RIP: James Graham Ballard

coverDue parole per ricordare James Graham Ballard, scrittore, principalmente di fantascienza, ma non solo. Uno dei miei preferiti nel genere, con i suoi romanzi sulla fine del mondo descritta in molti modi (Il vento dal nulla, Deserto d’acqua, Terra bruciata, Foresta di cristallo), ma anche con la potente immagine dell’uomo asserragliato su un balcone che mangia un cane con cui inizia Condominium, o con la New York fantasma, abbandonata di Hello America.

Poi celebrato come il narratore dello spazio interno e divenuto infine un scrittore iperrealista, in un percorso artistico analogo a quello di William Gibson. La sua Atrocity Exhibition, ambientata in una clinica psichiatrica, fonde il panorama esterno ed interno, in un universo frammentato dai media. Di Crash, portato in film da David Cronenberg, Baudrillard scrisse:

Crash è il nostro mondo, niente vi è “inventato”: lì tutto è iperfunzionale, la circolazione e l’incidente, la tecnica e la morte, il sesso e l’obiettivo fotografico; tutto è come una grande macchina sincrona, simulata… In Crash non c’è più finzione né realtà: l’iperrealtà le abolisce entrambe.

Nato a Shanghai nel 1930 da genitori britannici, Ballard ci ha lasciato il 19 Aprile a 78 anni.

Flurb

Rudy Rucker è un matematico, divulgatore scientifico e autore di fantascienza (Luce bianca, Software, Su e giù per lo spazio-tempo, Le formiche nel computer, fra i romanzi tradotti in italiano).

Dal 2006 mantiene una webzine che esce due volte l’anno, ricca di articoli interessanti e racconti. Nell’ultimo numero c’è anche un intervento di Bruce Sterling. Nei precedenti, scritti di Shirley e Di Filippo fra gli altri.

Su intitola Flurb.

Un paese di spie

guerrerosOgni tanto è giusto parlare un po’ anche di libri, visto che la lettura è la mia seconda attività asociale, dopo il computer.

Come mi ha fatto giustamente notare un amico, ormai Gibson ambienta le sue storie in un quasi-presente invece che in un più o meno lontano futuro. Io aggiungo che sembra molto più interessato a fare saggistica piuttosto che narrativa, cioè a spiegare come si muovono o funzionano alcune cose, più che raccontare storie. Con questo, i suoi libri non diventano meno leggibili: semplicemente cambiano genere e sono più interessanti che coinvolgenti.

Qui, in Guerreros, troviamo quattro individui di diversa estrazione: una ex cantante rock riciclatasi come giornalista che si trova a lavorare per una nuova rivista che forse non è solo una rivista; un tossico di fascia alta in mano a una non ben determinata agenzia governativa; un piccolo delinquente esule cubano che trasporta informazioni per una non specificata mafia e un programmatore di alto bordo, esperto in realtà virtuali e applicazioni geospaziali, che non dorme mai nello stesso quadrato di una griglia gps (e non “nello stesso posto”, come dicono 3/4 dei commentatori e le stesse note di copertina).

Tutti costoro sono impegnati a seguire le tracce di uno stramaledetto container che qualcun altro sta spostando continuamente. Il perché viene rivelato solo alla fine, quindi non ve lo dirò, però è interessante notare come la storia e quindi anche il finale, in fondo siano secondari rispetto alla descrizione dei personaggi e dell’ambiente in cui si muovono.

Se vogliamo, l’intreccio, la storia, è debole. Non lo è, invece, la descrizione degli effetti socioculturali della tecnologia. L’idea dell’arte locativa, in pratica una scultura virtuale che la gente vede soltanto recandosi in un certo luogo e indossando un apposito casco collegato a un PC, per esempio, è notevole. In effetti, lo stesso Gibson dichiara

If the book has a point to make where we are now with cyberspace, is that cyberspace has colonized our everyday life and continues to colonize everyday life.

