I confini dell’evoluzione

coverNella calde sere d’estate si rilegge e questa è una rilettura di un romanzo di grande suggestione. Ian McDonald, I confini dell’evoluzione, collana Solaria, Fanucci editore, 2003 (orig. Evolution’s Shore, 1995), 458 pagg., € 16.

Un meteorite composto di materiale biologico piomba nel cuore dell’Africa. È il Chaga, che tutto ingloba senza distruggere nulla. Il Chaga deforma il nostro ambiente e lo rimodella secondo una propria biologia compatibile con la nostra, ma nuova e sconosciuta. Provoca repulsione in alcuni e affascina altri.

Non è qualcosa che distrugge, ma qualcosa che cambia profondamente l’ambiente. E si espande gradualmente. Una zona di alienazione che per alcuni equivale ad un nuovo Eden. A un rapporto molto più diretto fra l’uomo e la natura “Al di là del denaro, dell’energia, delle telecomunicazioni, delle ricevute delle tasse, al di là delle ipoteche, dei prestiti bancari, delle pensioni e delle assicurazioni.”

Un cuore di tenebra in cui si può vivere e a cui si può sopravvivere. Qualcuno va e resta, ma qualcun’altro va torna dal Chaga, ma ne esce anche visibilmente cambiato.

Il Chaga mantiene e nutre ciò che ne fa parte, imparando da ciò che ingloba e sintetizzando nuovi micro ambienti per permettere a tutte le entità biologiche di sopravvivere, sia pure diverse, cambiate, in una simbiosi che comporta anche una nuova organizzazione sociale: “l’abbondanza del Chaga era la negazione del consumo capitalista…”

L’altra faccia della realtà

millemondi_48È il titolo dell’Urania che sto leggendo (Millemondi num. 48, estate 2009, titolo originale Year’s Best SF #11).

31 racconti brevi (a volte molto brevi) e una introduzione, per 475 pagine, il che dà una media di 14.84375 pagine per racconto. Ma la varianza è elevata: ci sono racconti di 2.5 pagine; solo alcuni arrivano a 20; soltanto uno arriva a 50. Prezzo ragionevole: €5.50. L’ideale per la spiaggia, oppure per chi, come il sottoscritto, viaggia in treno tenendo corsi estivi di informatica musicale.

Il panorama degli autori è notevole, anche se, con la solita infamia tipica di Mondadori, il sottotitolo meriterebbe una condanna per pubblicità ingannevole. Infatti recita: “i migliori racconti dell’anno”, facendo pensare, ovviamente, all’anno scorso, mentre, né in copertina né in quarta si accenna al fatto che l’anno è il 2005. Te ne accorgi solo attaccando l’introduzione che, peraltro, è quella originale dei curatori David G. Hartwell e Kathryn Cramer.

Al di là di questa “piccola idiozia”, che comunque testimonia uno scarso rispetto per il lettore, i racconti sono piuttosto belli, stimolanti e rappresentativi delle tendenze recenti della SF.

Sono molti anni, ormai, che la fantascienza non è più una rivisitazione della vecchia contrapposizione cowboy contro indiani, ma negli ultimi tempi le sue ramificazioni si sono moltiplicate e allargate a dismisura. Se da Dick in poi, SF è anche un presente alternativo, da Gibson in poi, SF è anche un presente tout court, una possibile piega di un domani molto vicino.

Così i racconti di questa raccolta vanno dalle utopie possibili, agli effetti delle droghe sintetiche fino ai problemi della comunicazione aliena e alle tematiche più classiche della fantascienza di avventura e di esplorazione. D’altra parte, il racconto è sempre stato la spina dorsale della SF ed è così anche oggi grazie alle riviste online.

Fra i nomi spiccano Bruce Sterling, Greg Bear, Gregory Benford, Peter F. Hamilton, Vonda N. McIntyre, Rudy Rucker, Ted Chiang, Stephen Baxter, Joe Haldeman e altri, meno affermati, ma spesso sorprendenti.

