Giardino verticale

Interessante idea quella del giardino verticale (chiamato anche living wall o Mur Végétal in francese). Si può incrementare drasticamente la quantità di verde senza occupare spazio al suolo.

Lo specialista e inventore di questa configurazione botanica è Patrick Blanc.

Però mi chiedo come possano lavorare i giardinieri. Serve qualche gru, o forse si calano come i lavavetri?

Il giardino nell’immagine è a Madrid.

Via: Dark Roasted Blend, dove potete vedere altri esempi.

giardino verticale

Genesi: Sebastião Salgado a Venezia

sebastiao-salgado

C’è una mostra da vedere a Venezia. 240 immagini di Sebastião Salgado ispirate alla terra incontaminata. 240 foto prese in quel 40/45% del nostro pianeta che rimane quasi intoccato da mano umana o perlomeno toccato ma a un livello ampiamente sostenibile, in cui il poco di umanità che lo abita non consuma più di quanto la terra possa produrre.

Otto anni e 32 viaggi per riempire le cinque sezioni di questa mostra, dedicate al altrettante aree del globo in cui la “civiltà” non è riuscita a introdursi in modo massiccio: l’Antartide e il sud dell’Argentina, l’Africa, alcuni luoghi piccoli ma peculiari come il Madagascar, Papua Nuova Guinea e l’Irian Jaya, il Grande Nord e infine l’Amazzonia, il polmone verde del pianeta, che contiene oltre un decimo della biodiversità presente sulla terra.

C’è una incredibile bellezza in queste immagini. Una bellezza che ognuno può interpretare come vuole (per me assolutamente laica), ma che rimane innegabile e sublime, termine, quest’ultimo, che non sono mai riuscito ad associare alle creazioni umane. A parte i molti viaggi di quando ero più giovane, io colleziono tuttora immagini della terra senza l’uomo e trovo che, anche dal punto di vista estetico, siano inarrivabili. C’è un equilibrio fra diversità e ripetizione, fra struttura e casualità che è una grande fonte di ispirazione, ma anche qualcosa di irraggiungibile.

Mi spiace solo che la natura non sia riuscita, finora, a porre un serio limite alla crescita umana. Ha tentato molte volte, con e senza il nostro aiuto, raggiungendo anche risultati apprezzabili, ma non ci è mai andata nemmeno vicina. Forse tenterà di nuovo e fallirà meglio. O forse, prima o poi, troverà una soluzione un po’ brusca, tipo un asteroide ben centrato, che darà al pianeta qualche millennio di tregua per riprendersi.

Perché, secondo me, la conservazione del pianeta non è questione di intelligenza da parte nostra. Anche se un po’ più di attenzione non sarebbe male, anzi, a dire la verità, sarebbe obbligatoria e potrebbe ottenere buoni risultati, non c’è niente da fare. È solo una questione di quantità.

Genesi è aperta dal 1 Febbraio al 11 Maggio alla Casa dei Tre Oci, alla Giudecca. Sito di riferimento.

Le foto sono in bianco/nero, ma, come diceva Samuel Fuller “la vita è a colori, ma il bianco e nero è più realista”. Altre immagini qui.

Requiem 2019

Requiem 2019 è uno spot per sostenere lo stop totale e definitivo alla caccia alle balene. Un breve film che si avvale della presenza di Rutger Hauer (Blade Runner e molti altri film) in cui l’ultima balenottera azzurra guarda negli occhi il suo unico vero nemico: noi.

Regia di Rutger Hauer e Sil van der Woerd. Guardatelo a schermo intero (click in basso a destra). Questa la sua pagina su vimeo.

Earth Overshoot Day: 22 Agosto

In seguito a nuovi calcoli, l’Earth Overshoot Day, che è il giorno in cui noi, razza umana, cominciamo a consumare più risorse di quante il pianeta Terra sia riuscito a rinnovare, è arretrato al 22 Agosto.

Evidentemente alcuni calcoli sono stati rifatti rispetto al mio post del 2008 sullo stesso argomento perché il primo anno di totale utilizzo delle risorse del pianeta, oggi viene fissato dal Global Footprint Network alla metà degli anni ’70 invece che al 1986 come riporta wikipedia (a meno che wikipedia non sbagli; io l’avevo usata come fonte anche nel precedente post). In effetti, la data in cui si stima che il nostro consumo arriverà al 200%, cioè avremo bisogno di due terre per sostenerci, rimane fissata al 2050 (circa).

