Il mondo senza di noi

Vedo che non sono l’unico ad avere di queste curiosità.

È uscito in paperback il libro “The World without us” del divulgatore scientifico Alan Weisman. Le sue profezie sono decisamente pessimistiche:

With no one left to run the pumps, New York’s subway tunnels would fill with water in two days. Within 20 years, Lexington Avenue would be a river. Fire- and wind-ravaged skyscrapers would eventually fall like giant trees. Within weeks of our disappearance, the world’s 441 nuclear plants would melt down into radioactive blobs, while our petrochemical plants, ‘ticking time bombs’ even on a normal day, would become flaming geysers spewing toxins for decades to come… After about 100,000 years, carbon dioxide would return to prehuman levels. Domesticated species from cattle to carrots would revert back to their wild ancestors. And on every dehabitated continent, forests and grasslands would reclaim our farms and parking lots as animals began a slow parade back to Eden.

Little Brother

Se qualcuno di voi legge l’inglese può scaricare gratuitamente Little Brother di Cory Doctorow, un racconto sul controllo e su un possibile stato prossimo venturo rilasciato dall’autore in Creative Commons.

La trama:

Marcus, a.k.a “w1n5t0n,” is only seventeen years old, but he figures he already knows how the system works-and how to work the system. Smart, fast, and wise to the ways of the networked world, he has no trouble outwitting his high school’s intrusive but clumsy surveillance systems.

But his whole world changes when he and his friends find themselves caught in the aftermath of a major terrorist attack on San Francisco. In the wrong place at the wrong time, Marcus and his crew are apprehended by the Department of Homeland Security and whisked away to a secret prison where they’re mercilessly interrogated for days.

When the DHS finally releases them, Marcus discovers that his city has become a police state where every citizen is treated like a potential terrorist. He knows that no one will believe his story, which leaves him only one option: to take down the DHS himself.

Finale alternativo

Grazie a Lemi per aver segnalato questo finale alternativo del film Io sono leggenda, che, peraltro, sembra essere quello vero, cioè quello che era nelle intenzioni originali del regista prima che la produzione lo facesse a pezzi. Così il film diventa più sopportabile. Ciò nonostante resta sempre chilometri lontano dal libro di Richard Matheson, ma probabilmente non è corretto confrontare libri e relativi film.

È interessante, comunque, osservare alcune differenze fra libro e film, magari secondarie, ma certamente significative. Per esempio

  • nel libro, Neville (il protagonista) è un fumatore e un alcoolizzato; nel film è politically-correct;
  • nel libro Neville ascolta Beethoven; nel film Bob Marley;
  • il libro non offre speranze alla razza umana: Neville è veramente l’ultimo essere umano.

Ma la differenza maggiore sta proprio nel finale. Nel libro c’è uno splendido colpo di teatro: il romanzo si chiude con un papà “mostro” che sta raccontando al figlioletto “mostriciattolo” la storia di Neville, l’ultimo essere umano che ha ucciso tanti di loro e che per questo è stato catturato e giustiziato. Così i “mostri”, che nel libro sono veri e propri vampiri e non generici simil-zombie, si rivelano capaci di provare sentimenti e costruire una struttura sociale.

Proprio questa è la spiegazione del titolo: Neville diventa una leggenda per i “mostri”, mentre nel film lo è per gli umani superstiti che ricostruiranno la nostra civiltà.

Questo finale, invece, si avvicina un po’ più alle tesi del libro, riconoscendo ai mostri una sia pur minima capacità di provare dei sentimenti.

Infine, vi segnalo un altro film la cui trama è molto simile a Io sono leggenda, ma in cui il tema è affrontato con maggior realismo. Si intitola 28 giorni dopo. (ma il trailer non gli rende giustizia e come al solito, è migliore il libro.

