Stockhausen: Stimmung

StimmungIl rivolgersi a oriente tipico della seconda metà degli anni ’60 coinvolge anche Stockhausen che, nel fatidico 1968, abbraccia con decisione le filosofie orientali. Passando attraverso Stimmung, giungerà gradualmente alla definizione di una musica intuitiva, praticamente priva di partitura

Stimmung, per 6 voci (2 soprani., contralto, 2 tenori, basso; in altre versioni un tenore è sostituito da un baritono), è considerata come l’opera pop di Stockhausen, un po’ a causa della sonorità marcatamente modale, un po’ per l’aspetto (ingenuamente) mistico dell’opera, sottolineato dalle invocazioni alle divinità di varie culture.
Il carattere meditativo dell’opera è evidenziato dal fatto che il materiale base, anzi, l’unico materiale, è costituito da un accordo di 6 note ricavato dai primi armonici di una fondamentale (figura a sin.).
accordoQuesto non significa che tutta l’opera, che dura ben 70 minuti, sia costituita da un unico accordo, ma quasi. Un accordo di 6 note implica una gamma di possibilità che va dalle singole note fino ad accordi composti di 2, 3, 4, 5 e finalmente 6 note. Inoltre, ogni nota può essere potenzialmente eseguita da più di un cantante (tutti dovrebbero poter cantare il RE).
Stockhausen quantifica in 21 le possibili combinazioni di cantanti su una sola nota, ovvero il SIb può essere cantato solo dal basso (1), il FA da basso e 2 tenori (3), l’altro SIb da basso, 2 tenori e contralto (4), il RE da tutti (6), il LAb da 2 tenori, contralto e 2 soprani (5), il DO solo da 2 soprani (2), totale 21. Notare che il DO potrebbe essere cantato anche dal contralto, ma questa possibilità viene scartata perché così si ottiene il totale dei numeri da 1 a 6 nella serie 1-3-4-6-5-2 e notare anche che 1+2+3+4+5+6 = 21.
Ora esaminiamo il numero dei possibili accordi da 2 a 6 note: con 2 note abbiamo 15 combinazioni; con 3, 20; con 4, ancora 15; con 5, 6; con 6, 1. Totale 55. Stockhausen ne seleziona 30 che, aggiunte alle precedenti 21, fanno 51: queste sono le sezioni (senza soluzione di continuità) di cui è composta l’opera.
La regola è che in ogni sezione un cantante agisce come guida e propone una struttura ritmica enunciando uno dei nomi magici (divinità di varie culture), mentre gli altri si porteranno, molto gradualmente, a identificarsi con la voce guida mantenendo, però, la propria nota. L’articolazione ritmica è ottenuta mediante una modulazione del suono effettuata con le vocali, a evidenziare gli armonici. Il tessuto è, così, molto più complesso di quanto sembra.
In questa figura, disegnata dal compositore, si vedono, per ogni sezione, i cantanti attivi in quella sezione con la voce guida in neretto (sopra) e le note loro assegnate (sotto). Un circoletto identifica la nota assegnata alla voce guida. [NB: in una prima stesura, quella di questi appunti, l’accordo venne scritto sul SOL].
Karlheinz Stockhausen (1928-2007): Stimmung, per 6 voci (1968 = prima versione).
Collegium vocale Köln diretto da Karlheinz Stockhausen

Vexations

SatieQuesto ironico schizzo per un busto di Satie, firmato da lui stesso, reca la scritta “Sono venuto al mondo molto giovane in un tempo molto vecchio”.

Vexations è un semplice tema con due variazioni da ripetere 840 volte, per una durata che può andare dalle 12 alle 28 ore, secondo il tempo scelto (l’unica indicazione metronomica è “Très lent”).

Ovviamente questo brano, composto, forse, nel 1893, restò a lungo ineseguito fino al 1963, quando John Cage ne organizzò una pubblica esecuzione con un pool di pianisti: lo stesso Cage, David Tudor, Christian Wolff, Philip Corner, Viola Farber, Robert Wood, MacRae Cook, John Cale, David Del Tredici, James Tenney, Howard Klein (il critico del New York Times che era venuto per recensire e venne messo al lavoro) e Joshua Rifkin. L’esecuzione iniziò alle ore 18.00 e terminò alle 12.40 del giorno successivo, per una durata complessiva di circa 18 ore e 40 minuti.

Da quella volta, ebbero luogo varie altre esecuzioni (qualcuna anche in Italia). Nel giugno di quest’anno, a New York, è stata organizzata una Pianoless Vexations, una performance di 8 ore con elaborazioni, spesso irriconoscibili, di questa breve partitura, eseguita, però, senza pianoforte. Se ne possono ascoltare varie parti in questa pagina di UbuWeb.