Anche l’integrazione degli Orisha nella storia, una invenzione dell’autore fin da Giù nel Ciberspazio, raggiunge qui un livello significativo e non forzato, come poteva sembrare nei lavori precedenti.

La forma è quella attualmente prediletta da Gibson, tipica più della TV che del film: storie parallele narrate frame by frame, un pezzettino per ciascuna che, se ci pensate, è la forma delle soap opera da Dallas in poi. Storie parallele che a tratti si incrociano, si toccano o semplicemente si sfiorano, per unirsi solo nel finale.

Anche in questo senso il romanzo è debole. Ci si aspetterebbe una forma non dico innovativa, ma almeno un po’ più contemporanea. Però è quella che ultimamente va di moda nella fantascienza.

Infine, due parole su questa demenziale abitudine, non solo italiana, di cambiare i titoli senza alcuna ragione apparente (in Francia si intitola Code Source). Sicuramente, nella testa di un executive della casa editrice, una qualche ragione ci sarà, ma a me sfugge. Non mi sembra nemmeno che il titolo italiano sia più bello o più evocativo. Il titolo originale è Spook Country che, a mio avviso, non significa Un Paese di Spettri, come molti traducono. Spook vuol dire, sì, fantasma in inglese, ma in americano ha assunto il significato di spia, così la traduzione è Un Paese di Spie. L’essenza di un libro in cui tutti spiano e sono spiati. Molto più bello.

L’inganno del 2000

Il blog Modern Mechanix ha recuperato un articolo del 1968 in cui si descrive la vita nel 2008 ed è interessante perché, in un certo qual modo, si collega al post precedente e ai discorsi sulla fantascienza in genere.

Leggerlo è divertente, ma fa anche pensare. L’articolo è la classica predizione fantascientifica intrisa di fede scientista che andava di moda negli anni ’60. Alcune cose sono azzeccate, ma la maggior parte delle predizioni è iper-ottimistica, cioè, le cose di cui si parla effettivamente esistono, ma non sono utilizzate con la facilità e la diffusione descritte.

Un esempio banale. Una persona che sta viaggiando in auto riceve una richiesta di informazioni dall’ufficio. Lui fa uno schizzo con uno stilo su uno schermo portatile, lo invia all’ufficio dove viene immediatamente stampato. Con la tecnologia attuale si tratta di una cosa perfettamente possibile, ma non la si vede quasi mai.

È un esempio di quello che io chiamo “l’inganno del 2000” di cui è stata vittima quasi tutta la mia generazione. Da bambino, leggevo articoli come questo e ci credevo. Auto che si guidano da sole, computer che regolano il traffico, giornali che arrivano su uno schermo, città climatizzate e prive di inquinamento e poi lo spazio…

Quando, poi, il 2000 è arrivato davvero, tirando un po’ di somme, la delusione più evidente era, ovviamente, lo spazio. In tutto una decina di persone hanno messo piede sulla luna, ma Marte è decisamente fuori portata e di basi nemmeno l’ombra.

Ma anche altre cose, il cui sviluppo 40 anni fa poteva sembrare giustificabile e razionale, oggi non esistono, anche se potrebbero esistere. È interessante notare, infatti, che, nella maggior parte dei casi, queste predizioni non erano errate sotto il profilo scientifico, bensì sul piano politico ed economico.

In pratica, la ricerca il suo dovere l’ha fatto. È la politica che non è stata in grado di gestirne i risultati nell’interesse pubblico. E il vedere che molte cose che si potrebbero fare facilmente, in realtà esistono solo in qualche isola fa un po’ incazzare.

Insomma. quando ero piccolo mi dicevano “vedrai quando avrai 50 anni…” Adesso ho passato i 50. Non ho visto niente.

La Sentinella

«Qui giace Arthur Clarke. Non è mai stato un grande ma non ha mai cessato di crescere»

Con una ottantina di libri e decine di milioni di copie vendute, Arthur C. Clarke era probabilmente lo scrittore di fantascienza più famoso dopo Isaac Asimov e uno dei primi che noi, ragazzini degli anni ’60, incontravamo iniziando a leggere fantascienza.

