Steve Jobs by Walter Isaacson

Steve_Jobs_by_Walter_IsaacsonSe a qualcuno piacciono la tecnologia e le biografie, quella di Steve Jobs scritta da Walter Isaacson è un’ottima lettura. L’ho trovata in un supermarket e mi sono deciso a comprarla perché, leggendo le note di copertina, mi è sembrata abbastanza obiettiva, cioè anche critica e non solo osannante (non è che non ami Jobs; quello che non mi piace è l’atteggiamento di adorazione acritica che molti manifestano nei suoi confronti).

Walter Isaacson è un ex caporedattore di Time, CEO di CNN, oggi direttore dell’Aspen Institute. Ha scritto biografie di Kissinger, Benjamin Franklin ed Einstein. È una persona con le spalle abbastanza larghe da non farsi condizionare da chicchessia e va a merito di Jobs l’averlo invitato a scrivere la sua biografia autorizzata senza interferire nella stesura.

Il libro si legge facilmente ed è privo di strafalcioni tecnologici significativi.

Isaacson tratteggia senza sconti la personalità complessa di Jobs: un genio per quanto riguarda la definizione degli aspetti estetico/funzionali dei prodotti Apple e sufficientemente carismatico da spingere i suoi collaboratori a realizzare cose fino a quel momento ritenute impossibili, ma anche un egocentrico che divideva il mondo soltanto in due categorie, fantastico e merda, spesso brutale con chi gli stava intorno, capace anche di appropriarsi delle idee altrui e riproporle come proprie.

La sua ricerca estrema e quasi furiosa della semplicità sia nel design che nella funzionalità dell’oggetto, lo avvicina al Bauhaus, con la differenza che, per Jobs, il detto “form follows function” si rovescia nel suo esatto opposto. Spesso, infatti, alcune caratteristiche funzionali dei sistemi Apple sono state determinate dall’estetica scelta da Jobs per qualche dispositivo. In tal modo si rovescia il normale processo di progettazione. Di solito, infatti, prima vengono gli ingegneri che decidono quali componenti devono far parte della macchina e poi arrivano i designer che hanno il compito di rinchiuderli in un involucro accattivante (e spesso, nel caso del computer, si limitano a un involucro qualsiasi).

L’approccio di Jobs, invece, ha posto ai progettisti delle sfide che li hanno costretti a innovare. In genere, non si ha la percezione di quanto sia difficile cambiare la forma di un computer. Per esempio, il solo fatto di volere gli spigoli molto arrotondati provoca un bel problema di progettazione perché i produttori di schede e chip lavorano solo con elementi rettangolari. In teoria un chip rotondo si potrebbe fare, a patto, però, di cambiare l’intera catena di produzione, dal software che sistema i collegamenti fino ai robot che saldano i chip sulla piastra. In pratica è impossibile.

Di conseguenza, l’arrotondamento degli involucri con il taglio degli angoli produce spazio sprecato, a meno di inventare una disposizione diversa degli elementi all’interno dell’involucro, cosa che risulta più semplice se si usano elementi più piccoli, che, però, hanno un costo maggiore, il che spiega, in parte, il prezzo eccessivo rispetto alle prestazioni delle macchine Apple.

Gli effetti di questo modo di procedere sono risultati a volte decisamente innovativi, ma, in altre occasioni, si sono rivelati tali da compromettere alcune funzionalità.

Un esempio del primo tipo è lo sfondo bianco dell’interfaccia del Macintosh, conseguenza del fatto che Jobs voleva che fosse WYSIWYG: what you see is what you get (quello che vedi è quello che ottieni), quindi, se il documento in stampa sarebbe risultato nero su bianco, anche sullo schermo doveva essere così. Questa idea aveva fatto imbestialire non poco i tecnici perché il tradizionale sfondo nero (a fosfori spenti) era più semplice da progettare ed evitava che il tremolio dei fosfori fosse visibile. Lo sfondo bianco, invece, costringeva a ricorrere a monitor di qualità superiore, più costosi. Oggi tutti siamo abituati a questa situazione ed anche i display hanno fatto un salto di qualità non da poco.

Un esempio del secondo caso è il maledetto lettore CD dell’iMac. Jobs si arrabbiò moltissimo quando vide che il progettista aveva inserito nella macchina un lettore a cassettino invece che uno a fessura come era suo desiderio e gli impose di cambiarlo. Il punto è che a quell’epoca, i CD player non erano ancora in grado di masterizzare, ma solo di leggere. Il progettista, però, sapeva che a breve sarebbero stati disponibili anche i primi masterizzatori e che, per alcuni anni, sarebbero stati prodotti solo in versione a cassettino e avvisò Jobs che non volle scostarsi dalla sua idea. Per questa ragione gli acquirenti dell’iMac non hanno potuto beneficiare di un salto tecnologico e per vari anni sono stati costretti ad acquistare un masterizzatore a parte, mentre tutte le altre macchine nascevano dotate di masterizzatore di serie.

Un altro esempio molto più recente è l’antenna-gate dell’iPhone 4. Sebbene la volontà ferrea di Jobs fosse in grado di spingere i tecnici a fare miracoli, non c’è alcuna possibilità di contrastare il fatto che il metallo non è un materiale ideale da piazzare vicino ad una antenna: a dispetto dei desideri di Jobs e del suo designer di fiducia, le onde elettromagnetiche si ostinano a fluire sul metallo piuttosto che attraverso di esso con la conseguenza che un involucro metallico attorno a un telefono scherma sia la ricezione che la trasmissione (è la cosiddetta gabbia di Faraday). In origine, l’iPhone avrebbe dovuto avere una corona di plastica per permettere al segnale di fluire, ma la visione estetica di Jobs richiedeva una corona metallica. I tecnici fecero l’impossibile per utilizzare il metallo come estensione dell’antenna creando una discontinuità nella corona di acciaio che circondava l’apparecchio, ma come risultò chiaro da subito, se un dito sudato interrompeva tale fessura, la linea crollava.