Attualmente siamo, secondo le stime, al 156%. È come se, ogni anno, guadagnassimo 1000 e spendessimo 1560, cioè perdiamo 560 all’anno, il che significa che, ogni anno, consumiamo una quota di risorse che il pianeta non riesce a rinnovare. Ovviamente, non potremo andare avanti così per sempre, ma il momento della resa dei conti dipende essenzialmente dal capitale iniziale. Disponendo, per esempio, di un capitale pari a 100.000, potremmo andare avanti 178 anni spendendo il 156% di quanto guadagniamo.

Però, dobbiamo tener presenti due cose. La prima è che il nostro consumo di risorse dipende dalla popolazione, dal livello di vita e da come, cioè a quale prezzo in termini di risorse, questo livello di vita è mantenuto (per esempio, dato un consumo medio pro capite di energia elettrica, il fatto che questa energia sia prodotta dal petrolio o da fonti rinnovabili cambia di molto le cose.

Il punto è che la popolazione mondiale è in rapido aumento, che tutti vogliono elevare il proprio livello di vita e che l’investimento sulle fonti rinnovabili è limitato. Il che significa che il consumo di risorse globale è in aumento.

Il secondo dato di fatto è che effettivamente il pianeta costituisce un capitale iniziale molto grande, ma minore di quanto si possa immaginare, visto che, al di fuori del primo mondo (il nostro), gli effetti si sentono già e il primo segnale è la spinta all’immigrazione.

Si deve inoltre considerare che il pianeta non è come il conto in banca che oggi è in positivo e domani in rosso. Le risorse sono un insieme complesso e multiforme che non si esaurisce tutto in un solo colpo, ma degrada in modo “dolce” con numerosi effetti collaterali. Per fare un esempio, un eventuale esaurimento del petrolio non arriverebbe in un solo colpo. Prima si esaurirebbero i giacimenti più sfruttati, cioè quelli da cui è più semplice e meno costoso estrarlo. A questo punto inizierebbero ad essere sfruttati i depositi più difficili, che comportano maggiori spese, quindi il prezzo si alzerà determinando una riduzione dei consumi e maggiori investimenti sui combustibili alternativi avviando una trasformazione che avrà una serie di effetti che io sono in grado, al limite, di immaginare, ma non di prevedere (e anche gli esperti hanno qualche difficoltà). La cosa, quindi, è molto complessa, però non si dovrebbe ignorare, mentre attualmente ci si concentra solo sul parare le singole emergenze.

In questo grafico, elaborato da me basandomi sui dati del Global Footprint Network (sul sito linkato sopra c’è un simpatico tachimetro che mostra questi numeri), si vede l’andamento attuale e la proiezione per gli anni a venire. In ascissa gli anni e in ordinata la percentuale delle risorse che spendiamo annualmente.

I cani della metro di Mosca

Quello dei cani randagi che vivono nella metropolitana di Mosca è uno dei più strani e interessanti ecosistemi urbani esistenti.

Anche a causa della durezza dell’inverno russo, nel sistema di gallerie della metro moscovita, che attualmente si estende per circa 300 km, girano ormai più di 500 cani randagi che sopravvivono chiedendo cibo ai passanti. Contrariamente a quanto si può pensare, non ci sono stati casi di attacco agli esseri umani, anzi, qualche volta è accaduto il contrario.

Alcuni anni fa, per esempio, Yulia Romanova, una modella 22enne, stava rientrando a casa con il suo staffordshire terrier quando, nella stazione Mendeleyevskaya ha incontrato Melchik, un randagio nero che, alla vista dell’altro cane, ha iniziato ad abbaiare per difendere il proprio territorio perché, per lui, quella era la sua stazione. Invece di scansarlo come facevano tutti, Yulia Romanova si è diretta con decisione verso Melchik e lo ha accoltellato, uccidendolo. Di conseguenza è stata arrestata e la sua unica possibilità di evitare il carcere è stata di sottoporsi a un anno di trattamento psichiatrico.

Una statua bronzea di Melchik (nella foto a fianco), pagata da donazioni spontanee, è state eretta all’entrata della Mendeleyevskaya, a testimonianza della simpatia dei moscoviti (Update: è nata una usanza secondo la quale accarezzare il naso di Melchik porta fortuna).