Ricordo che, a parte Jules Verne, che avevo letto più o meno a 8/9 anni e un libro per ragazzi di cui non ricordo né l’autore né il titolo, il primo vero romanzo di fantascienza in cui mi imbattei, a 11/12 anni, fu “Tutto bene a Carson Planet” re-titolazione (a quei tempi si usava) di “The war against the Rull” di A. Van Vogt. Subito dopo arrivò “Cronache Marziane” di Bradbury e poi qualche Urania di Asimov e Arthur Clarke, fra cui la famosa Sentinella che intanto era diventata parte di 2001 Odissea nello Spazio.

In effetti, lo stesso Clarke nel 1983 affermava:

Continuo a notare con fastidio che si cita erroneamente La Sentinella come “il racconto su cui si basa 2001”. In realtà il racconto assomiglia al film come una ghianda potrebbe assomigliare a una quercia adulta. (Molto meno, anzi, perché nel film compaiono idee di vari altri racconti). Anche gli elementi che Stanley Kubrick ed io abbiamo effettivamente utilizzati sono stati alquanto modificati. Così la “struttura scintillante, di forma quasi piramidale… incastonata nella roccia come una gigantesca gemma dalle mille sfaccettature” divenne – dopo parecchie modifiche – il famoso monolito nero…
[A. Clarke, in La Sentinella, Interno Giallo, Milano, 1990]

La cosa curiosa, riportata dallo stesso Clarke nel commento al suo racconto che, ricordiamo, è stato scritto nel Natale del 1948, è che anche La Sentinella ha un antenato pubblicato ben 30 anni prima. Si tratta di “The Red One” di Jack London, in cui si parla della “Figlia delle Stelle”, un’enorme sfera rimasta a giacere per intere epoche nella giungla di Guadalcanal.
Evidentemente l’enigma ancora irrisolto “siamo soli nell’universo?” è troppo potente e citando ancora una volta Clarke

Esistono due possibilità: o siamo soli nell’universo non lo siamo. Entrambe sono terrificanti.

Però la frase per cui io lo ricorderò sempre è quella passata alla storia come la sua terza legge:

Una tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia.

È sempre stato così Arthur Clarke: rigorosamente scientifico, capace di passare alla storia come l’ideatore del concetto di satellite geostazionario, tanto che quando John Robinson Pierce, ai laboratori Bell, progettò il Telstar I – il primo satellite geostazionario per telecomunicazioni – il brevetto gli fu negato in quanto l’idea era stata già descritta proprio da Clarke.
Scientifico, ma nello stesso tempo ricco di poesia e capace di far sognare, come con le farfalle delle Fontane del Paradiso o con quell’immensa scatola, piena di segreti, che passa e se ne va, senza degnarci di uno sguardo, nel primo libro di Rama.

Comunque è ben triste rendersi conto che quelli che hanno significato qualcosa per me, cioè quelli che in qualche modo hanno segnato la mia gioventù e mi hanno fatto sognare, uno dopo l’altro si stanno spegnendo. È vero che dopo di loro ce ne sono stati altri, ma è anche vero che, dopo una certa età, non stato più disposto a farmi segnare più di tanto.

Alla fine, negli ultimi 20 anni, c’è una persona sola che è riuscita a farmi sognare, ma non è così importante per il resto del mondo…

reality and madness, time and death, sin and salvation

philip k dickSul New Yorker, Adam Gopnik, lui stesso scrittore, pubblica una bella celebrazione di Philip K. Dick, lo scrittore che, secondo Ursula K Le Guin, “ci intrattiene parlando di realtà e pazzia, tempo e morte, salvezza e peccato”.
E anche quello che, in certi giorni, mi permette di dire che “mi sento come in un romanzo di Philip Dick”.

In the current issue of the New Yorker, Adam Gopnik has a beautiful essay celebrating the surrealist science fiction author Philip K. Dick.