Anthèmes refers to two related compositions for violin by French composer Pierre Boulez: Anthèmes I and Anthèmes II.
Anthèmes I is a short piece (c. 9 minutes) for solo violin, commissioned by the 1991 Yehudi Menuhin Violin Competition, and dedicated to Universal Edition’s director Alfred Schlee for his 90th birthday. In 1994, Boulez revised and expanded Anthèmes I into a version for violin and live electronics at IRCAM, resulting in Anthèmes II (c. 18 minutes duration), produced in 1997. (Expansion and revision of earlier works is common in Boulez’s compositional process; see also Structures.)
The title is a hybrid of the French “thèmes” (themes) and the English “anthem”. It is also a play on words with ‘anti-thematicism ‘: “Anthèmes” reunites the “anti” with the “thematic”, and demonstrates Boulez’s re-acceptance of (loose) thematicism following a long period of staunch opposition to it (Goldman 2001, 116–17).
Anthèmes I owes its structure to inspiration Boulez drew from childhood memories of Lent-time Catholic church services, in which the (acrostic) verses of the Jeremiah Lamentations were intoned: Hebrew letters enumerating the verses, and the verses themselves in Latin. Boulez creates two similarly distinct sonic worlds in the work: the Hebrew enumerations become long static or gliding harmonic tones, and the Latin verses become sections that are contrastingly action-packed and articulated (though Boulez says that the piece bears no reference to the content of the verses, and takes as its basis solely the idea of two contrasting sonic language-worlds) (Goldman 2001, 119). The piece begins with a seven-tone motive, and trill on the note D: these are the fundamental motives used in its composition. It is also in seven sections: a short introduction, followed by six “verses”, each “verse” preceded by a harmonic-tone “enumeration”. The last section is the longest, culminating in a dialogue between four distinct “characters”, and the piece closes with the two “languages” gradually melding into one as the intervals finally center around the note D and close into a trill, and then a single harmonic. A final “col legno battuto” ends the piece in Boulez’s characteristic witty humour, a gesture of “That’s enough for now! See you later!” (Goldman 2001, 83, 118). [from wikipedia]
Andrew Gerzso has for many years been the composer’s chief collaborator on works involving live electronics and the two men regularly discuss their work together. He describes the way in which all the nuances in this nucleus of works were examined in the studio in order to find out which elements could be electronically processed and differentiated. As a result, the process of expanding these works is based not only on abstract structural considerations (such as the questions as to how it may be possible to use electronic procedures to spatialize and to merge or separate specific complexes of sound),but also on concrete considerations bound up with performing practice: in a word, on the way in which the instrument’s technical possibilities may be developed along figurative lines.
IMHO, it is quite clear that the electroacoustic is limited to “dress” the instrumental part, albeit with effects well made. Anthème II is not a real electroacoustic composition and even a revision of the original. But it’s really helpful to students. See also this good page from IRCAM: Anthème & Anthème II and this one with Max patches.
Anthèmes 2 (1997), by Pierre Boulez, has evolved from Anthèmes, a substantially shorter piece for solo violin.
Andrew Gerzso has for many years been the composer’s chief collaborator on works involving live electronics and the two men regularly discuss their work together. He describes the way in which all the nuances in this nucleus of works were examined in the studio in order to find out which elements could be electronically processed and differentiated. As a result, the process of expanding these works is based not only on abstract structural considerations (such as the questions as to how it may be possible to use electronic procedures to spatialize and to merge or separate specific complexes of sound),but also on concrete considerations bound up with performing practice: in a word, on the way in which the instrument’s technical possibilities may be developed along figurative lines.
As a result, Anthèmes 2 provides us with both an analysis and an interpretation of Anthèmes: it is a text in its own right and the same time a sub-text of the earlier piece.
