In caduta libera

Nota: mi rendo conto che, in questi ultimi tempi, vi sto parlando un po’ poco di musica contemporanea e un po’ più di altre cose. Ciò è dovuto ad una certa noia che sto provando nell’ascoltare parecchie produzioni recenti. Passerà. Nel frattempo vi passo qualche consiglio che vi sarà di certo più utile, considerato che molti di voi stanno per salire su un aereo.


Free fallDunque, se a un certo punto vi svegliate, o meglio, riprendete conoscenza con addosso una gran nausea, il cuore che va a mille, un grande freddo, la sensazione di non riuscire a respirare e vi rendete conto che state cadendo, rallegratevi: significa che siete sopravvissuti all’esplosione del vostro aereo.
Probabilmente vi trovate alla quota di circa 9000 metri e state per svenire per mancanza di ossigeno. Vi riprenderete a circa 5/6000 metri, se siete fortunati anche più in alto, quando l’atmosfera sarà abbastanza ricca per mantenere un briciolo di coscienza e l’aria fredda vi risveglierà senza troppa grazia.

Qui comincia la fase finale. State cadendo e la vostra destinazione finale è il suolo. Se potete fare qualcosa per salvarvi, dovete farlo adesso. Non lasciatevi andare. Ci sono stati molti casi di cadute di questo tipo in cui il soggetto è sopravvissuto ed anche piuttosto bene.

Innanzitutto, una distinzione basilare:

  1. siete in caduta libera, solo;
  2. siete un wreckage rider, uno che cavalca rottami, ovvero mentre precipitate siete più o meno connesso a parti dell’aereo.

La situazione (b) è la più comune e di gran lunga la migliore. Se state cavalcando qualche rottame fate il possibile per non abbandonarlo. I rottami possono veleggiare nell’aria e offrire resistenza fino a ridurre la velocità a livelli accettabili. Inoltre offrono una certa protezione al momento dell’impatto.

Se invece vi trovate nella situazione (a), non disperate. Il tempo gioca a vostro favore. Pensate che cadere da un grattacielo è molto peggio: innanzitutto avete solo pochi secondi a disposizione e poi quasi certamente vi schianterete su qualcosa di duro.

Nel caso della caduta libera il vostro nemico è uno solo: l’accelerazione di gravità. 9.8 metri al secondo per secondo, ovvero la vostra velocità aumenta di 9.8 m/sec per ogni secondo di caduta. Se esistesse solo l’accelerazione di gravità, precipitando da 10000 m, arrivereste al suolo a più di 1500 km/h.
Fortunatamente avete due amici che sono in grado di limitare notevolmente la vostra velocità di caduta: la spinta di Archimede e l’attrito. La prima è la stessa che fa sì che le navi possano galleggiare nonostante il loro peso. Un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del fluido spostato. L’aria è come l’acqua, con l’unica differenza che il suo peso è decisamente inferiore, perciò anche la spinta verso l’alto che ricevete è minore e non vi permette di galleggiare facendo il morto.
Tuttavia, fare il morto è un ottimo sistema per spostare più aria e massimizzare la spinta di Archimede. Quindi assumete la posizione del paracadutista che veleggia nell’aria: braccia e gambe larghe e distese, testa alta e petto in fuori.
Così facendo, esponete la massima superficie e sfruttate a dovere anche l’attrito.

Queste due forze combinate costituiscono un freno molto potente, al punto che un corpo umano in caduta libera riesce a rallentare fino a circa 150 km/h (per avere un’idea della loro potenza, considerate che varie fonti indicano in circa 250 km/h la massima velocità che un corpo umano può raggiungere se fa il possibile per accelerare, cioè assume la posizione di massima aerodinamica). Sfruttate i vestiti: una giacca chiusa, ma larga, può creare un ottimo effetto tunnel aiutandovi a veleggiare e aggiunge una componente laterale alla vostra velocità, il che significa ridurre la componente verticale.

