E’ un virus

Tom WaitsAnni fa, Tom Waits, che notoriamente non è mai accomodante verso le corporation, ha scritto una bella lettera polemizzando con i musicisti che permettono che le loro canzoni vengano inserite negli spot commerciali in cambio di una manciata di soldi.

La lettera, pubblicata, fra gli altri da Dangerous Visions, Letters of Note e The Nation, contiene alcuni concetti non banali, che a una prima lettura del fenomeno possono sfuggire. Per esempio:

  • quando vendete alle aziende la vostra musica, vendete anche il vostro pubblico perché loro la useranno per convincere la gente ad acquistare automobili, drink e biancheria;
  • le corporation sperano di dirottare i ricordi di una cultura verso i loro prodotti (che invece non ne sono per nulla collegati);
  • loro vogliono il pubblico di un artista, la sua credibilità, la sua reputazione e tutta l’energia che le sue canzoni hanno concentrato con il passare degli anni.

Mi rendo conto che parlare di etica nel 2014 può sembrare perfino da bacchettoni, ma la realtà è che un musicista che raggiunge la notorietà è portatore di un certo grado di potere sulla gente e non deve permettere che venga utilizzato per qualsiasi cosa in cambio di denaro. È il lato bello del copyright: la possibilità che il compositore ha di vietare che la propria musica venga utilizzata in determinati contesti. E non è detto che ci si perda, come Ligeti e lo stesso Tom Waits insegnano: a volte le corporation sono così sfacciate che, chiamandole in causa, si vince (Ligeti ha vinto contro i produttori do 2001 Odissea dello Spazio che avevano smontato e usato il suo brano Atmosphères, mentre Tom Waits ha ottenuto 2.6 milioni di $ da Frito-Lay che aveva rifatto una sua canzone).

Ecco la lettera originale, già ripubblicata qui

Thank you for your eloquent “rant” by John Densmore of The Doors on the subject of artists allowing their songs to be used in commercials [“Riders on the Storm,” July 8]. I spoke out whenever possible on the topic even before the Frito Lay case (Waits v. Frito Lay), where they used a sound-alike version of my song “Step Right Up” so convincingly that I thought it was me. Ultimately, after much trial and tribulation, we prevailed and the court determined that my voice is my property.

Songs carry emotional information and some transport us back to a poignant time, place or event in our lives. It’s no wonder a corporation would want to hitch a ride on the spell these songs cast and encourage you to buy soft drinks, underwear or automobiles while you’re in the trance. Artists who take money for ads poison and pervert their songs. It reduces them to the level of a jingle, a word that describes the sound of change in your pocket, which is what your songs become. Remember, when you sell your songs for commercials, you are selling your audience as well.

When I was a kid, if I saw an artist I admired doing a commercial, I’d think, “Too bad, he must really need the money.” But now it’s so pervasive. It’s a virus. Artists are lining up to do ads. The money and exposure are too tantalizing for most artists to decline. Corporations are hoping to hijack a culture’s memories for their product. They want an artist’s audience, credibility, good will and all the energy the songs have gathered as well as given over the years. They suck the life and meaning from the songs and impregnate them with promises of a better life with their product.

Eventually, artists will be going onstage like race-car drivers covered in hundreds of logos. John, stay pure. Your credibility, your integrity and your honor are things no company should be able to buy.

TOM WAITS

N.A.S.A. music project

Boing Boing Video proudly debuts a new piece from the “great god almighty could it get any more awesome?” N.A.S.A. music project, this one from two personal music heroes: Tom Waits, and Kool Keith. The track is called Spacious Thoughts, and you can pick it up on the project’s debut album, Spirit of Apollo.

NASA, short for “North America South America,” is a music collaboration project assembled by Squeak E. Clean (aka Sam Spiegel, brother of film director Spike Jonze) and DJ Zegon (Ze Gonzales, professional skateboarder).

The music video was created by Montreal-based Fluorescent Hill and can be downloaded here. More on “the making of”, and interview with artists here.