Charles Amirkhanian interviews Pierre Boulez and Andrew Gerzso as part of the Speaking of Music series. Boulez discusses the pros and cons of microtonal music, spatial music, as well as delving into the technical details of his latest work, “Répons”.
scriveva Paul Klee, per il quale l’arte era una metafora della creazione. Egli concepiva l’opera come ‘formazione della forma’, non come risultato. Analogamente, Boulez parlerà dell’opera che “genera ogni volta la sua propria gerarchia”.
Proprio a liberare le possibilità di una generazione funzionale tende Boulez quando individua la serie come il suo nucleo: “Predecessore principalmente prescelto: Webern; oggetto essenziale delle investigazioni nei suoi riguardi: l’organizzazione del materiale sonoro”.
Non sembra dimenticare, ma nemmeno lo ricorda esplicitamente, che fu proprio Webern a parlare di una musica tale per cui “si ha la sensazione di non essere più di fronte a un lavoro dell’uomo, ma della natura”.
Nota bene: Webern, non Schoenberg. Soltanto un anno dopo la morte, infatti, Boulez seppellirà definitivamente Schoenberg denunciando ogni aspetto della sua estetica come retrivo, contraddittorio e contrario alla nuova organizzazione del mondo sonoro da lui stesso ideata:
Dalla penna di Schoenberg abbondano, in effetti, – non senza provocare l’irritazione – , i clichés di scrittura temibilmente stereotipi, rappresentativi, anche qui, del romanticismo più ostentato e più desueto.
Si tratta del famoso articolo, apparso sulla rivista “The Score” nel 1952, pieno del dogmatismo ingenuo che solo un 27nne può esibire, che termina con l’enunciato in lettere maiuscole: SCHOENBERG È MORTO. [da noi è pubblicato in Note di Apprendistato, Einaudi, 1968]. È l’atto finale di condanna dell’incapacità di Schoenberg di adeguare interamente il suo linguaggio compositivo alla novità del metodo dodecafonico e l’indicazione di Webern come l’esempio da seguire.
Pierre Boulez – Strutture per 2 pianoforti Libro I° (1952)
A dimostrare quanto sopra dichiarato a grandi lettere, Boulez scrive il primo libro delle Strutture per 2 pianoforti che costituisce, in pratica, un manifesto dell’estensione del principio seriale a tutti i parametri in uno strutturalismo tanto raffinato quanto totalitario.
Mostreremo, ora, alcune tracce analitiche della prima sezione (Structure I/a), basandoci sullo storico articolo che György Ligeti pubblicò sulla rivista «Die Reihe» (trad: La Serie) nel 1958.
Tutto, in quest’opera, è predeterminato. L’intera composizione è totalmente dedotta da un’unica formula originaria: una serie che, in omaggio a Messiaen, è tratta dalla prima linea del Mode de valeurs.
NB: per ingrandire le immagini, cliccarle.
Alla serie vengono applicate le trasformazioni di rito (inversione, retrogrado e inversione del retrogrado) e a ognuna di esse, le 11 trasposizioni, ottenendo, così, le classiche 48 serie.
A partire dalle trasposizioni della serie originale (O) e della sua inversione (I), Boulez genera poi due tabelle numeriche ottenute sostituendo alle note i numeri che le note stesse hanno nella serie originaria (questo è ciò che Boulez chiama “cifratura” della serie).
Queste due matrici, lette sia in moto retto che retrogrado, sono poi impiegate per determinare le durate, le dinamiche, i modi di attacco e l’ordine in cui sono introdotte le 48 serie di altezze e di durate nell’intera composizione, come segue:
Altezze
Tutte le 48 serie canoniche appaiono nel pezzo ma, si badi bene, una e una sola volta ciascuna, equamente suddivise fra i 2 pianoforti (24 ciascuno).