A tutti gli autori è dedicata una pagina di presentazione completa di indicazione del loro sito.

Baudrillard rock star

baudrillardUnbelievable but true! Jean Baudrillard recites his poetry backed up by an all star band featuring Tom Watson, Mike Kelley, George Hurley, Lynn Johnston, Dave Muller and Amy Stoll, special guest vocalist Allucquère Rosanne Stone.

Recorded live as part of the Chance Festival at Whiskey Pete’s Casino in Stateline Nevada, 1996.

You’ve never heard Baudrillard like this before! Music to read Nietzsche to.

Listen to the tracks from UBUWeb.

Excerpt, track 2.

RIP: James Graham Ballard

coverDue parole per ricordare James Graham Ballard, scrittore, principalmente di fantascienza, ma non solo. Uno dei miei preferiti nel genere, con i suoi romanzi sulla fine del mondo descritta in molti modi (Il vento dal nulla, Deserto d’acqua, Terra bruciata, Foresta di cristallo), ma anche con la potente immagine dell’uomo asserragliato su un balcone che mangia un cane con cui inizia Condominium, o con la New York fantasma, abbandonata di Hello America.

Poi celebrato come il narratore dello spazio interno e divenuto infine un scrittore iperrealista, in un percorso artistico analogo a quello di William Gibson. La sua Atrocity Exhibition, ambientata in una clinica psichiatrica, fonde il panorama esterno ed interno, in un universo frammentato dai media. Di Crash, portato in film da David Cronenberg, Baudrillard scrisse:

Crash è il nostro mondo, niente vi è “inventato”: lì tutto è iperfunzionale, la circolazione e l’incidente, la tecnica e la morte, il sesso e l’obiettivo fotografico; tutto è come una grande macchina sincrona, simulata… In Crash non c’è più finzione né realtà: l’iperrealtà le abolisce entrambe.

Nato a Shanghai nel 1930 da genitori britannici, Ballard ci ha lasciato il 19 Aprile a 78 anni.

Flurb

Rudy Rucker è un matematico, divulgatore scientifico e autore di fantascienza (Luce bianca, Software, Su e giù per lo spazio-tempo, Le formiche nel computer, fra i romanzi tradotti in italiano).

Dal 2006 mantiene una webzine che esce due volte l’anno, ricca di articoli interessanti e racconti. Nell’ultimo numero c’è anche un intervento di Bruce Sterling. Nei precedenti, scritti di Shirley e Di Filippo fra gli altri.

Su intitola Flurb.

David Foster Wallace

Maledizione, abbiamo perso un altro grande scrittore. David Foster Wallace è stato trovato morto alle 21.30 del 12 settembre 2008, impiccato nella sua abitazione di Claremont, in California (qui sul LA Times). Sembra trattarsi di un suicidio.

In realtà Foster Wallace non era ancora un grande scrittore, ma lo stava rapidamente diventando. La sua tecnica era incredibile, supportata da una capacità di osservazione fuori dal comune. Con lui un piccolo fatto, un dato che pochi altri notano e se lo notano, lo archiviano come una cosa di poco conto, si espande in pagine di saggio.

Quando il dritto di Joyce entra in contatto con la palla, la sua mano sinistra dietro di lui si apre, come se stesse lasciando una presa, un gesto decorativo che non ha niente a che fare con la meccanica del colpo. Michael Joyce non lo sa, ma la sua mano sinistra si apre nel momento dell’impatto sul dritto: è una cosa inconscia, un tic estetico che è cominciato quando era bambino e che ora è inestricabilmente connesso con un colpo che esso stesso è ormai automatico per il ventiduenne Joyce, dopo anni passati a colpire molti, molti più dritti di quanti uno ne potrebbe mai contare.