Ma, al di là di queste storie folkloristiche, l’organizzazione sociale dei randagi della metropolitana ha dei tratti di adattamento unici, tali da essere oggetto di studi.

È risultato, infatti, che alcuni cani sono diventati più abili di altri nell’individuare le persone da cui è più probabile ottenere qualcosa e nell’evitare quelle potenzialmente ostili. Questo fatto, in sé, non è così sorprendente, i cani sono intelligenti.

La cosa interessante, però, è che, secondo Andrei Poyarkov, ricercatore presso l’ A.N. Severtsov Institute of Ecology and Evolution, che studia i 35.000 randagi di Mosca ormai da 30 anni, nel caso dei cani della metropolitana sembra essere cambiato il modo in cui nei piccoli branchi si afferma un capo, cioè il cane alfa. Quest’ultimo, normalmente, è il più forte, il che, in campo aperto, equivale anche a una maggiore efficacia nella caccia. Però, in questo caso, sembra invece essere diventato il più abile nel procurarsi il cibo, indipendentemente dalla sua forza fisica.

Il punto più importante è proprio questo: questi cani, che in base al loro comportamento Poyarkov classifica nella categoria dei “mendicanti”, hanno realizzato che, in questo ambiente, la forza fisica non equivale a una maggiore sicurezza di nutrimento, ma, al contrario, un piccolo, ma grazioso esemplare ha più possibilità di ottenere qualcosa avvicinandosi a chi, magari, sta tornando a casa dopo aver fatto la spesa, rispetto a un grosso cane che può anche fare paura.

Notevole è anche il fatto che alcuni di questi cani hanno sviluppato la capacità di muoversi da una stazione all’altra prendendo i treni. Non è ancora chiaro come riconoscano la stazione a cui scendere, ma si presume che si basino su qualche odore particolare e che abbiano imparato a riconoscere l’annuncio della fermata (nella metro russa il conduttore annuncia sempre la prossima fermata). In questo modo, alcuni cani incorporano più stazioni nel proprio territorio e si spostano regolarmente dall’una all’altra a orari precisi. È normale, quindi, vedere un cane, da solo, che aspetta il treno sempre a quell’ora in una certa stazione, come nell’immagine di apertura di questo post.

C’è anche un sito dedicato ai cani della metro di Mosca (in russo): metrodog.ru

Il disastro del lago d’Aral

Ex lago di AralPensavo che queste immagini di navi da pesca abbandonate in mezzo al deserto fossero famosissime.

Era un po’ che volevo parlare del disastro ecologico del lago di Aral, o meglio ex lago di Aral. Non l’ho fatto perché ero convinto che fosse universalmente noto. Poi, conversando con un po’ di gente, mi sono reso conto che è solo vagamente noto, quindi ve lo racconto, con l’aiuto di wikipedia.

L’Aral (in russo Aralskoje More, Аральскοе мοре; in kazako Арал Теңізі) è un lago salato di origine oceanica, situato alla frontiera tra l’Uzbekistan (nel territorio della repubblica autonoma del Karakalpakstan) e il Kazakistan. Il nome deriva dal chirghiso “Aral Denghiz”, che significa “mare delle isole”, a causa delle numerose isole che erano presenti nei pressi della costa orientale. È talvolta chiamato erroneamente mare d’Aral, poiché possiede due immissari (Amu Darya e Syr Darya) ma non ha emissari che lo colleghino all’oceano; è infatti un bacino endoreico.

Un bacino endoreico è semplicemente un bacino idrografico senza emissari.

È interessante chiedersi come un bacino endoreico possa mantenersi in equilibrio, visto che l’acqua entra, ma non esce. Come mai non si espande oltre un certo limite?

La risposta è la stessa dei mari e degli oceani: l’evaporazione. È l’evaporazione a far sì che il lago possa espandersi fino a un certo punto, ma non oltre, in proporzione alla quantità di acqua che riceve.

Ma la cosa non sta ancora in piedi se non si aggiunge un altro tassello. Il bacino idrografico che alimenta il lago, infatti, può essere anche immenso. Quello del Mar Caspio, per esempio, si estende per diversi milioni di km2.

Il bilancio con l’evaporazione forma un lago di “soli” 371000 km2. Questo perché l’evaporazione aumenta esponenzialmente con la superficie del lago. Più la massa d’acqua è estesa, più l’evaporazione incide. Ad un certo punto si arriva all’equilibrio.