E qui arriviamo all’ultimo atto: il suolo. L’impatto con il terreno è rimandabile, ma inevitabile.

La consistenza del suolo è un fattore determinante. Il miglior terreno su cui atterrare è sicuramente la neve alta. Molte persone si sono salvate per questo, cadendo anche da altezze notevoli.
Al secondo posto sta il terreno paludoso e morbido. Nel 1995 una bambina colombiana di 9 anni è sopravvissuta a una caduta da 9000 metri atterrando in una palude.
Anche gli alberi sono buoni, a patto di non finire impalati. L’ambiente migliore è la giungla, soprattutto quella di tipo amazzonico, con alberi alti fino a 30 m e un fittissimo sottobosco, tale da costituire un ambiente a sé stante. Ma anche le foreste di conifere non sono male perché le punte sono cedevoli.
Infine l’acqua. Terreno ingannevolmente amico perché non comprimibile. Cadere di piatto sull’acqua, a questa velocità, è come cadere sul cemento, con l’unica differenza che l’oceano non restituirà i vostri frammenti. L’unico sistema è entrare in acqua dritti come una freccia, con i piedi in avanti (punte in su e talloni in giù), braccia distese in alto e mani unite, a proteggere la testa (non fate i tuffatori, è imperativo proteggere la testa).

Ricordate che, in caduta libera, voi siete il pilota e il vostro corpo è l’aereo. I dati riportati dai paracadutisti indicano che lo spostamento laterale che si può raggiungere senza tute apposite, è di circa 2/3 rispetto alla quota da cui si cade, quindi, cominciando a lavorare a circa 5000 m, potete spostarvi lateralmente per più di 2 km.

Dunque, per quanto possibile, scegliete il terreno. Alla partenza, siate consapevoli della rotta del vostro aereo e quando, alla fine, l’aereo rollerà dolcemente sulla pista della vostra destinazione, pensate che ormai i voli commerciali sono molto sicuri e raramente avrete l’opportunità di mettere in pratica questi consigli, ma meglio conoscerli che ignorarli. In fondo, attualmente, il numero di incidenti catastrofici annuali nel mondo, per l’aviazione  commerciale, è dell’ordine di 25, cui corrisponde all’incirca un migliaio di vittime.


Altre informazioni: The Free Fall Research Page

(or click the logo)

Looking down

Have you ever looked down from the top of the Eiffel Tower? Not far away, as usual. Straight down, really.

Clikck the image to enlarge.

view_from_top_of_eiffel_tower

And from the Burj Dubai? (not from the top, I presume)

frm the Burj

CBGB Online

Per molto tempo il CBGB, il famoso club situato al 315 di Bowery Street, è stato la mecca della scena musicale di NY. È il luogo che ha lanciato gente come i Ramones, Patti Smith, Blondie, e i Talking Heads sulla scena internazionale. E nel 2006 ha chiuso.

Per chi non ha fatto in tempo a vederlo, oggi rivive sotto forma di un virtual tour.

Stand by Me around the world

What happens when you take Ben King’s 1961 hit, Stand By Me, and then travel around the world, having different international artists offer their own interpretations, and finally you stitch them all together in one seamless tune?  The clip below starts in California, moves to New Orleans, then heads off to Amsterdam, France, Brazil, Moscow, Venezuala, South Africa and beyond. And I’m willing to bet that you’ll like how it turns out.  The clip comes from the documentary, ”Playing For Change: Peace Through Music.”

Via Open Culture

Viaggio in Ucraina… [3]

Ultima puntata, Speriamo abbiate gradito…

Kiev on the Dnepr

Intermezzo 2

KievKiev appare nel suo splendore. E’ illuminata come un palazzo orientale e ingioellata come una donna. La gente si riversa sul kreshatik, la grande, monumentale via centrale, e canta e balla. Kiev non è l’Ucraina come New York non è gli Stati Uniti. Al dei là dello Dnepr si accalcano i nuovi quartieri che sorgono sulle macerie delle periferie di ieri. Giganteschi silos inzuppati di vite umane sembrano nascere dal nulla: come a Las Vegas nascono dalla polvere di un deserto, queste nuove, sterminate cose abitate, e fanno pensare ai racconti di fantascienza, in cui i panorami disumanizzati sono lì a testimoniare di un mondo che fatica a riconoscersi.