Durate
Vengono costruite 4 tabelle di durate formate di 12 serie ciascuna (totale 48 serie, come le altezze), con il seguente metodo: nelle matrici di cui sopra, ogni numero rappresenta una durata ottenuta moltiplicandolo per una unità base pari a una biscroma. Così
1 = 1 biscroma,
2 = 2 biscrome = 1 semicroma,
…
12 = 12 biscrome = semiminima puntata.
Le 12 durate (da 1 biscroma a 12 biscrome), quindi, sono
Di conseguenza la durata più breve nella sezione 1/a è la biscroma e la più lunga è la semiminima puntata.
Dinamiche
Boulez costruisce una corrispondenza fra numeri e dinamiche secondo questo schema
A differenza delle durate, però, qui non si creano 48 serie, ma solo 2 utilizzando le diagonali delle 2 tabelle già viste
La tabella ‘O’ è utilizzata dal Piano I e la ‘I’ dal Piano II. Per esempio, la serie del Piano I è la seguente:
12
7
7
11
11
5
5
11
11
7
7
12
ffff
mf
mf
fff
fff
quasi p
quasi p
fff
fff
mf
mf
ffff
2
3
1
6
9
7
7
9
6
1
3
2
ppp
pp
pppp
mp
f
mf
mf
f
mp
pppp
pp
ppp
Si tratta di 24 dinamiche cioè lo stesso numero delle serie usate da ogni pianoforte. Di conseguenza, ognuna delle 24 serie sarà eseguita con una di queste dinamiche nella sua interezza.
Notare che in questa serie alcune le dinamiche si ripetono. Notare anche che non tutte sono presenti (es. 4, 8 e 10 non appaiono nella serie O). E’ un effetto delle scelte organizzative che darà adito a varie critiche. Modi di attacco
Esistono 10 modi di attacco (i numeri vanno da 1 a 12, ma ci sono dei buchi)
In modo analogo alle durate, la serie dei modi di attacco è determinata dalle altre diagonali delle tabelle
Anche qui la ‘O’ è assegnata al Piano I e la ‘I’ al Piano II e anche qui si ha una serie di 24 per cui ogni modo di attacco è utilizzato per una serie intera. Sono solo 10 grazie al fatto che, come per le dinamiche, le serie derivate dalle diagonali non contengono tutti i 12 valori.
Ordine delle serie di altezze
Le due matrici sono utilizzate anche per determinare l’ordine con cui vengono usate le serie. La Structure 1/a è divisa in 2 sezioni principali in ognuna delle quali ogni pianoforte usa 12 serie, come segue
Pianoforte
Serie nella Sezione A
Serie nella Sezione B
1
Tutte le serie di O nell’ordine I1
Tutte le serie di RI nell’ordine RI1
2
Tutte le serie di I nell’ordine O1
Tutte le serie di R nell’ordine R1
Ordine delle serie di durate
Come per le altezze, come segue
Pianoforte
Serie nella Sezione A
Serie nella Sezione B
1
Tutte le serie di RI nell’ordine RI1
Tutte le serie di I nell’ordine R1
2
Tutte le serie di R nell’ordine R1
Tutte le serie di O nell’ordine RI1
Forma Globale
Come già visto, ogni pianoforte suona 12 delle 24 serie in ciascuna delle 2 sezioni. Dato che ogni serie di altezze è accompagnata anche da una serie di durate che comprende tutti e solo i 12 valori, ogni serie ha anche la stessa durata metrica, cioè 1+2+3+…+12 = 78 biscrome. Il brano, quindi, può essere visto come un insieme di sotto-sezioni, ognuna delle quali dura come una serie.
Questo, però, non significa che ognuna delle due sezioni dura 12 volte la serie perché, essendo il pianoforte polifonico, è anche possibile l’esecuzione di più serie contemporaneamente. Inoltre, in almeno in 2 punti, ogni piano esegue una serie come solista.