Questo equilibrio, tuttavia, è precario. Il clima, l’esposizione solare e le precipitazioni condizionano sia l’entità dell’evaporazione che la quantità di acqua affluente.

Di conseguenza, questi specchi d’acqua possono manifestare grosse variazioni di superficie, non solo in tempi lunghi nel corso della loro storia, ma anche su tempi dell’ordine di pochi mesi, seguendo variazioni dell’andamento meteorologico stagionale.

L’evaporazione, infatti, aumenta con la temperatura e diminuisce con l’umidità relativa (la cosiddetta pressione di vapore): all’aumentare della temperatura aumenta il flusso evaporante, ma via via che ci si avvicina alla saturazione, il flusso diminuisce fino a stabilizzarsi. Il vento, però, portando via l’umidità (cioè il vapore acqueo), favorisce l’evaporazione.

L’equilibrio è delicatissimo. Ciò nonostante le variazioni del lago non comportano quasi mai la sua estinzione perché al diminuire della superficie d’acqua, diminuisce anche l’evaporazione.

Contrariamente a quanto si dice, non abbiamo notizie storiche di sparizioni e riapparizioni del lago di Aral. Si sa, invece, che la sua superficie si è ridotta fino al 1880 per poi aumentare fino al 1908. Si sa anche che nell’antichità aveva un emissario che portava le sue acque fino al mar Caspio e che fungeva da via navigabile collegata alla via della seta.

Il disastro iniziò ai primi del ‘900, quando si cominciarono ad utilizzare le acque dei suoi due immissari per alimentare le coltivazioni. All’inizio, comunque, lo sfruttamento era contenuto e non si notò niente di strano, anzi il lago sembrava crescere.

Nell’immediato dopoguerra, però, l’utilizzo delle acque dell’Amu Darya e del Syr Darya fece un salto notevole: le loro acque vennero prelevate da svariati canali al fine di irrigare i neonati vasti campi di cotone delle aree circostanti.

Sin dal 1950 si poterono osservare i primi vistosi abbassamenti del livello delle acque del lago. Già nel 1952 alcuni rami della grande foce a delta dell’Amu Darya non avevano più abbastanza acqua per poter sfociare nel lago. Il piano di sfruttamento delle acque dei fiumi a scopo agricolo aveva come responsabile Grigory Voropaev. Voropaev durante una conferenza sui lavori dichiarò, a chi osservava che le conseguenze per il lago sarebbero state nefaste, che il suo scopo era proprio quello di “far morire serenamente il lago d’Aral”. Era infatti così abbondante la necessità di acqua che i pianificatori arrivarono a dichiarare che l’enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse idriche utili all’agricoltura e, testualmente, “un errore della natura” che andava corretto.

Un atteggiamento che oggi passa per folle, ma che negli anni 50/60 non lo era. Non voglio in alcun modo giustificarlo, ma solo inquadrarlo storicamente. Fino al diffondersi di una certa coscienza ecologica, la specie umana ha fatto migliaia di interventi di questo tipo (e anche oggi continua a farli) con risultati a volte buoni, a volte disastrosi, ma più spesso non ottimali, ma nemmeno così terribili.

Abbiamo deviato e interrato fiumi con effetti a volte pessimi, ma altre volte non così cattivi. Credo che meno di 1/1000 degli abitanti delle città siano consci di quanti fiumi interrati scorrano sotto i loro piedi (e quanto grandi siano) e di come siano stati deviati e rimodellati quelli esistenti. Per esempio, non so quanti moscoviti che passeggiano nel centralissimo quartiere Presnenskij sappiano che sotto i loro piedi scorre il Presnja, affluente non proprio piccolo della Moscova (in compenso, i genovesi si sono ben accorti dell’esistenza del Fereggiano).

Nella nostra storia abbiamo desertificato intere zone e bonificato paludi rendendo abitabili altri terreni, abbiamo spianato montagne, costruito isole e tagliato canali per collegare mari e oceani nonostante tonnellate di profezie avverse. Tutte queste azioni hanno cambiato il volto del pianeta, ma non decisamente in bene o in male. Hanno effetti positivi e negativi, però secondo me, nella maggior parte dei casi non ci è andata così male, prova ne sia il fatto che spesso non sappiamo nemmeno che queste cose sono state fatte.

Per esempio, sarebbe interessante sapere quanti di coloro che atterrano al Kansai International Airport (Osaka) o a Kobe, sanno che la terra su cui posano i piedi non c’era, prima che gli aeroporti venissero progettati (sono isole artificiali).