Note that this version is in HD and needs a fast connection. If yours is too slow, go see it on the YouTube site.

Kronos Quartet & Tom Waits

In September 2003, Kronos teamed up with Tom Waits for a concert at Lincoln Center in New York to benefit the humanitarian organization Healing the Divide, and a live recording of the performance was released on July 10th.
Other performers that night included Philip Glass, Anoushka Shankar, and Foday Musa Suso.

Un’altra esibizione con la stessa formazione

0:00 Way Down In The Hole (Intro by James Hetfield)
5:02 Cold Cold Ground
9:44
Little Drop Of Poison
12:52
The Part You Throw Away
17:30 God’s Away On Business
21:03
Day After Tomorrow
26:48
What Keeps Mankind Alive
29:58
Diamond In Your Mind

Tom Waits – Vocals, Guitar, Organ David Harrington – Violin, John Sherba – Violin, Hank Dutt – Viola, Jeffrey Zeigler – Cello, Larry Taylor – Upright Bass
Performed at The Shoreline Amphitheatre, Mountain View, California, United States

Qualche volta si fa festa, altre volte c’è carestia: in mezzo il nulla.

Su Repubblica del 10 novembre 2006, in occasione della presentazione di “Brawlers, bawlers and bastards”, il nuovo triplo cd, era uscita un’intervista con Tom Waits breve, ma così bella che non riesco a resistere alla tentazione di riportarla.
Tom parla nel modo che mi è sempre piaciuto: facendo poesia (la descrizione finale della vita è grandiosa). Una cosa che riesce a pochissime persone (uno grandioso in questo era William Burroughs).
In ogni caso riconosco che la proprietà dell’intervista è di Repubblica e dell’autore, Giuseppe Videtti. Mi impegno fin d’ora a toglierla dietro semplice richiesta via mail.
Pensate però che questa vostra bella pagina ormai è finita nel dimenticatoio perché, come dicevano i Rolling Stones, “who wants yesterday’s papers?”. Così, almeno, un po’ di gente la legge di nuovo…

Ecco l’intervista. Godetevela ascoltando Bottom of the world, il brano diffuso in internet come trailer del disco.

Lei dice di scrivere canzoni che, a volte, non vogliono essere cantate.
“Incidere una canzone è come catturare un passero: devi farlo senza rischiare di ucciderlo. A volte per la fretta di trasferire una canzone su disco ti resta in mano con un pugno di piume, e il passero, cioè la canzone, è volato via”.

Quando capisce che è il momento di cantare questa o quella canzone?
“Le canzoni hanno una loro gestazione, alcune hanno urgenza di essere diffuse, altre vogliono restare nell’ombra e continuare a cambiare col tempo. La canzone ha una tradizione millenaria, l’industria discografica, al contrario, ha appena cent’anni di vita. Per secoli le canzoni sono state tramandate oralmente. Nessuno può assicurarci che i brani “popolari” sono giunti a noi nel modo in cui furono scritti in origine”.

Qual è stata la prima volta che una canzone le ha attraversato la mente e le ha fatto desiderare di essere un cantautore.
“Quando mio padre mi cantava le arie messicane accompagnandosi con la chitarra. Dovevo avere 4 anni, non di più. Poi arrivò Harry Belafonte e fu amore al primo ascolto. Anch’io sono sempre stato attratto da culture “altre”, la mia musica nasce dalla lotta d’influenze inconciliabili fra loro. Mi piacciono Judy Garland e Black Flag, Frank Sinatra e Sex Pistols, mariachi, rumba, bossa nova…”.

E tango…
“Molto tango… una volta alla radio si ascoltava di tutto, quella è stata la mia scuola. Non ero io che scoprivo la musica, erano quelle canzoni che mi cercavano. Da adolescente ascoltavo il leggendario dj Wolfman Jack, fu lui a spalancarmi gli occhi sulla black music, poi finii in una scuola superiore frequentata in massima parte da neri, e allora scattò la scintilla per James Brown e tutta la musica nera. Che bei tempi, quanti talenti. Oggi l’industria è piena di bugiardi e disonesti. Cercano di convincere il primo venuto che sarà il prossimo Elvis, questo è l’inganno; poi se non vende subito lo buttano via come un barbone, anche se è un genio”.