E poi, nella nota:

La bizzarra posizione di servizio di McEnroe, aperta e con le braccia rigide, con entrambi i piedi paralleli alla linea di fondo e il fianco rivolto così rigorosamente alla rete che sembrava una figura su un fregio egizio.

Ecco, tutti quelli che conoscono il tennis hanno ironizzato sul servizio di McEnroe, ma nessuno ha mai notato la somiglianza con un bassorilievo egizio e invece è vero, starebbe benissimo in mezzo a quelle figure con le manine di profilo.

La prosa di Wallace era così: piena di collegamenti imprevedibili, ma reali. Il titolo del saggetto da cui sono tratte le citazioni di cui sopra la dice lunga sulla sua prosa vulcanica: L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano.

Talmente vulcanica che il testo non gli bastava e doveva ricorrere in dosi massicce a un artificio che gli altri scrittori avevano eliminato da tempo: le note. Infinite Jest (Scherzo infinito), il suo romanzo principale ha 1280 pagine nell’edizione Einaudi, di cui 100 di sole note.

Come nota Roberto Bertinetti sul Messaggero online:

La cerimonia per la consegna degli Oscar del porno gli permette così di ragionare sui misteri della libido, un festival organizzato nel Maine per promuovere il consumo di crostacei lo spinge a riflettere sul dolore, un viaggio al seguito di un candidato alle primarie presidenziali del 2000 gli suggerisce considerazioni sull’influenza dei media sul dibattito politico. Foster Wallace si sofferma su vicende ordinarie accentuandone le caratteristiche surreali, mentre gli elementi di follia presenti negli uomini e nelle donne di cui si occupa vengono ritenuti indizi di un disagio di portata più generale. Sotto questo profilo il saggio migliore è quello in cui racconta la mattina dell’11 settembre 2001 in una città dell’Indiana: mentre le Torri crollano, gli uomini e le donne del Midwest cercano di sfuggire all’orrore mostrato dalle tv precipitandosi a tosare l’erba dei loro giardini. Un gesto istintivo, commenta Foster Wallace, compiuto per proteggere un piccolo mondo antico che gli effetti degli attentati distruggeranno in fretta.

La sua bibliografia italiana su wikipedia.

Un paese di spie

guerrerosOgni tanto è giusto parlare un po’ anche di libri, visto che la lettura è la mia seconda attività asociale, dopo il computer.

Come mi ha fatto giustamente notare un amico, ormai Gibson ambienta le sue storie in un quasi-presente invece che in un più o meno lontano futuro. Io aggiungo che sembra molto più interessato a fare saggistica piuttosto che narrativa, cioè a spiegare come si muovono o funzionano alcune cose, più che raccontare storie. Con questo, i suoi libri non diventano meno leggibili: semplicemente cambiano genere e sono più interessanti che coinvolgenti.

Qui, in Guerreros, troviamo quattro individui di diversa estrazione: una ex cantante rock riciclatasi come giornalista che si trova a lavorare per una nuova rivista che forse non è solo una rivista; un tossico di fascia alta in mano a una non ben determinata agenzia governativa; un piccolo delinquente esule cubano che trasporta informazioni per una non specificata mafia e un programmatore di alto bordo, esperto in realtà virtuali e applicazioni geospaziali, che non dorme mai nello stesso quadrato di una griglia gps (e non “nello stesso posto”, come dicono 3/4 dei commentatori e le stesse note di copertina).

Tutti costoro sono impegnati a seguire le tracce di uno stramaledetto container che qualcun altro sta spostando continuamente. Il perché viene rivelato solo alla fine, quindi non ve lo dirò, però è interessante notare come la storia e quindi anche il finale, in fondo siano secondari rispetto alla descrizione dei personaggi e dell’ambiente in cui si muovono.