La Sentinella

«Qui giace Arthur Clarke. Non è mai stato un grande ma non ha mai cessato di crescere»

Con una ottantina di libri e decine di milioni di copie vendute, Arthur C. Clarke era probabilmente lo scrittore di fantascienza più famoso dopo Isaac Asimov e uno dei primi che noi, ragazzini degli anni ’60, incontravamo iniziando a leggere fantascienza.

Ricordo che, a parte Jules Verne, che avevo letto più o meno a 8/9 anni e un libro per ragazzi di cui non ricordo né l’autore né il titolo, il primo vero romanzo di fantascienza in cui mi imbattei, a 11/12 anni, fu “Tutto bene a Carson Planet” re-titolazione (a quei tempi si usava) di “The war against the Rull” di A. Van Vogt. Subito dopo arrivò “Cronache Marziane” di Bradbury e poi qualche Urania di Asimov e Arthur Clarke, fra cui la famosa Sentinella che intanto era diventata parte di 2001 Odissea nello Spazio.

In effetti, lo stesso Clarke nel 1983 affermava:

Continuo a notare con fastidio che si cita erroneamente La Sentinella come “il racconto su cui si basa 2001”. In realtà il racconto assomiglia al film come una ghianda potrebbe assomigliare a una quercia adulta. (Molto meno, anzi, perché nel film compaiono idee di vari altri racconti). Anche gli elementi che Stanley Kubrick ed io abbiamo effettivamente utilizzati sono stati alquanto modificati. Così la “struttura scintillante, di forma quasi piramidale… incastonata nella roccia come una gigantesca gemma dalle mille sfaccettature” divenne – dopo parecchie modifiche – il famoso monolito nero…
[A. Clarke, in La Sentinella, Interno Giallo, Milano, 1990]

La cosa curiosa, riportata dallo stesso Clarke nel commento al suo racconto che, ricordiamo, è stato scritto nel Natale del 1948, è che anche La Sentinella ha un antenato pubblicato ben 30 anni prima. Si tratta di “The Red One” di Jack London, in cui si parla della “Figlia delle Stelle”, un’enorme sfera rimasta a giacere per intere epoche nella giungla di Guadalcanal.
Evidentemente l’enigma ancora irrisolto “siamo soli nell’universo?” è troppo potente e citando ancora una volta Clarke

Esistono due possibilità: o siamo soli nell’universo non lo siamo. Entrambe sono terrificanti.

Però la frase per cui io lo ricorderò sempre è quella passata alla storia come la sua terza legge:

Una tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia.

È sempre stato così Arthur Clarke: rigorosamente scientifico, capace di passare alla storia come l’ideatore del concetto di satellite geostazionario, tanto che quando John Robinson Pierce, ai laboratori Bell, progettò il Telstar I – il primo satellite geostazionario per telecomunicazioni – il brevetto gli fu negato in quanto l’idea era stata già descritta proprio da Clarke.
Scientifico, ma nello stesso tempo ricco di poesia e capace di far sognare, come con le farfalle delle Fontane del Paradiso o con quell’immensa scatola, piena di segreti, che passa e se ne va, senza degnarci di uno sguardo, nel primo libro di Rama.

Comunque è ben triste rendersi conto che quelli che hanno significato qualcosa per me, cioè quelli che in qualche modo hanno segnato la mia gioventù e mi hanno fatto sognare, uno dopo l’altro si stanno spegnendo. È vero che dopo di loro ce ne sono stati altri, ma è anche vero che, dopo una certa età, non stato più disposto a farmi segnare più di tanto.

Alla fine, negli ultimi 20 anni, c’è una persona sola che è riuscita a farmi sognare, ma non è così importante per il resto del mondo…

La voce di un poeta

La voce di un grande poeta è maledettamente emozionante.

Dylan Thomas legge la sua And death shall have no dominion, pubblicata nel 1936 in Twenty-five poems.

And death shall have no dominion, read by Dylan Thomas itself.