Pop Star

RivneL’autobus che porta a Rivne parte dalla stazione dei treni di Kiev. Non è un vero e proprio autobus. È un cabinato, a 12 posti, che qui chiamano marshrutka. Costa il doppio degli autobus statali, ma è molto più veloce. Ogni giorno, in Ucraina, milioni di persone si spostano con questi mezzi. Impieghiamo 4 ore per arrivare a Rivne, città che ogni giorno si affolla di gente per il bazaar, mercato all’aperto dove si trova tutto il necessario. A pranzo Pavlo Baginsky, il direttore d’orchestra, coreano di Mosca, figlio delle politiche transrazziali del comunismo orientale e trapiantato in Ucraina, mi illumina sulle differenze tra gli aggettivi rusky – russisky. Dice: “Tutto che quello che si riferisce alla grande stagione culturale della Russia fino al crollo della Soyuz è chiamato rusky. Tutto quello che viene dopo, invece, è russisky”. Leggo in questo calmo e attento specificare un tono quasi dispregiativo, nei confronti della nuova Federazione Russa. Non corre buon sangue fra molti russi e molti ucraini.
Dopo il concerto, foto finale con ragazzine che studiano il francese ma che evidentemente trovano l’Italiano egualmente esotico.
E poi aspettiamo le due di notte, nella stazione degli autobus, circondata da qualche locale notturno, dal quale fuoriescono barcollanti minigonne e chiassose sacche di pelle nera; involucri accattivanti i primi e disgustosi i secondi, che contengono la vita notturna di Rivne. Arriviamo a Kiev alle sei e trenta, dopo una notte insonne passata ad ascoltare alla radio le pop stars dell’ex-madre russia.

[webcam a Rivne, a volte un po’ fuori fuoco; nota mia]

Il lungo ritorno (1)