Nel caso del lago di Aral, i pianificatori ritenevano che il lago, una volta ridotto ad una grande palude acquitrinosa sarebbe stato facilmente utilizzabile per la coltivazione del riso, ma hanno sbagliato i calcoli, se mai li hanno fatti. Quello che invece è accaduto è che

Nel corso di quattro decenni la linea della costa è arretrata in alcuni punti anche di 150 km lasciando al posto del lago un deserto di sabbia salata invece del previsto acquitrino. A causa infatti della sua posizione geografica (si trova al centro dell’arido bassopiano turanico) è soggetto a una forte evaporazione che non è più compensata dalle acque degli immissari. L’impatto ambientale sulla fauna lacustre è stato devastante. Per far posto alle piantagioni, i consorzi agricoli non hanno lesinato l’uso di diserbanti e pesticidi che hanno inquinato il terreno circostante. Il vento che spira costantemente verso est/sud-est trasportando la sabbia, salata e tossica per i pesticidi, ha reso inabitabile gran parte dell’area e le malattie respiratorie e renali hanno un’incidenza altissima sulla popolazione locale. Le polveri sono arrivate fino su alcuni ghiacciai dell’Himalaya.

MappaAl posto delle acque del lago oggi ci sono 40 000 km2 di zona secca, di colore bianco a causa del sale sul terreno, denominati deserto del Karakum.

Cliccando questa immagine animata (guardatela per circa 30 sec.) potete apprezzare l’entità del disastro. Dal 1987 il lago si è diviso in due: la parte a nord, più piccola, è chiamata Piccolo Aral e quella a sud, ovviamente, Grande Aral. La diminuzione della superficie d’acqua ha superato il punto di non ritorno e senza interventi la totale scomparsa del lago sarebbe ormai inevitabile.

I pochi interventi sono iniziati nel 2000 con la messa in sicurezza della base militare sovietica che sorgeva su una delle isole.

Per anni una grave preoccupazione era costituita dall’installazione militare sovietica abbandonata dal 1992, i cui resti si trovano tuttora su quella che una volta era l’isola di Vozroždenie. In quella base infatti venivano condotti esperimenti di armamenti chimico-batteriologici. A causa dell’abbassamento del livello del lago, tale isola ormai era di fatto diventata parte della terraferma e facilmente raggiungibile. La presenza di fusti di antrace e di altri agenti tossici era nota e confermata sia dalle autorità ex-sovietiche, sia dalle autorità uzbeke, sia da quelle statunitensi incaricate di indagare sulla effettiva pericolosità del luogo. Tale installazione è stata bonificata definitivamente nel 2002 con uno sforzo congiunto delle autorità del Kazakistan e dell’Uzbekistan coadiuvate da consulenti statunitensi. Periodici sopralluoghi vengono via via effettuati nella zona per accertare l’eventuale persistenza di agenti tossici.

La difficoltà dell’intervento è acuita dal fatto che il territorio dell’Aral è diviso fra Kazakistan e Uzbekistan. Inoltre i suoi ex affluenti interessano anche Tagikistan, Turkmenistan, Kirghizistan ed in parte Afghanistan.

Allo stato attuale, l’unica nazione che ha intrapreso provvedimenti concreti per la situazione è il Kazakistan. In pratica, al di là di alcuni accordi formali tra loro, i governi delle altre nazioni che insistono nell’area interessata al passaggio dei due fiumi non hanno intrapreso significative azioni comuni per ripristinare l’afflusso delle acque verso il bacino del lago. Il motivo è che la coltivazione del cotone impiega ormai una quantità di lavoratori cinque volte maggiore di quella che una volta era impiegata nella pesca, che peraltro era concentrata nei soli Kazakistan ed Uzbekistan. Inoltre i terreni che le acque del lago hanno scoperto ritirandosi hanno mostrato di essere ricchissimi giacimenti di gas naturale. Nel corso del 2006 un importante accordo per lo sfruttamento del sottosuolo del lago è stato raggiunto tra il governo dell’Uzbekistan, la società russa LUKoil, la Petronas, la Uzbekneftegaz e la China National Petroleum Corporation. Un eventuale ritorno dell’acqua al livello originario sulla riva uzbeka renderebbe complicato questo genere di attività.