Se vogliamo, l’intreccio, la storia, è debole. Non lo è, invece, la descrizione degli effetti socioculturali della tecnologia. L’idea dell’arte locativa, in pratica una scultura virtuale che la gente vede soltanto recandosi in un certo luogo e indossando un apposito casco collegato a un PC, per esempio, è notevole. In effetti, lo stesso Gibson dichiara

If the book has a point to make where we are now with cyberspace, is that cyberspace has colonized our everyday life and continues to colonize everyday life.

Anche l’integrazione degli Orisha nella storia, una invenzione dell’autore fin da Giù nel Ciberspazio, raggiunge qui un livello significativo e non forzato, come poteva sembrare nei lavori precedenti.

La forma è quella attualmente prediletta da Gibson, tipica più della TV che del film: storie parallele narrate frame by frame, un pezzettino per ciascuna che, se ci pensate, è la forma delle soap opera da Dallas in poi. Storie parallele che a tratti si incrociano, si toccano o semplicemente si sfiorano, per unirsi solo nel finale.

Anche in questo senso il romanzo è debole. Ci si aspetterebbe una forma non dico innovativa, ma almeno un po’ più contemporanea. Però è quella che ultimamente va di moda nella fantascienza.

Infine, due parole su questa demenziale abitudine, non solo italiana, di cambiare i titoli senza alcuna ragione apparente (in Francia si intitola Code Source). Sicuramente, nella testa di un executive della casa editrice, una qualche ragione ci sarà, ma a me sfugge. Non mi sembra nemmeno che il titolo italiano sia più bello o più evocativo. Il titolo originale è Spook Country che, a mio avviso, non significa Un Paese di Spettri, come molti traducono. Spook vuol dire, sì, fantasma in inglese, ma in americano ha assunto il significato di spia, così la traduzione è Un Paese di Spie. L’essenza di un libro in cui tutti spiano e sono spiati. Molto più bello.

Ah Pook Is Here

Ah PuchInfine parliamo anche di William S. Burroughs (1914 – 1997), uno degli scrittori che amo di più.

Ah Pook Is Here (trad. È arrivato Ah Pook, SugarCo) era stato progettato in origine (1970) come un libro illustrato sul modello dei superstiti codici maya. L’artista inglese Malcolm Mc Neill doveva disegnare le illustrazioni e Burroughs il testo.

Cominciò ad essere pubblicato con il titolo di The Unspeakable Mr. Hart sotto forma di fumetto sulla rivista Cyclops. Quando Cyclops chiuse, Burroughs e Mc Neill continuarono a sviluppare il progetto che divenne un libro fatto di testo e immagini di circa 120 pagine, alcune delle quali erano solo testo, altre solo immagini e altre ancora miste. In questa versione venne pubblicato nel 1971 da Straight Arrow Books in San Francisco.

In seguito (1973-1975), Mc Neill raggiunse Burroughs in America  per continuare a lavorare al libro, ma nel frattempo Straight Arrow Books chiuse e i due non riuscirono a trovare un editore per quest’opera dal formato così strano di cui alla fine, nel 1978, venne pubblicato il solo testo. La versione italiana è interessante perché contiene anche varie pagine di illustrazioni, sia pure in formato ridotto.

Ah Pook del titolo è una translitterazione di Ah Puch, dio della morte nella cultura Maya e re di Metnal, il nono livello del mondo sotterraneo Xibalba, luogo di oscurità e freddo. L’intero testo è sulla morte e come altri testi di Burroughs, è incredibilmente ricco di idee e suggestioni, tanto da ispirare altri artisti.

Qui, infatti, vediamo un breve film di animazione diretto da Philip Hunt nel 1994 con l’ormai famosissima voce di Burroughs e la musica tratta dall’album “William S. Burroughs – Dead City Radio“, Track 4 – “Ah Pook The Destroyer / Brion Gysin’s All-Purpose Bedtime Story“, composta ed eseguita da John Cale.
Il film rappresenta bene parte dell’universo immaginifico e paranoico di Burroughs ed è stato premiato al Dresden Film Festival 1995 e all’Ottawa International Animation Festival 1994.