Dnipropetrovsk

Nella mia stanza c’è un odore acre e pungente di piscio. Alzo la testa sul soffitto e scopro una colonia di zanzare che sopravvivono purtroppo anche con il freddo. E’ l’Hotel che ci ospita a Dnipropetrovsk, città che non ha ancora cambiato i nomi delle vie dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La sala della philarmonia si trova in Lenin uliza, mentre l’albergo nelle vicinanze della Marxiskaja. Il teatro è, come al solito, in remont e i soldi per la ristrutturazione si raccimolano ospitando all’entrata un bazaar che vende ogni cosa: spazzolini da denti, accessori per la casa, indumenti a costi popolari, giornali, pellicce sintetiche, sigarette. Si accede sul palco da un’entrata laterale, dove in vestito da concerto, passiamo attraverso una fumosa sala da biliardo (noto al tavolo una bionda e una mora con pantaloni neri attillati che maneggiano la stecca, soddisfando appieno il più esigente immaginario maschile) e di video poker, che qui chiamano automaty, ai quali sono automaticamente attaccati giovani dall’aria poco simpatica.
A Dnipropetrovsk in pochi parlano ucraino. Il russo è la lingua ufficiale. L’Italia, come al solito, è un immaginario collettivo, una specie di sogno presente nelle vie, nella gente: ma un sogno che si frantuma nella catena di ristoranti Celentano (dove si mangia malissimo), nelle canzoni di Ramazzotti e Masini alla radio, nel concerto di Toto Cotugno. E vedere il suo nome in cirillico fa un certo effetto.
KharkovVeniamo, scendendo a sud-est da Kiev verso Poltava, da Kharkov (Kharkiv), ex capitale ucraina dell’era sovietica. Fa un milione e mezzo d’abitanti e vi si trova la più grande piazza d’Europa, come dice la guida, in stile post-cubista. In piena crescita economica Kharkov è una città viva, piena di cafè-bar, negozi e ristoranti. La Russia è a soli 15 chilometri. Da qui parte l’ autostrada, su su fino a Mosca. Alla sera dopo il concerto si mangia con Sergey, moscovita ma con origini del Kazakstan, che vive da quindici anni a Singapore ed è appassionato di musica. Di lavoro installa impianti audio per auto. Entusiasta del nostro concerto ci offre la cena in uno dei ristoranti più frequentati dai nuovi ucraini, legittima estensione dei nuovi russi: il Pappagallo Verde. Effettivamente, come mi mostra fieramente un cameriere fin troppo ossequioso, il variopinto animale se ne sta nella sua gabbia. Insieme a lui popolano il ristorante energumeni dai colli schiacciati, vestiti di nero o panna con cravatte sgargianti, accompagnati da bionde ossigenate in abito rosso-viola-rosa, con stivali neri fino alle ginocchia, e che fumano, una dietro l’altra, le sottili sigarette, quasi-simbolo dell’ emancipazione femminile.
Prima di andare a dormire guardo fra le mie cose, e trovo uno spartito che una tale Olga Eduardovna (come leggo sul biglietto da visita) mi ha consegnato subito dopo il concerto. “Questa è una mia composizione, tu devi suonarla”, mi ha detto, mentre non vedevo l’ora di togliermi lo smoking. Poi farfuglia qualcosa che non capisco. I suoi occhi sono segnati da un’incalcolabile tristezza, e il suo corpo, ricurvo e modesto, provato forse da qualche malanno cronico. Nel stringerle la mano e nel ringraziarla, le provoco una smorfia di dolore che non so scusare. Si prova qualcosa che deve assomigliare alla vergogna, nel non capire ciò che le persone dicono, nel non sapere, alla fine, chi sono e da dove vengono.

Intermezzo 2 (prima del lungo ritorno 2)

Cioran dice, in Storia e Utopia, che il popolo russo (estendo la cosa anche agli ucraini) possiede una speciale inclinazione ed ossessione per la grandezza. Bolshoy (grande; sic) kolossalna, catastropha, sono normali aggettivazioni disseminate nei discorsi degli abitanti di questo pezzo di pianeta. Vi è nell’eloquio, un’appariscente e megalomane tendenza all’approssimazione per eccesso. Il risorgimento dell’anima slava/russa/ucraina si attacca ad un’isterica quanto encomiabile attenzione per le manifestazioni di quell’individualismo eroico e anche un po’ maschilista (e oggi, comunque, consumistico e lievemente pornografico) che l’etica comunista ha cercato di estirpare, ottenendo al contrario una generazione di nazionalisti e sessisti, per la verità, un po’ goffi.

Il lungo ritorno (2)

Quattro giorni ci separano dalla frontiera ungherese. Sulla via sbagliamo strada e ci troviamo faccia a faccia di fronte alla Moldavia. Non nascondiamo una certa curiosità di varcare il limite, visto, a quanto si dice, che in Moldavia ci siano delle donne bellissime. Non appuriamo la cosa e, dopo 900 km di autostrada ucraina, pensiamo bene di fare rotta verso Ivano – Frankivsk e poi, l’indomani, verso Uzgorod, dove abbiamo l’ultimo concerto. A Ivano – Frankisvsk, ci fermiamo per una visita alla città. Nella chiesa della Madre del Nostro Signore (nome attribuitole solo negli anni ‘60, in onore al poeta nazionale Ivan Franko) ci si rende conto di come Dio qui sia forte e fisico, corporeo. Il senso religioso che trasuda dalla gente è fatto di ardenti baci alle icone, di un continuo e danzante segnarsi, in senso contrario al segno cristiano-romano, di ex-voto depositati ai piedi delle immagini votive. L’inginocchiamento repentino e senza esitazione di vecchi e giovani ha qualcosa di imbarazzante e allo stesso tempo ammirevole, come è imbarazzate ed ammirevole ogni segno che unisce in sé abbandono, fiducia, speranza, rassegnazione.

