La scomparsa del poeta Edoardo Sanguineti restituisce all’Italia letteraria tutta il proprio anelato, compiaciuto, regressivo, passatista e reazionario provincialismo culturale e accademico.
Edoardo Sanguineti era stato capace di stemperare la «peste mansueta delle discipline», rendendo armonico il distonico, facendo della parola e della musica unico suono.
Aveva traversato il Labirinto disvelandone e destrutturandone la natura, ricordandoci, lucido e incrollabile nel pensiero, l’opportunisticamente obliata connessione tra ideologia e linguaggio, la fallacia di un’estetica e di un’arte solo apparentemente fini a se stesse.
Aveva individuato nella famiglia un nucleo di resistenza e, nel suo basso parlare, nel travestire e nel parodiare, un nucleo operativo.
Ha ancora senso, si chiedevano in troppi, ripercorrere il cammino delle avanguardie, come da Sanguineti propugnato?
Ora più che mai, annaspanti nella mediocrità e nella ripetizione, avvinghiati a discutibili e desuete Muse altrui per celare la mancanza delle proprie, alienati al segno di negare l’alienazione, vinti da uno sperimentalismo solo formale, dal sonno dell’ideologia, e incatenati alle pareti del Louvre, ha senso ripercorrere quel cammino, quello delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie, quello di Edoardo Sanguineti, ha senso porsi i quesiti irrisolti e trarne la prassi per approdare a nuovi orizzonti.
Non è questa un’apologia apocrifa o un necrologio, ma un monito, «pietra fondamentale del rifiuto»: oltre ai suoi testi, testimonianza di un praticabile altro, resta di Edoardo Sanguineti il suo motto.
Ideologia e linguaggio.
Che queste parole non si perdano mai nella palude.