Qui potete ascoltarne una versione pianistica per circa12 ore.

Leo Ornstein

Leo OrnsteinNato in Ucraina (allora Russia) nel 1893 e morto negli USA nel 2002, alla rispettabile età di 108 anni, Leo Ornstein può essere considerato uno dei principali compositori sperimentali del primo ‘900.
Emigrato negli USA con la famiglia nel 1907, fra il 1913 e il 1920, quando si ritirò dalla scena concertistica, fu una delle personalità di spicco della scena musicale americana.

Come compositore, ha scritto vari lavori, fra cui alcuni decisamente innovativi per l’epoca, soprattutto per pianoforte.
Qui potete ascoltare il suo profetico “Suicide in an Airplane” per piano solo composto fra il 1915 e il 1918 (esecutore Daniele Lombardi).Potete anche vedere la partitura e apprezzarne la scrittura innovativa.

Il sito a lui dedicato dal figlio raccoglie molto materiale anche audio (con un po’ di rumore di fondo, prob. le registrazioni sono vecchie) e varie partiture.
Nella foto, Ornstein nel 1918 (25 anni) all’epoca di Suicide in an Airplane.

Takahashi, Yûji

Yûji
Il pianista e compositore giapponese Yûji Takahashi pubblica parecchie partiture delle proprie composizioni sul suo sito.
Nella maggior parte dei casi si tratta di opere aperte che richiedono un intervento decisionale da parte dell’interprete.

Le ragioni del cambiamento

La domanda/commento di nicola al post sul momento del cambiamento pone, in breve, il seguente problema: perché, a quel punto della storia, la musica dei morti cominciò a contare di più di quella dei vivi?
Non abbiamo una risposta definitiva, comunque, sempre secondo Sandow, all’inizio del 19mo secolo cominciò a formarsi l’idea che vedeva nell’epoca classica un periodo d’oro, di perfezione assoluta.
Così cominciò anche ad emergere l’idea di musica classica; l’idea, cioè, che la musica di alcuni compositori del passato avesse un valore trascendente, che non fosse mero entertainment e quindi che dovesse essere ascoltata con grande attenzione e che dovesse essere eseguita esattamente com’era stata scritta.
E naturalmente anche i compositori del’800 cominciarono ad aspirare a scrivere musica del genere. Una musica che esprimesse sentimenti superiori, non un semplice divertimento. Una musica che li rendesse immortali, anche. E per il romanticismo, così pieno di nostalgia, di grandi ideali e di spinta verso l’assoluto, una concezione del genere era perfetta.
Il sentimento romantico di reverenza per il passato perduto è ben rappresentato da questo aneddoto raccontato da Berlioz e riportato da Peter Gay nel suo libro The Naked Heart.
Berlioz racconta che Listz, durante un concerto, aveva suonato il Chiaro di Luna di Beethoven rovinandolo con una quantità di trilli, tremoli e abbellimenti che strappavano applausi al pubblico.
Più tardi, però, senza il pubblico e alla presenza degli amici, aveva fatto spegnere tutte le luci, suonando al buio l’Adagio dalla stessa sonata e qui Berlioz dice:

…dopo un attimo di pausa, iniziò nella sua sublime semplicità la nobile elegia che prima aveva così duramente sfigurato; ma stavolta non una nota, non un accento erano diversi da come li aveva pensati il compositore. Quello che stavamo ascoltando era la fusione dello spirito di Beethoven con il grande virtuoso. Tutti noi tremavamo in silenzio e dopo l’estinguersi dell’ultimo accordo, nessuno osava parlare… eravamo in lacrime.

Qui c’è anche il primo indizio di scissione: il divertimento per il pubblico, la profondità del sentire per un ristretto cenacolo di veggenti.

Un altro aneddoto.
Jan Swafford, nella sua biografia di Brahms, racconta che nell’ottobre del 1895, Brahms si recò a Zurigo per dirigere il suo Triumphlied all’inaugurazione della nuova Tonhalle. Entrando nella sala, guardò sul soffitto i ritratti dei grandi compositori e vide Bach, Mozart, Beethoven… e sè stesso.
Sandow fa notare come questa fosse un’esperienza del tutto nuova. Bach, Mozart e Beethoven non avrebbero mai potuto trovarsi in una situazione del genere. E ricorda anche che, già nel 1840, l’insegnante di Brahms, Marxsen, affermava che le forme musicali create da quei compositori (più Haydn) erano “eternamente incorruttibili”.

Qualcosa era cambiato. Per sempre.