A Uzgorod, tranquilla cittadina adagiata sul fiume Uz ( che significa biscia ) e appoggiata al confine slovacco (2 Km, che si possono fare a piedi) alloggiamo nel sovietico Hotel Zakarpathia, al decimo piano, in classe economica, cioè senza televisione. L’acqua calda c’è, come sempre, al mattino e alla sera. Di fronte alla mia stanza una nuova cattedrale ortodossa. Guardandola, mi pare di stare a Baghdad. Mangiamo benissimo in un ristorante che si chiama Old Continent, a nostre spese. Un opuscolo turistico rivela come qui vivano, side by side, ucraini, rom, slovacchi, cechi, ebrei, ungheresi, qualche tedesco. L’indomani, alle sette e mezza di mattina, siamo pronti per apparire sulla National Transcarpatian Radio and Television, per l’ennesima intervista. La conduttrice, molto carina e gentile con il suo tailleur su misura, è intonata perfettamente con il divano giallo e verde; io, faccia stravolta, col solito vestito color tabacco, mentre Oles indossa il gessato del sarto più famoso di Kiev, tale Voronin, che lo fa apparire il più ucraino degli ucraini. L’ abito, direi, fa il monaco.
Il concerto è stasera alle 18.00. Siamo sicuri che andrà tutto bene…

Viaggio in Ucraina… [2]

Seconda parte

La nebbia di Luzk

Aleksandr Ivanovic è un ebreo di Odessa. Abita a Ternopil, da quando vi è stato spedito per assolvere gli obblighi militari. Abita in una casa nel centro storico, a due passi dal monumentale teatro di prosa, e versa 0,25 cl di vodka con un ritmo molto saggio e deciso, offrendoci burro e salsiccia. E’ un maestro di violino e si rivolge agli amici con l’inconfondibile appellativo di tovarish. Ha settant’anni e berrà vodka probabilmente per altri 15 ancora. Si dice qui che lui è un ebreo buono. Non così, evidentemente, molti ebrei di Odessa. Ci saluta calorosamente e ci augura buona fortuna.

LuzkPrendendo la direzione a nord di Ivano-Frankivsk si raggiunge, passando per Leopoli, la città di Luzk (Lutsk). Il confine polacco è a poco più di un‘ora di macchina. E’ la regione (oblast) di Volyn’, dove il clima umido e la pioggia degli ultimi giorni fanno salire una densissima nebbia che confonde, per 150 km, il confine fra cielo e terra. Alle 2.30 di mattina, dopo circa 4 ore, una Mercedes appare sul ciglio della strada. E’ segno che siamo arrivati.

[nota mia: c’è questa webcam a Lutsk puntata proprio sulla piazza del teatro]

La Philarmonia di Luzk è stata appena restaurata. Prima del concerto il direttore ci accoglie nel suo lucido abito grigio. “Italisky”, mi dice, stringendomi la mano. Ci fa vedere la stanza per cambiarci. Non è riscaldata, e in tutto il teatro fa un freddo pungente ma sopportabile. Il pubblico arriva poco a poco. Molti giovani, molti anziani. Nessuno qui ha mai sentito musiche di Messiaen. E’ la prima ucraina della sua Fantasia per violino e pianoforte. Siamo liberi di sentirci relativamente importanti.

Cani randagi

Aleksandr Dudek è il factotum del teatro di Xmelnizk (Chmelnyzkyj). E’ il fondatore di un ensemble (voce, violino, flauto, fisarmonica o bajan) e che ha voluto chiamare Alfresko. Repertorio: barocco italiano e tedesco. La cartolina, che ha un fondo di colore rosso – krasni che in russo significa rosso ha la stessa radice di bello, krassiva – recita:

“Alfresko – (Italian al fresco in fresh, to paint over the fresh stucco), for our ensemble it’s the fresh, live sound, live voice “.

