchestra or lend well worn melodies the cloak of unexpected timbres – it exists to evoke the hitherto unknown. And it comes from circuits and wires, though I do not believe that electronic sound is “unnatural”, as some people might.
La vera musica elettronica non imita l’orchestra classica e non presta un mantello di timbri inattesi a melodie ben formate – essa esiste per evocare ciò che fino ad ora è sconosciuto. E nasce da circuiti e cavi, ciò nonostante io non credo che il suono elettronico sia così “innaturale” come qualcuno pensa.
[David Lee Myers, 1988]

Credo di poter tranquillamente dire che queste parole sono condivise, almeno in linea teorica, dalla maggior parte dei compositori che lavorano nell’area della musica elettronica (o della musica digitale, visto che l’elettronica analogica praticamente non esiste più).
Personalmente le condivido. Tuttavia, dopo un primo periodo decisamente improntato alla sperimentazone, mi sembra che la situazione attuale veda un momento di riassorbimento della musica elettronica nell’area della musica strumentale sia sotto il profilo dell’esecuzione che sotto quello dell’estetica.
Mi rendo conto che può trattarsi semplicemente di un periodo di assestamento benefico che può portare all’entrata della musica elettronica nella più generale concezione di “musica”, ma, in ogni caso, la mia impressione è che, in questo processo, qualcosa di importante vada perso.

Il problema dell’esecuzione

Per quanto riguarda l’esecuzione, è sempre piuttosto difficile, almeno in Italia, proporre concerti di sola musica elettronica, senza strumentisti live. Qualcuno sostiene trattarsi di una necessità connaturata alla fruizione musicale. Può darsi. Ma si tratta di una necessità reale, cioè legata alla qualità della musica prodotta oppure soltanto psicologica, determinata dal fatto che il pubblico non accetta di rivolgersi a un palco vuoto?
Per quanto mi riguarda, propendo per la seconda ipotesi. Racconto una mia esperienza. Una volta ho eseguito in concerto un brano elettronico suonando in playback. Per dirla in termini terra-terra, mi sono presentato su un palco con un computer, un mixer e qualche altro ordigno che ho manipolato dal vivo con mosse collegate alla musica che in realtà il computer stava riproducendo senza nessuna partecipazione da parte mia, leggendo un file.wav (inutile chiederlo; non dirò mai quando è stato). La cosa è perfettamente possibile e molto facile, se pensate che in entrambi i casi (CD o esecuzione live) il suono esce solamente dalle casse.
In quell’occasione il mio brano ha avuto un buon successo, che non so se avrebbe avuto in egual misura se fosse stato proposto come una riproduzione da CD. Ma quello che mi ha veramente colpito è stato il fatto che alcune persone, musicalmente non ingenue (anche qualche compositore), che conoscevano il pezzo per averlo ascoltato a casa propria su CD, sono venute a complimentarsi dicendomi che quel brano, eseguito dal vivo, acquistava una grande intensità rispetto alla versione registrata, mentre ovviamente era perfettamente identico.
Ora, cercate di capire: in quell’occasione non ho voluto prendere in giro nessuno. Si trattava di un esperimento che, ammetto, è andato al di là delle mie aspettative, ma mostra ancora una volta quanto la nostra percezione della realtà sia confusa.
In realtà quelle persone non sono stupide. Semplicemente era la prima volta che sentivano il brano a un volume da concerto, in una sala con buona acustica e con 4 ottime casse, trovandosi, quindi, totalmente avvolte nel suono, invece che in una situazione casalinga con solo 2 casse frontali, di solito piccole, non eccelse e soprattutto a volume medio-basso.
Tutto ciò mi porta a concludere che la difficoltà di accettazione dell’esperienza acusmatica (ascolto del suono isolato da un contesto visivo: acusmatiche erano le lezioni di Pitagora che parlava ai discepoli nascosto da una tenda perché potessero concentrarsi esclusivamente sulle sue parole) sia principalmente di carattere psicologico. Ovviamente mi piacerebbe sentire molte altre opinioni.

Il problema estetico

Il problema estetico si può riassumere in queste parole: nel comporre un brano elettronico deve essere cercata una estetica specifica alla musica elettronica, strettamente legata allo strumento elettronico e da quest’ultimo determinata? Magari anche a costo di rinunciare a una maggior facilità di ascolto?
Se, per esempio, penso a un pezzo storico come Kontakte, vedo una grande coerenza compositiva in cui la scelta del materiale di base e della tecnica di sintesi determinano in gran parte il risultato finale.
Al contrario, ultimamente mi capita molto spesso di ascoltare brani per strumenti ed elettronica in cui quest’ultima è piegata alle esigenze strumentali, a cominciare dall’uso del sistema temperato fino alla costruzione dei suoni. In questa situazione l’elettronica è vista come un allargamento delle sonorità strumentali, ma non sviluppa un discorso autonomo.
Nello stesso tempo, sento delle composizioni strumentali che, dal punto di vista teorico, verrebbero molto meglio se fossero fatte con l’elettronica. Consideriamo, per esempio, la musica spettrale francese. Ora, io apprezzo questo tipo di musica, la ascolto volentieri e spesso mi piace. Quando, poi, guardo le partiture, le vedo piene di quarti di tono che l’esecutore, per quanto preparato, esegue sempre vagamente e non tutti.
Allora ne deduco che, rispetto ai suoi presupposti teorici, la musica spettrale è una farsa oppure la nozione di “spettralità” è soltanto una fonte di ispirazione perché è inutile pretendere che uno strumentista piazzi una nota sull’11mo armonico di un DO, cioè esegua un FA# calante di una quantità che è oltretutto diversa dal quarto di tono. Evidentemente questa musica sarebbe molto più coerente con la propria teoria di base se fosse elettronica. Questa cosa mi sembra così evidente che mi chiedo se la rinuncia all’elettronica da parte di questi compositori sia dettata da incapacità, necessità (non si vive senza dare una partitura agli editori) o scelta personale.
E di conseguenza mi chiedo anche se la musica elettronica come io la concepisco, cioè come mezzo espressivo autonomo, portatore di una propria estetica, eventualmente utilizzabile insieme agli strumenti tradizionali, ma senza perdere le proprie caratteristiche, esista ancora.

Le domande

In pratica, alla luce di queste considerazioni, gli argomenti di riflessione, su cui sollecito un intervento sia da parte dei compositori che degli studenti (ma anche da chiunque si interessi alla musica) sono i seguenti:

  1. Attualmente è concepibile una musica priva di esecutore visibile o no?
  2. Una estetica propria della musica elettronica e ad essa specifica è ancora possibile?

Mi piacerebbe qualche risposta (potete anche dire che sono sbagliate le domande…)