Dylan Thomas – And death shall have no dominion (1936)

And death shall have no dominion.
Dead men naked they shall be one
With the man in the wind and the west moon;
When their bones are picked clean and the clean bones gone,
They shall have stars at elbow and foot;
Though they go mad they shall be sane,
Though they sink through the sea they shall rise again;
Though lovers be lost love shall not;
And death shall have no dominion.
And death shall have no dominion.
Under the windings of the sea
They lying long shall not die windily;
Twisting on racks when sinews give way,
Strapped to a wheel, yet they shall not break;
Faith in their hands shall snap in two,
And the unicorn evils run them through;
Split all ends up they shan’t crack;
And death shall have no dominion.

And death shall have no dominion.
No more may gulls cry at their ears
Or waves break loud on the seashores;
Where blew a flower may a flower no more
Lift its head to the blows of the rain;
Though they be mad and dead as nails,
Heads of the characters hammer through daisies;
Break in the sun till the sun breaks down,
And death shall have no dominion.

E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché impazziscano saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;
E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
Sotto i meandri del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
Sui cavalletti contorcendosi mentre i tendini cedono,
Cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno;
Si spaccherà la fede in quelle mani
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Scheggiati da ogni lato non si schianteranno;
E la morte non avrà più dominio.

E la morte non avrà più dominio.
Più non potranno i gabbiani gridare ai loro orecchi,
Le onde rompersi urlanti sulle rive del mare;
Dove un fiore spuntò non potrà un fiore
Mai più sfidare i colpi della pioggia;
Ma benché pazzi e morti stecchiti,
Le teste di quei tali martelleranno dalle margherite;
Irromperanno al sole fino a che il sole precipiterà;
E la morte non avrà più dominio.

Addio Norman Mailer

armies of night Il fine ultimo dell’arte è intensificare e se necessario, esasperare la coscienza morale della gente.
[Western Review No. 23 (Winter 1959)]

Con la fierezza dell’artista, devi sempre suonare la piccola tromba della tua sfida contro le mura di ogni potere che esiste.
[The Eternal Adam and the New World Garden (1968)]

In un matrimonio ci sono quattro fasi. Dapprima c’è la festa, poi il matrimonio, poi i figli e infine la quarta fase senza la quale non puoi dire di conoscere una donna: il divorzio.
[News summaries (31 December 1969)]

L’orrore del XX° secolo è la dimensione di ogni nuovo evento e la pochezza della sua risonanza.
[A Fire on the Moon (1970)]

Ho sentito qualcosa muoversi verso l’omicidio dentro di me. Mi sono sentito come un fuorilegge, un fuorilegge psichico, e mi piaceva…
[Dichiarazione dopo il rifiuto di pubblicare The Deer Park a causa di sei righe che non ha voluto rimuovere (1985)]

Cell

CellNella bolgia dei libri d’autunno, la mia bolgia, perché l’autunno è un momento in cui compro molti libri, soltanto adesso sono riuscito a leggere questo Cell di Stephen King.
King ha immaginazione. E non costringendosi entro le mura della realtà, la sua immaginazione può creare paesaggi affascinanti e/o terrorizzanti.

In Cell, un segnale trasmesso simultaneamente su tutta la rete dei cellulari spazza via in un istante qualsiasi substrato culturale dal cervello di chi fa una chiamata, riducendolo agli istinti primordiali: uccidere e sopravvivere. Una colossale formattazione gobale.
Naturalmente, data la diffusione di questi malefici oggetti, l’umanità rimasta tale è in minoranza e costretta a nascondersi e a spostarsi di notte per sfuggire all’aggressività dei “phoners”, i quali, però, non rimangono a lungo a questo livello neanderthaliano. Si scopre in breve che quello che hanno subito è stato un reboot, una ripartenza con un programma nuovo. Comunicano per via telepatica, si riuniscono in stormi, come gli uccelli che si muovono in gruppi sincronizzati, apparentemente senza comunicazione alcuna.