Verso la strada per Xmelnizk (Chmelnyzkyj, 250 km a sud ovest di Luzk), infiniti villaggi solitari, come del resto in tutta l’Ucraina, e una quantità che non si calcola più di chiese in costruzione. Forse l’Ucraina è il paese dove oggi si costruiscono più chiese al mondo. E’ un Dio in remont, quello degli ucraini.
Dopo il concerto veniamo invitati dal direttore del teatro a partecipare al ricevimento per il 70° anniversario del teatro. Nella linea temporale scandita dall’anno zero staliniano, tutti i teatri si ritrovano ad avere la stessa età. Tutti festeggiano il settantesimo compleanno. Ci sono i membri dell’orchestra, i custodi, i segretari. E, come al solito, ci sono vodka e cognac moldavo, formaggio e aringhe marinate; anche il locale champagne (champagnsky). E tutti sono felici.

L’Ucraina è piena di cani randagi. Piccoli branchi di bastardi trotterellano per le strade, nelle città. Sdraiati e inconsapevoli, si godono l’ultimo sole, prima che la temperatura scenda a venti gradi sotto zero.
Raggiungiamo la città di Vinnizia abbastanza comodamente. Giunti di fronte al teatro, una grossa costruzione in stile sovietico, vedo due cani che stanno copulando. Sono a due passi da un monumento ripulito da falci e martelli in cui sono mostrate le foto dei cittadini che si sono meritati il plauso dell’amministrazione locale: c’è un militare, una pianista, impiegati, imprenditori. Lo stile è ancora sovietico, però. In teatro ci accolgono una miriade di bambini e molti fiori, che è usanza portare agli artisti durante gli applausi, che non sappiamo più dove mettere. Anche questo è sovietico.
Finito il concerto rimango in compagnia di Lesia, una delle segretarie del teatro, che ha presentato il concerto e che parla molto bene inglese. Beviamo tè nero e ci raccontiamo la nostra vita. Vorrei una birra, ma dopo le nove di sera, secondo una nuova legge del governo ucraino, non si possono più vendere alcolici (poi scopro che nessun rivenditore segue la legge). Lesia mi mostra la città già addormentata; ha 23 anni, due figli maschi, separata e bellissima. Guardo il cielo e non riconosco nessuna costellazione. Lei mi dice che sono romantico. Cerco di negare. Davanti alle luci giallastre dell’albergo ci scambiamo le mail e ci salutiamo come vecchi amici, che forse un giorno si rincontreranno.

Verso Kiev

Zhytomir dista poco più di cento chilometri da Vinnizia. La grande piazza centrale è un modello sovietico, con la statua del poeta nazionale Taras Shevcenko, il cinema, il palazzo del comune (già Casa del Partito Comunista). Si dice sia una città di ebrei; si dice anche che la maggior parte dei villaggi e delle città di questa parte d’ Ucraina sia stata fondata e sviluppata da comunità ebraiche, provenienti dalla Polonia, chiamate quaggiù per incrementare le attività commerciali.
babushkaA Zhytomir è nato uno dei più grandi pianisti del XX° Secolo: Sviatoslav Richter. In teatro Aleksander Ivanovich mi rivela con visibile orgoglio che il pianoforte che suonerò era stato suonato anche da Richter stesso: marca Estonia, modello Royal, con falce e martello impressi sul telaio di ghisa. A parte questi dettagli, invitanti solo per i nostalgici di simbologie sovietiche, il pianoforte è completamente da buttare. Dopo il concerto, un bimbo mi regala un portafortuna: un portachiavi e una specie di biglietto d’auguri, che cambia colore quando se ne cambia l’inclinazione. Poi Aleksander Ivanovich, che ha rinunciato qualche anno fa alla carica di direttore della Philarmonia, apre i brindisi con il cognac: dice che si vergogna del pianoforte, che la casa di Richter è a pochi metri dal teatro, che non ci sono soldi, che la regione di Zhytomir è stata una di quelle zone colpite dalla nube di Chernobyl (che, amaro destino o ironia della storia, significa letteralmente essere nero); dice anche che mi piaceranno le donne ucraine e che io piacerò a loro. Qualche lacrima gli solca il bel viso da cosacco. Ricorda qualche personaggio dei film di Ejzenstein pur assomigliando incredibilmente a Sean Connery. Alziamo i bicchieri infinite volte e dopo infiniti saluti, partiamo per Kiev.