L’intervento kazako, finanziato dalla Banca Mondiale, si è concentrato sul Piccolo Aral e ha comunque raggiunto dei risultati notevoli. È stata costruita una diga per isolare il lago a nord dalla parte sud e ricongiunto al lago l’antico affluente Syr Darya, seppure con afflusso ridotto.

Grazie a ciò

Dal 2003 al 2008 la superficie del Piccolo Aral è passata da 2.550 km² a 3.300 km². Nello stesso periodo la profondità è passata da 30 a 42 metri. In alcuni villaggi è ripresa l’attività di pesca dopo che alcune specie di pesci erano state reintrodotte proprio per tentare di rendere la pesca nuovamente praticabile. Nel 2011, secondo le dichiarazione del presidente kazako Nursultan Nazarbayev, la quantità di pescato del Piccolo Aral è arrivata a 6000 tonnellate. Secondo gli imprenditori locali, il pescato del 2011 ammonterebbe addirittura a 18.000 tonnellate. Le acque del lago, inoltre, sono risultate abbastanza pulite da essere potabili e la salinità è tornata ai livelli simili a quelli pre-1960.

Tutto questo dimostra che, una volta fatto il danno, non tutto è perduto e che politiche e investimenti mirati possono ripristinare, almeno in parte, la situazione originaria. Tuttavia l’ambiente è transnazionale e spesso una delle cose più difficili da ottenere è il consenso di tutti i paesi interessati.

Il Kazakistan, che ha nel proprio territorio il Piccolo Aral, ha aderito al programma di salvataggio, ma l’Uzbekistan, nel cui territorio giace quanto rimane del Grande Aral, no.

Le autorità dell’Uzbekistan ritengono che ormai la situazione sia talmente compromessa che l’unica soluzione sia quella di investire nel rinverdimento del deserto lasciato dal lago evaporato invece di provvedere ad un suo eventuale nuovo riempimento. Stanno avendo un discreto successo delle opere di rimboschimento di Haloxylon ammodendron, un arbusto noto anche con il nome di “albero del sale”, in grado di vivere in ambienti aridi e dalla salinità elevata. Secondo un piano curato da autorità tedesche, uzbeke e kazake, nel giro di 10 anni circa 300.000 ettari saranno rimboschiti con questo tipo di vegetazione. L’obiettivo è quello di ridurre del 60%-70% la velocità del vento al suolo durante le frequenti tempeste di sabbia in modo da ridurre sensibilmente la quantità di polveri che i venti portano nei dintorni.

Così abbiamo due strategie praticamente opposte che tendono entrambe alla riduzione del danno, ma in modi diversi. Entrambe sono maledettamente costose.

Adesso ci potrebbero stare tonnellate di commenti moralisti del tutto inutili, perciò mi asterrò dal farli. Solo in parte l’uomo è in grado di imparare dai propri errori. Più spesso la memoria è soverchiata da considerazioni contingenti o che appaiono tali.

L’unico aspetto positivo di questa storia è che, proprio in tempi recenti, sul fondo prosciugato del lago sembra siano riapparsi i resti, risalenti al XIII-XIV secolo, di un’antica città.

Qualche altra immagine della zona del disastro (click per ingrandire).

Suomenlinna Ornithological Society

At the core of “Suomenlinna Ornithological Society” is the invention of new bird species with electronic birdsongs. The concrete sources of these birdsongs are samples taken from a Suomenlinna museum film about the history of the island. Explosions, cannonball whistles, and grisly vocal narrations are re-shaped into the rhythms, timbres and frequencies of birdsong. This transformation references the Electronic Voice Phenomenon (EVP), a supposedly paranormal occurrence where voices of the dead are heard via electronic technology.

The project has thus far been realized in three different forms:

  1. The Society’s Website archives the invented bird species as well as a number of real species found in Finland. A curious presence can also be detected by the inquisitive visitor.
  2. An “electro concrète” remix of the archive was commissioned by MUU Gallery for their net radio series Audio Autographs. This is an excerpt from the upcoming full-length album titled Ghost Cycle~, to be released under the moniker Suomenlinna Ornithological Society.
  3. Three small audio devices were created with the Arduino board + Waveshield by Adafruit Industries. These devices were placed in trees and gun shafts in the environment, playing the artificial birdsongs.