In questo caos, si muove il protagonista, come al solito, in King, un alter ego dell’autore (stavolta non è un romanziere del Maine, ma un fumettista del Maine) il cui scopo è attraversare il paese per raggiungere e sperabilmente salvare il figlio, un ragazzino di 10 anni, probabilmente ormai un phoner integrale, mentre quel che resta dell’umanità normale viene indirizzata verso una zona in cui non c’è campo.
Ma il cuore del romanzo non è la resistenza al cambiamento e nemmeno la ricerca della salvezza. Sono loro, i phoners. Una nuova umanità creata per via tecnologica, una nuova razza.

Un romanzo simpatico, facile e a tratti affascinante, di cui si possono dare innumerevoli interpretazioni, dall’apocalittico all’integrato.
Ma anche se non viaggia sulla rete dei cellulari, non possiamo fare a meno di notare che un segnale capace di riformattare il cervello esiste già e si chiama televisione.

Alla nuova luna

Una poesia di Quasimodo (da “La terra impareggiabile”, 1958) scritta in occasione del lancio dello Sputnik-I, prima Luna artificiale.

Alla nuova Luna

In principio Dio creò il cielo
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i luminari in cielo,
e al settimo giorno si riposò.
Dopo miliardi di anni l’uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d’una notte d’ottobre,
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione del mondo. Amen.

Myanmar

Un pensiero per la Birmania.

Uno dei brani più famosi della musica classica birmana. Anticamente veniva eseguito a palazzo reale e nelle occasioni in cui il re si rivolgeva al popolo.
E mentre ascoltate leggetevi

Rudyard Kipling, Mandalay

che avrà anche degli accenti un po’ da romantico colonialismo d’altri tempi e a tratti è buffa, però ha rappresentato per molto tempo la Birmania nell’immaginario occidentale…

By the old Moulmein Pagoda, lookin’ eastward to the sea,
There’s a Burma girl a-settin’, and I know she thinks o’ me;
For the wind is in the palm-trees, and the temple-bells they say:
“Come you back, you British soldier; come you back to Mandalay!”
Come you back to Mandalay,
Where the old Flotilla lay:
Can’t you ‘ear their paddles chunkin’ from Rangoon to Mandalay?
On the road to Mandalay,
Where the flyin’-fishes play,
An’ the dawn comes up like thunder outer China ‘crost the Bay!

‘Er petticoat was yaller an’ ‘er little cap was green,
An’ ‘er name was Supi-yaw-lat — jes’ the same as Theebaw’s Queen,
An’ I seed her first a-smokin’ of a whackin’ white cheroot,
An’ a-wastin’ Christian kisses on an ‘eathen idol’s foot:
Bloomin’ idol made o’mud —
Wot they called the Great Gawd Budd —
Plucky lot she cared for idols when I kissed ‘er where she stud!
On the road to Mandalay . . .

When the mist was on the rice-fields an’ the sun was droppin’ slow,
She’d git ‘er little banjo an’ she’d sing “Kulla-lo-lo!”
With ‘er arm upon my shoulder an’ ‘er cheek agin’ my cheek
We useter watch the steamers an’ the hathis pilin’ teak.
Elephints a-pilin’ teak
In the sludgy, squdgy creek,
Where the silence ‘ung that ‘eavy you was ‘arf afraid to speak!
On the road to Mandalay . . .

But that’s all shove be’ind me — long ago an’ fur away,
An’ there ain’t no ‘busses runnin’ from the Bank to Mandalay;
An’ I’m learnin’ ‘ere in London what the ten-year soldier tells:
“If you’ve ‘eard the East a-callin’, you won’t never ‘eed naught else.”
No! you won’t ‘eed nothin’ else
But them spicy garlic smells,
An’ the sunshine an’ the palm-trees an’ the tinkly temple-bells;
On the road to Mandalay . . .