Intermezzo 1. Coincidenze

Carl Gustav Jung, in uno dei suoi ultimi scritti, cerca di spiegare come alcune cose a volte accadono secondo un principio stocastico non ortodosso, che lui chiama sincronicità. Ovvero coincidenze, fatti che si presentano alla nostra esperienza, e ci forzano a considerare principi non razionali. Lui, questi principi, li definisce nessi a-causali. Oppure, più semplicemente, si potrebbe anche pensare che ognuno vive la propria esperienza secondo una proprio ignoto ma svelabile archetipo, il quale fa del mondo una continua fabbricazione di coincidenze, su misura, a propria immagine: un mondo come postulava William James, e poi forse anche i cibernetici, in cui la nostra esperienza del reale produce di continuo il reale;

Il libro che Giovanna mi ha prestato per il viaggio, parla di Ebrei ucraini ed è ambientato a Luzk.

Il nome dell’autore (Safran) è anche il nome di un bar di Vinnizia (più vecchio del libro).

L’ultimo concerto che facciamo è in una sinagoga, adibita, dopo le epurazioni staliniste, a sala da concerti.

Il protagonista del libro è vegetariano, come Xenia, la fidanzata di Oles che ci segue nel viaggio. E mangia solo patate, come la fidanzata di Oles.

L’ altro libro che ho preso con me è di Henry James, fratello di William James.

L’ex direttore della Philarmonia di Zhytomir assomiglia a Sean Connery. Anche l’amico di Kiev, Anatoly, incontrato l’anno scorso, assomiglia a Sean Connery.

L’ attuale direttore della Philarmonia di Zhytomir è stato a Poggiorusco (Mn). Non sono mai stato a Poggiorusco. Ma è come se ci fossi stato.

Lesia, e la sua amica, le uniche due ragazze con le quali faccio amicizia, sono dello Scorpione.

Viaggio in Ucraina… [1]

,,, non per parafrasare Goethe, ma perché questo è quello che è. Un viaggio in auto di due musicisti, l’uno italiano, l’altro ucraino per tenere una serie di concerti sia in duo (violino e pianoforte) che come solisti, in un paese, l’Ucraina, politicamente e geograficamente ai confini della UE, ma anche il più esteso in Europa dopo la Russia. Una distesa infinita solcata da grandi e lenti fiumi, in cui solo i Carpazi danno una pallida idea di montagna (2000 m). Un paese vecchio e nuovo nello stesso tempo, molto più vecchio e molto più nuovo di noi.
Vi mandiamo queste note di viaggio così come ci sono arrivate, rubate ai tempi del sonno, delle prove e della guida, inviate sporadicamente da un internet café, dall’albergo, dalla rete di qualcun altro.
[Mauro]

Ogni cosa è (comunque) illuminata.