Gli strumenti di Harry Partch

Harry Partch
Sono praticamente sicuro che nessuno di voi ha mai sentito, in concerto, musiche di Harry Partch.
Eppure Harry Partch (1901-1974), compositore americano, è uno dei più innovativi, iconoclasti e individualisti musicisti di tutti i tempi. Per far capire la cosa anche ai cultori del pop, la sua posizione nella musica classica è, in un certo senso, simile a quella di Frank Zappa nel pop. Gli aggettivi utilizzati per definirli sono gli stessi e anche la carica ironica.
A tratti geniale, ma isolato perché la sua musica è impossibile da eseguire con una orchestra tradizionale. Partch, infatti, non utilizza il sistema temperato, ma la scala naturale, strettamente basata sulla serie degli armonici (mentre il sistema temperato fa una serie di aggiustamenti). Per scrivere con questo sistema, Partch, oltre ad utilizzare spesso una notazione non tradizionale, ha costruito da solo i propri strumenti. Ne ha realizzato decine, tali da organizzare una intera orchestra. Le sue creazioni, originali e/o ricostruite, comprendono strumenti a percussione, a corde e vari tipi di organi a canne o ad ancia. Oggi formano la Harry Partch Instrument Collection e vengono utilizzate per le incisioni e per i concerti.
Così, nei suoi pezzi non è raro vedere un ensemble come questo:

Instrumental ensemble: tenor-baritone, soprano, bass, adapted guitar, 2 chromelodeons, 2 kithars, surrogate kithara, 5 harmonic canons, bloboy, koto, crychord, diamond marimba, quadrangularis reversum, bass marimba, marimba eroica, boo, eucal blossom, gourd tree, cone gongs, cloud chamber bowls, spoils of war, zymo-xyl, mazda marimba, ugumbo, waving drums, Bolivian double flute, mbira, ektara, rotating drum, belly drums, gourd drum, 6 bamboo claves, 4 eucalyptus claves & rhythm boat

E proprio questo ensemble strumentale è relativo alla sua opera in due atti “Delusion of the Fury – A Ritual of Dream and Delusion” (1965-66), che potete ascoltare cliccando sui “Related Posts” qui sotto.

Anche la sua vita non è stata molto convenzionale. Musicista precoce (suonava clarinetto, harmonium, viola, piano, chitarra già da bambino e componeva prima dei 20 anni vincendo borse di studio), attraversò un periodo molto duro durante la grande depressione, riducendosi a vivere come un hobo (musicista vagabondo, senza fissa dimora), viaggiando a sbafo sui treni e sopravvivendo con lavori casuali in luoghi diversi.
In tutto questo periodo, durato 10 anni, continuò a scrivere le sue esperienze su un giornale chiamato Bitter Music (musica amara), spesso sotto forma di frammenti di conversazioni udite per caso, notate su pentagramma in base all’altezza delle varie voci.

Esempi dell’ Harry Partch Istrumentarium

Il momento del cambiamento

Greg Sandow (storico dell’arte) pubblica questi dati che individuano con una certa precisione il momento in cui si è sviluppato il concetto di musica classica:

Fra il 1815 e il 1825, nei concerti promossi da una delle principali organizzazioni musicali di Vienna, il 77% della musica era di compositori viventi e solo il 18% di compositori morti (il restante 5% era di compositori a noi sconosciuti, di cui ignoriamo la biografia).
Nel 1849 la percentuale era quasi esattamente invertita.

Oltre il loro tempo: Farben

Ogni tanto, nella storia della musica, saltano fuori delle composizioni che vanno oltre il loro tempo. E questo non nel senso che sono delle grandi opere, punti di partenza per le generazioni future, ma proprio perché, per qualche strana e indefinibile ragione, il loro linguaggio travalica la contemporaneità dando vita a qualcosa di difficilmente databile. Qualcosa che, agli occhi di qualcuno che pure conosca bene la storia della musica occidentale, appare come un oggetto difficilmente inseribile in un periodo storico, un pezzo al quale viene assegnata una data di molto posteriore alla sua nascita, un brano quasi sfuggito di mano allo stesso compositore perché nemmeno lui, probabilmente, è in grado di comprendere completamente ciò che ha fatto.
Proprio per questo, di solito si tratta di composizioni che non sono così apprezzate al momento della loro presentazione, perché hanno qualcosa di inusuale o comunque suonano “strane”. Spesso sono difficili da capire perché il loro linguaggio non è ancora completamente codificato, ma il perché e il come, in quel momento sono inspiegabili. Soltanto la storia può dirlo.