Le 2 sezioni, quindi, sono divise in sotto-sezioni in ognuna delle quali ogni piano esegue contemporaneamente da 0 (tacet) a 3 serie (voci), secondo la seguente tabella
Sezione A
Sezione B
Sotto-sezione
1
2a
2b
2c
3
4a
4b
5
6
7
8
9
10
11
Serie Piano 1
1
2
2
0
3
1
2
1
3
1
2
2
1
3
Serie Piano 2
1
2
1
1
3
1
3
0
2
2
2
2
1
3
Totale
2
4
3
1
6
2
5
1
5
3
4
4
2
6
Totale 24
Totale 24
La densità del pezzo quindi, varia secondo quanto riportato nella linea ‘Totale’, in modo non seriale né simmetrico.
Metronomo
L’indicazione metronomica delle varie sezioni è ‘lento’, ‘molto moderato’ o ‘moderato, quasi vivo’. Se, per brevità, li indichiamo con L, M e V e scriviamo i tempi della Structure 1/a, notiamo la seguente simmetria (che comunque non ha a che fare con il principio seriale):
M:V:L:V:M
Ottave
La distribuzione delle note sulle ottave è generalmente arbitraria. Si possono desumere solo due principi:
l’estensione e gli ampi intervalli tipici del serialismo;
quando la stessa nota ricorre in due o più serie sovrapposte, è suonata all’unisono.
Pause
L’uso delle pause è ristretto ai casi in cui delle note sono suonate in staccato. In questi casi, a volte, la loro durata è abbreviata e la rimanenza è riempita con pause. In generale, comunque, le pause sono usate solo per chiarire la scrittura.
Sembra che Boulez abbia voluto deliberatamente evitare di interrompere l’esposizione delle serie inserendo pause non giustificate.
Tempi
I cambiamenti di metro sono frequenti, ma non sembrano conformarsi a un piano e sembrano avere la sola funzione di aiuto all’esecuzione. In ogni caso, una sensazione ritmica è generalmente assente in queste pagine. A volte sorge per qualche secondo, ma viene immediatamente annullata.
Così si presenta la prima pagina della partitura che si può ascoltare qui:
Ted Norman (1912-1997) era un chitarrista e compositore canadese dotato anche di sense of humour.
Infatti, dopo aver partecipato all’esecuzione del Marteau diretto dallo stesso Boulez, ha prodotto lo schizzo che vedete sotto e che trovate qui in dimensioni originali.
La prima sonata di Boulez, conposta nel 1946, eseguita da Idil Biret.
Note di programma di Jacques-Marie Lonchampt.
La prima Sonata è in due movimenti. Se conservano una certa dualità compositiva, non si tratta ovviamente più di dualità tematica ed ancora meno armonica, come era il caso nella definizione “classica” della sonate, bensì piuttosto del confronto tra diversi tipi di scritture, che si oppongono per il tempo, l’intensità, il fraseggio e si raccolgono in sezioni contrastanti.
Il primo movimento, “lento”, comincia con la presentazione di quattro elementi molto semplici: intervallo (in questo caso, sesta), appoggiatura, suono isolato e tratto incisivo, che si oppone agli altri tre altri per la sua aggressività, che contrasta con la morbidezza dell’insieme. Quest’elementi si combinano in uno sviluppo generalmente calmo, a volte interrotto da una caratteristica rabbia, che chiuderà questa sezione in un soprassalto ancora più veemente. Il tratto incisivo domina la seconda parte, più nervosa, alterndosi con passaggi in staccato. Un ritorno degli elementi iniziali indica la ri-esposizione, variata ed accorciata ma chiaramente identificabile, seguita di una coda sugli stessi elementi, che vanno finalmente a sovrapporsi in un ampio aggregato, seguito in modo inatteso di un ultimo ritorno, pianissimo, quasi beffardo rispetto alla caratteristica iniziale.