Com’era l’industria quando lei esordì, negli anni 70?
“C’erano sciacalli e pescecani, come oggi, ma anche a personaggi naïf come me veniva offerta una chance”.

Vuol dire che aveva una dose sufficiente di creatività?
“Creatività? Sì, e molti desideri e sogni, ma ero anche giovane e stupido. E molto fragile, e a qualcuno questa mia fragilità piacque, e decise di proteggermi facendomi incidere un disco. Ma a quel punto ebbi bisogno di un manager e, come succede a tutti, fui frodato”.

A lei fu data la possibilità di continuare a incidere.
“Ognuno vive il suo tempo, io esordii in un periodo in cui l’industria cercava di fertilizzare le uova che aveva nel pollaio. Oggi iPod, Mp3 e Internet hanno atrofizzato l’interesse del pubblico, anche gli artisti hanno perso quel senso d’avventura che ci spingeva a sperimentare. Quel che mi consola è che, nonostante tutto, c’è ancora voglia di suonare dal vivo; la musica continua a essere un bisogno primario”.

Non c’è da essere pessimisti con 33 anni di carriera come la sua.
“Ogni cosa ha il suo prezzo. Fin dall’inizio sapevo che non volevo arrivare a 24 anni e odiare la musica, sapevo che c’erano meccanismi che non mi piacevano e un certo tipo di pop che non avrei mai voluto fare. La mia longevità ha a che fare con una sorta d’integrità che, ovviamente, ha richiesto dei sacrifici economici. Sa come va la storia, no? La tua foto sui giornali diventa sempre più piccola, le recensioni dei tuoi dischi sempre più brevi. Ma è ok, non ho mai pensato di diventare come Beatles e Rolling Stones”.

Che successe nel 1983, quando con Swordfishtrombones diede un taglio netto al passato?
“Mia moglie e io volevamo produrci il disco da soli, sapevamo che era un album diverso, ma tutti volevano che io rimanessi lo stesso, neanche fossi la ricetta di un soft drink. Mi trattavano come una 7Up, io invece ero alla ricerca di qualcosa che non riuscivo a trovare dentro di me. Kathleen diceva: “I tuoi dischi suonano come se avessi sul viso una maschera”, voleva che somigliassi di più a me stesso”.

Cosa la colpì di Kathleen all’inizio, la donna o l’artista?
“La donna. Se non ci fosse stato amore non saremmo ancora insieme dopo 26 anni. E mi creda, collaborare con qualcuno che ami è la cosa più bella. Noi due siamo come la ciurma di una nave, devi saper cucinare, riparare, rammendare, governare, nuotare. La nostra è una grande cucina”.

Sua moglie dice di lei che è l’uomo più testardo che abbia mai conosciuto.
“È vero, è difficile farmi cambiare idea, anche se la paternità mi ha fatto diventare più… malleabile. Il vero matrimonio indissolubile è quello con i figli (io ne ho tre, il più grande suona con la mia band), da loro non puoi divorziare. Riesco a mantenere la calma anche quando mi chiedono: “Hey pa’, puoi trovarmi un paio di biglietti per il concerto dei Red Hot Chili Peppers?””.

Come scorre la sua vita in mezzo a tutto questo silenzio?
“Diversa ogni giorno. È come stare sulla torre di controllo di un aeroporto: momenti di noia mortale, momenti di terrore assoluto. A volte la barca è piena di pesci, a volte sei in cerca della tua fede nuziale in fondo all’oceano, a volte il vento soffia così forte che quasi ti strappa la pelle dal viso, a volte sorseggi un limonata sul bordo della piscina. Qualche volte si fa festa, altre volte c’è carestia: in mezzo il nulla. A volte, come diciamo noi americani per dire che diluvia, piovono cani e gatti, altre volte anche tori, mucche e topi. E qualche volta la mia vita galleggia su un petalo di giglio”.