Project by Blake Carrington
Blake Carrington is an artist based in New York, exploring the interstices of geography and phenomenology. He recently completed residencies at HIAP in Helsinki and Atlantic Center for the Arts with Carsten Nicolai, and received an MFA in the Department of Transmedia at Syracuse University. With his two collaborators in the artist group Avalanche Collective, he co-founded Urban Video Project, a public arts initiative that used the post-industrial landscape of Syracuse as context for multimedia projections. Before coming to New York he lived in Japan for two years, working for the Japan Exchange and Teaching Programme.

View more work at http://blakecarrington.com

Stop Recycling, Start Repairing

Sono ormai anni che l’industria produce oggetti non riparabili. Con il – a mio avviso – pretesto della sicurezza, si fabbricano oggetti che non si possono aprire e smontare senza appositi attrezzi, ma, in tal modo, è impossibile ripararli da soli.

Di conseguenza, un frullatore con un banale filo staccato viene buttato e sostituito perché è inapribile dal cittadino comune e inviarlo ad un laboratorio costa troppo rispetto al suo prezzo da nuovo.
Lo stesso oggetto, invece, potrebbe essere aggiustato in casa da qualsiasi umanoide dotato di un minimo di buon senso.

Tutto ciò aiuta il consumo, ma produce anche rifiuti e sprechi a non finire.

Il sito olandese Platform21 ora promuove una campagna per rendere riparabili gli oggetti.

Platform21’s Repair Manifesto opposes throwaway culture and celebrates repair as the new recycling.
With our new project, Platform21 = Repairing, we seek to make repairing cool again – with your help. Let the manifesto inspire you, comment on it or add to it. Rediscover the joy of fixing things and share your most ingenious repair, your tips and your tricks. You could present them in person later, or see them on our website or in the exhibition that opens on Friday 13 March.
This project is about sharing knowledge and skills. Together we can start a movement, one that isn’t new per se but has been forgotten. So if you know a way to save a product, let us know by emailing info at platform21 dot com.

Green Island

Green Island è un progetto visionario, utopistico e provocatorio per una Tokyo più verde.

Queste immagini, create via computer graphic, vogliono attirare l’attenzione sulla mancanza di verde nella metropoli, che pure ne ha ben di più della media delle città giapponesi. Comunque sono di grande impatto ed è incredibile pensare a una Tokyo così (click image to enlarge).

Green Island

Earth Overshoot Day

globeSecondo i calcoli del Global Footprint Network, oggi cade l’Earth Overshoot Day per il 2008.

È il giorno in cui noi, razza umana, cominciamo a consumare più risorse di quante il pianeta Terra sia riuscito a rinnovare. In pratica, andiamo in rosso, togliendo risorse alle generazioni future.

Un tempo questo limite non veniva mai raggiunto. L’uomo non riusciva a consumare più di quanto la terra poteva produrre. Nel 1961 metà del prodotto della Terra era sufficiente per soddisfare le nostre necessità. Il primo Earth Overshoot Day è arrivato nel 1986, alla data del 31 dicembre: in quell’anno siamo andati in pari.

Da allora, l’Earth Overshoot Day è sempre arretrato. Nel 1995 la fase del sovraconsumo aveva già mangiato più di un mese di calendario: a partire dal 21 novembre la quantità di legname, fibre, animali, verdure divorati andava oltre la capacità degli ecosistemi di rigenerarsi; il prelievo cominciava a divorare il capitale a disposizione, in un circuito vizioso che riduce gli utili a disposizione e costringe ad anticipare sempre più il momento del debito.

Nel 2005 l’Earth Overshoot Day è caduto il 2 ottobre. Quest’anno siamo già al 23 settembre: consumiamo quasi il 40 per cento in più di quello che la natura può offrirci senza impoverirsi. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, l’anno in cui – se non si prenderanno provvedimenti – il rosso scatterà il primo luglio sarà il 2050. Alla metà del secolo avremo bisogno di un secondo pianeta a disposizione.

È interessante osservare gli effetti dei diversi stili di vita. Se il modello degli Stati Uniti venisse esteso a tutto il pianeta ci vorrebbero 5,4 Terre. Con lo stile Regno Unito si scende a 3,1 Terre. Con la Germania a 2,5. Con l’Italia a 2,2. Il paese che ha la più alta impronta ecologica (consumo di risorse per abitante) è quello degli Emirati Arabi Uniti, ma gli abitanti sono pochi. Seguono gli USA, il Kuwaid, il Canada, l’Australia e i paese occidentali in genere, insieme al Giappone.