Il secondo movimento comincia con un gioco di “ping-pong” staccato tra i diversi registri, simile alle variazioni opus 27 di Webern. In seguito si assisterà ad una lunga lotta tra una sorta di toccata, che esplora nervosamente in un movimento vivo e regolare tutta la tastiera, ed i passaggi più legati e annegati nel pedale, quasi dei “mobiles” armonici che vanno della dolcezza a un’espressione più intensa. La conclusione del movimento, interrotta inizialmente da silenzi, finora rari, cederà in extremis il posto ad un ultimo ritorno della toccata.
Renewable Music riporta una bella citazione in cui Boulez paragona la tradizione al telefono senza fili
C’è un gioco che facevamo da bambini. Ci si siede intorno a un tavolo, il primo sussurra una frase all’orecchio del proprio vicino “Ho il fazzoletto in tasca”.
La frase passa da orecchio a orecchio, sempre più veloce, e come diventa alla fine? “Il gatto mangia la cioccolata”.
Ecco. Questa è la tradizione – spesso solo l’eredità di manierismi. Qualcuno imita gesti senza capire il loro spirito. [trad. mia]
Trovo questo paragone molto bello e centrato. Rende conto anche della distanza.
D’altronde Boulez non è mai stato tenero con i recuperi di qualsiasi tipo. Leggete questa intervista a Repubblica datata 2000:
Maestro Boulez, come vede la musica del nostro tempo?
“In uno stato di regressione, pigrizia e mancanza di coraggio. Per paura del presente ci si rifugia in brutte copie del passato, ovvero il cosiddetto post-modernismo, esecrabile. Negli anni ’50, dopo la guerra, quando non c’era più niente da perdere, la guerra aveva già azzerato tutto, si era più intrepidi, non si temevano sperimentazioni radicali. Ora si è ossessionati dalla conservazione. Nelle arti, e nella società in generale, si teme la perdita d’identità: in quella gran miscela che è diventato il mondo si ha come il terrore di annullarsi dentro una massa ibrida e confusa, senza più profili e caratteri. Perciò ci si difende tuffandosi nella propria cultura e nel passato. Col risultato di due tendenze: la mania dell’ autenticità e della filologia, vedi il revival di Bach e del barocco mitizzato come epoca d’oro; e il mito della caricatura, ovvero rifare, naturalmente meno bene, cose immaginate cento anni fa o di più. Accade ovunque, nella musica come in architettura, coi vari orripilanti neoellenismi… Spaventosi come il post- moderno in musica”.
Crede nelle contaminazioni con la musica pop?
“No! Trovo il pop alienante e opprimente. Apprezzo la vitalità dei suoi interpreti, ma è un’energia che potrebbe essere indirizzata verso obiettivi più interessanti. E’ una musica fatta di cliché che cambiano, come la moda. Mi fa pensare a un certo modo di mettere il berretto: un anno con la visiera davanti, l’ anno dopo di lato, e ora tutti la portano indietro… Il pop è dominato da superficialità e imitazione. L’unico che mi ha interessato è stato Frank Zappa, curioso, avventuroso, radicale. Apparizione eccezionale in quel contesto”.
Lei fu un pioniere nel campo dell’informatica musicale. I risultati attuali sono pari alle sue aspettative?
“Lo sviluppo è interessante ma ancora molto deve accadere. Se un tempo si temeva che la tecnica soffocasse l’interprete, oggi ci si rende conto che è salvaguardato. L’elettronica non domina: è funzionale. E’ una possibilità fantastica di estensione del mondo strumentale. Non indispensabile: si può benissimo scrivere ancora solo per strumenti. Ma per un universo musicale può fungere da arricchimento formidabile”.
Il pensiero di Boulez sulla tradizione è ulteriormente chiarito in questo frammento tratto da una intervista al Telegraph:
No, non credo nella tradizione. Io credo nella storia. Le lezioni che ricavi dalla storia sono le tue proprie lezioni, tu stai insegnando a te stesso. La tradizione è semplicemente il manierismo di gente che è venuta prima di te. La tradizione è passiva, la storia è attiva.