I am sick o’ wastin’ leather on these gritty pavin’-stones,
An’ the blasted Henglish drizzle wakes the fever in my bones;
Tho’ I walks with fifty ‘ousemaids outer Chelsea to the Strand,
An’ they talks a lot o’ lovin’, but wot do they understand?
Beefy face an’ grubby ‘and —
Law! wot do they understand?
I’ve a neater, sweeter maiden in a cleaner, greener land!
On the road to Mandalay . . .

Ship me somewheres east of Suez, where the best is like the worst,
Where there aren’t no Ten Commandments an’ a man can raise a thirst;
For the temple-bells are callin’, an’ it’s there that I would be —
By the old Moulmein Pagoda, looking lazy at the sea;
On the road to Mandalay,
Where the old Flotilla lay,
With our sick beneath the awnings when we went to Mandalay!
On the road to Mandalay,
Where the flyin’-fishes play,
An’ the dawn comes up like thunder outer China ‘crost the Bay!

Il soccombente

cover
Sebbene legga molto, sono sempre stato restio a scrivere di libri perché c’è già tanta gente che lo fa, probabilmente meglio di me. Ogni tanto, però, ci pensavo. Adesso ci provo con un libro che affonda le sue radici nella musica, o almeno in un certo modo di vedere la professione di esecutore, anche se in realtà di musica si parla ben poco.
Ho da poco terminato Il soccombente di Thomas Bernhard, scritto nel 1983 e pubblicato da Adelphi.

Un libro profondo e nello stesso tempo uno dei più deprimenti che abbia mai letto.
La trama ruota intorno ad un semplice, ma cruciale evento: a un corso tenuto da Horowitz a Salisburgo nel 1953 si incontrano e fanno amicizia tre giovani pianisti. Due sono brillanti e promettenti. Il terzo è Glenn Gould: qualcuno che non brilla e non promette, perché è.
Da quel momento la vita dei primi due rotola inesorabilmente verso la tragedia.
I due si trovano a frequentare come loro pari un genio che suona lo stesso strumento in un modo per loro inarrivabile. La grandezza di Gould è troppo per essere sopportabile e le loro menti, che sembravano essere quelle di due giovani musicisti avviati a una brillante carriera, non reggono il confronto con colui che è, forse, il più importante virtuoso del pianoforte del secolo scorso.
Come artisti, essi miravano all’eccelso, con in testa quell’ideale romantico di tracciare i confini della perfezione che è il sogno impossibile di molti giovani esecutori e che, per loro, prima di quell’incontro, sembrava quasi raggiungibile.
Invece quell’esperienza rivela la loro fragilità, l’incapacità di accettare i propri limiti che si manifesta dapprima con l’abbandono dell’attività musicale e il rifiuto assoluto di avvicinarsi ancora allo strumento e infine con l’atto estremo del più debole dei due – il soccombente, appunto – che non riesce a concepire il sopravvivere a Glenn Gould, sorpreso da un ictus al pianoforte mentre suonava, forse, le sue Variazioni Goldberg.

L’intera storia è raccontata dall’unico superstite in un modo non lineare, per cui la trama non è l’elemento portante (ed è per questo che mi sono permesso di raccontarla). La prosa non facile ma profonda di Bernhard, in un flusso da subito ininterrotto, descrive invece la tragedia del non riuscire ad essere, di fronte a qualcuno che, invece, è. E, nota bene, forse non è così per suo merito (nonostante l’indiscutibile impegno di Gould che passava al piano l’intera giornata e parte della notte, dormendo pochissimo), quanto piuttosto per grazia ricevuta.
Vi si trovano inoltre le tematiche care a Bernhard: l’autodistruzione e l’invettiva contro Salisburgo.
Personalmente, nonostante non fosse nelle intenzioni dell’autore, ci vedo anche una dimostrazione dei nefasti effetti dell’ideale romantico in musica. I due giovani, infatti, sarebbero sicuramente diventati degli ottimi pianisti se solo fossero stati in grado di abbandonare quella tensione verso l’assoluto, responsabile ultima della loro autodistruzione.