È il caso di Farben di Arnold Schoenberg. Il terzo dei 5 pezzi per orchestra op. 16, composti nel 1909.
In questi pezzi l’ambientazione espressionista e il linguaggio atonale che la sostiene raggiungono i livelli più alti.
Melodia, armonia e perfino il ritmo (l’elemento più criticato e meno innovativo in Schoenberg) sono sentiti in un unico spazio polifonico nel quale il totale cromatico viene utilizzato pienamente in modo libero, innovativo e indipendente.
È il periodo atonale di questa seconda scuola di Vienna, che va dal 1909 al 1923 (anno di definizione della teoria dodecafonica). A mio avviso si tratta di uno dei periodi più fecondi per Schoenberg. La libertà di sperimentare e la ricchezza inventiva che si respirano nelle composizioni di quest’epoca saranno difficilmente eguagliate, anche negli anni seguenti.
“Farben”, posto dall’autore come sottotitolo a questo brano, significa “colori”, ma in tedesco, questa parola, unita a Klang (suono), assume il significato di timbro musicale (Klangfarben) ed è proprio il timbro l’elemento portante di questo pezzo in cui Schoenberg fa un passo decisivo verso quella Klangfarbenmelodie (melodia di timbri) che è sempre stato uno dei suoi sogni.
La leggenda, infatti, narra di Farben come nato da una discussione fra Schoenberg e Malher (suo estimatore e protettore), sull’idea di creare un brano basato non su una successione di altezze (note), ma su una successione di timbri.
Qui Schoenberg ci prova e in parte ci riesce.
Farben inizia con un accordo di cinque note (do, sol#, si, mi, la) lungamente tenuto che si alterna fra 2 gruppi strumentali: 2 flauti, clarinetto, fagotto, viola, l’uno e corno inglese, tromba (sordina) fagotto corno (sordina), viola, l’altro, con il contrabbasso a fungere da legame.

Però è quasi impossibile rinunciare all’articolazione delle altezze nella nostra musica. Farlo, significa approdare a qualcosa di radicalmente diverso ed era decisamente impossibile farlo nel 1909.
Così dentro a Farben c’è anche un canone a 5 voci quasi impercettibile perché le melodie passano da uno strumento all’altro e la sua identificazione è resa anche più complessa da gruppetti di suono puntuali (quasi polvere) di densità crescente.
Sembra che Schoenberg abbia voluto utilizzare il canone per dare un’unità formale all’insieme, nascondendolo, però, alla percezione conscia, un po’ come certe strutture bachiane che sostengono alcuni brani dell’Arte della Fuga o delle Variazioni Goldberg, risultando visibili solo a un esame della partitura. Qui la percezione è di una apparente staticità iniziale che si frammenta, via via, in una molteplicità di voci fino al ricongiungimentol finale in un cangiante tessuto sonoro.
Grazie a questa impostazione sperimentale, Farben assume all’ascolto una forma assolutamente inusuale per quei tempi, ma proiettata verso un futuro possibile. È un brano breve: soltanto 44 battute che, inserite nel bel mezzo del furore espressionista dell’op. 16, suonano come un intermezzo meditativo. Una delle immagini citate a proposito di questo pezzo da Schoenberg pittore, parla dei riflessi di luce sulle acque di un lago. Però, isolato, potrebbe benissimo apparire come un pezzo pre-ligeti degli anni ’60 o come qualcosa dello Xenakis di fine ’50, ma anche se qualcuno lo scrivesse oggi, non lo riterrei un pezzo datato.

Ascolto: Farben

Qui invece avete un tentativo di analisi in video (meglio andare su youtube per poter ingrandire a tutto schermo)

Abominio!

Se riuscite a non svenire, ecco una versione dub dell’intero Dark Side of the Moon ovviamente reintitolata dub side of the moon.
Eccovi The Great Dub (Gig) in the Sky (resistete fino alla parte della cantante, ne vale la pena) e un Time con tanto di voce dai sussulti reggae.

Pubblicato in Pop

Compositori e francobolli

Ives stamp

Bello il francobollo di Ives!
Dal 1847 a oggi soltanto poco più di 800 persone hanno visto il proprio viso o il proprio nome su un francobollo delle poste usa (su un totale di 4000 francobolli).
Dire “hanno visto”, però è improprio. La prima condizione per apparire su un francobollo, infatti, è essere morti.
Non è strettamente necessario, invece, essere americani, ma bisogna essere del calibro di Dante, Gandhi o Gropius per entrarci.
I compositori rappresentati sono per la maggior parte sconosciuti da noi, per cui ho messo un link a wikipedia sul nome, così potrete farvi una cultura. L’unico straniero è Stravinsky.
Ecco la lista (l’anno è quello del francobollo). Oltre a quelli qui riportati ci sono vari jazzisti e qualche songwriter.