La strada sembra infinita, verso l’Ucraina. In verità è una lunghezza astratta, risultato della somma di due confini. O solo del confine tangibile che ancora impregna l’immagine collettiva di un aldilà, il territorio liminare post-post sovietico. Poco più di mille chilometri, passando attraverso l’Austria (alla dogana un orologio fermo, ma le lancette sono innocentemente occultate dietro il nastro adesivo) e l’Ungheria, dove ci accodiamo, per far prima, ad un furgone di instancabili ucraini che fa la spola due volte alla settimana tra l’Italia e l’Ucraina. Tagliamo così per il centro di Budapest, che ci sfavilla davanti agli occhi, mentre una Ferrari ci romba alle spalle.
Il passaggio alla dogana ucraina, ci riserva, però, il colpo di scena, che ci riporta al di qua, dietro quel confine, che poi, in fin dei conti, non è così astratto. Il kontroll si sofferma sui violini che ci portiamo in viaggio. Essi, loro malgrado, non hanno certificato di proprietà e sono, secondo il rigido ed inflessibile ragionamento della guardia – ovvero materialisticamente parlando – merce di contrabbando. Non ci resta che tornare a Kisvarda, ultima città ungherese, mangiare qualcosa e pensare al domani.

E sull’Ucraina scese la notte.

Passata la lingua dolcemente montagnosa dei Carpazi, la strada che porta da Uzgorod a Ternopil è fra le più tremende che si possano percorrere. Qui, in teoria, passa il corridoio 8 [dovrebbe essere il corridoio 5; nota mia], che congiunge Kiev al resto d’Europa. Sulla carta la strada è segnata come misnarodni, cioè internazionale. Ovvero autostrada. Ma la velocità media che si riesce a percorrere è di circa 50 km orari. Sembra che la terra, in questo tratto lungo quasi 200 Km, abbia riversato le sue rughe, flagellando la strada con una varietà infinitesimale di buche, cunette, sterrati. A volte mancano le righe di segnalazione e, al buio, sembra di percorrere un corridoio senza uscita. Già il buio. Appena scende l’oscurità nulla più si riconosce, neanche gli orribili qvartiri, o le tradizionali isbe, case basse disseminate sulla strada. Nemmeno le chiese lignee, che di giorno, nuovamente, fanno luccicare le cupole argentee o dorate. Di fatto ogni paese che si incontra è immerso totalmente nel buio. Nessuna luce sulla strada, nessun palazzo illuminato. Solo qualche umile finestra, che lascia trapelare insieme alla vita un colore rosso rapa, come il borsch. E allora appaiono, come anime sperdute, le faccie stravolte di giovanotti color della terra che guidano carri trainati da cavalli e che sbuffano sigarette, ucraini che aspettano, avvolti da una sinistra ma abituale oscurità, il passaggio di un sudicio autubus. L’ Ucraina è buia, al calar della notte. E nera come la pece.

Welcome to Hotel Ruta

Medova ulica significa via del miele. In questa via sfracellata di Ternopil si trova l’Hotel Ruta, di stile eminentemente sovietico. Oggi rimangono le pareti, come ingiallite dai neon, e quell’odore di polvere e di vecchio, inconfondibile, di un paese al quale non resta che lasciar consumare gli oggetti che appartengono al proprio passato. L’acqua calda è disponibile dalle 19 alle 23 di sera: il direttore dell’albergo dice che è cosi per tutta la città di Ternopil. Il teatro filarmonico è in pieno remont, come dicono qui. Si dice che siano arrivati un pò soldi dal ministero e che per questo alcune filarmonie dell’Ucraina abbiano deciso di interrompere la programmazione. Ci sono i soldi per rifare i teatri, ma non per le orchestre. Meglio di niente.
Per il resto Ternopil è una città che ha qualcosa di balcanico, con un piccolo lago sul quale si affaccia un facsimile di tempio greco, dove è insediato il Maxim, il locale notturno più trendy della città, mentre le vecchie case rivelano un centro storico centro vitale come i brulichii transiberiani dei racconti di Checov. La cena riserva un autentico spaccato di vita ucraina: tavoli imbanditi in un sotterraneo illuminato con luci stroboscopiche e vecchie canzoni ri-mixate in stile nazionale (tra le quali anche la colonna sonora di un film con Bo Derek – Paradise ? ). Donne coi capelli lunghi e uomini rigorosamente con taglio corto. Stile nuovi russi. E vodka, vodka a fiumi.

Continua…