È giusto rilevare, però, che i successi del metodo Jobs sono stati di gran lunga maggiori rispetto agli insuccessi e che la sua capacità innovativa ha realmente cambiato il modo in cui la massa percepisce la tecnologia. Dico “la massa” perché le creazioni Apple sono rivolte principalmente a coloro che utilizzano i sistemi digitali per l’ordinaria amministrazione, non a coloro che fanno un uso spinto della tecnologia. Prova ne è il fatto che le macchine high-end disegnate da Jobs sia in Apple che fuori, non hanno mai avuto grande successo. Non l’ha avuto il Lisa, non l’ha avuto il NeXT e non l’ha avuto il Power Mac G4 Cube che, nonostante sia finito esposto al Museum of Modern Art di New York, non ha impressionato i professionisti, poco disposti a spendere il doppio del normale per avere una scultura sulla loro scrivania. La presenza massiccia di Apple in alcuni centri di ricerca, come, nel mio campo, l’IRCAM, dipende più che altro da oculate politiche di vendita e sponsorizzazione che altro (leggi: sconti e regali).

Ma il problema maggiore di Apple, quello che ne ha frenato la diffusione fra gli addetti ai lavori, in realtà non è il prezzo, ma l’estrema chiusura dei loro sistemi. Nonostante la pubblicità tenti sempre di accreditare un’immagine creativa, i sistemi di Jobs sono sempre stati più diretti alla fruizione di contenuti che alla loro creazione e per volontà espressa dell’azienda, non esiste una pluralità di fornitori, il che significa che, sia che si abbia bisogno di un particolare componente hardware, di una certa applicazione o solo di una riparazione, bisogna sempre rivolgersi a una e una sola azienda e accettare le sue condizioni. A partire dal primo Mac, questa è stata la politica aziendale propugnata da Jobs. Quando in Apple si sono accorti che erano nati dei servizi di riparazione dell’iPhone gestiti da terze parti, l’azienda ha persino modificato le viti per impedire che qualcun altro fosse in grado di aprirlo.

Entrare in Apple, in pratica, significa consegnare la propria attività e i propri dati a una singola azienda senza potersi rivolgere a qualcun altro nel caso di disaccordi con la politica aziendale. È un po’ come acquistare una bellissima automobile di marca ZZZ (che proprio per questo costa il doppio di un auto normale) e scoprire, però, che gli unici che possono ripararla sono i centri ZZZ (che la tengono via 20 giorni e ti fanno pagare un occhio), che puoi fare benzina solo nei distributori approvati da ZZZ e che rende il massimo solo sulle strade consigliate da ZZZ.

Detto così, sembra solo un fatto economico, ma non lo è. È una di quelle cose che riguarda la libertà di tutti, anche se pochi ne sono toccati direttamente. Il fatto è che, sul mio computer, voglio mettere il sistema che voglio, farci girare i programmi che voglio e anche scriverne qualcuno, visto che so come fare, e magari venderlo o regalarlo e questo, in Apple, non è semplicemente possibile.

La filosofia in un grafo

Drunk&Lampposts ha realizzato questo grafo che cerca di visualizzare le connessioni fra gli esponenti della storia della filosofia.

La metodologia utilizzata non è una scelta personale, ma deriva strettamente da quanto pubblicato in wikipedia. Simon Raper, che ha realizzato materialmente l’immagine, ha utilizzato la sezione “influenced by” contenuta in ogni voce dedicata ad un filosofo in wikipedia, anzi, più precisamente, in dbpedia che altro non è se non una versione strutturata in forma di database delle informazioni contenute in wikipedia (non so quanti di voi ne conoscono l’esistenza).

Ogni dichiarazione di influenza è stata tradotta in un link, mentre la quantità di “influenze” ha determinato la grandezza del cerchio rappresentante il filosofo.

Il tutto è stato tradotto in immagine da Gephi, un software open source interattivo per la realizzazione di grafi dinamici e gerarchici che rappresentano network e sistemi complessi. La mappa, quindi, non si deve leggere come una opinione di Raper, ma come “wikipedia riporta che…”

Attenzione, l’immagine originale è trasparente, quindi lo sfondo traspare condizionandone la leggibilità. Quello che vedete qui è un estratto. È conveniente cliccare l’immagine per vedere l’originale.

Naturalmente potete anche scaricarla, ma sappiate che l’originale è 8.1 Mb.

Nell’articolo originale Raper rileva alcuni problemi della mappa (il principale è l’assenza di frecce nei link che non fa capire chi influenza chi), ma offre anche varie chiavi per capirla meglio. Per esempio, fa notare come il software tenda a centrare gli elementi più grossi, per cui i nomi più importanti sono, in genere in posizione più centrale. Offre anche un’interpretazione dei colori. Gli amanti del genere, infine, troveranno anche alcune note tecniche sull’estrazione di dati e la realizzazione del grafo.

Comunque, sebbene io sia un appassionato di mappe, la mia opinione è che questa è molto bella da vedere, ma solo relativamente usabile perché la sua complessità ne limita notevolmente la leggibilità nelle parti più dense (sfido chiunque a seguire i link nella zona di Hegel o Kant). Una versione finale potrebbe assumere, per esempio, la forma di un applet Java che permetta di selezionare cosa vedere, spostare i box et similia. Però è simpatica come idea.

mappa della filosofia

Profetico

Nell’autunno del 1888 George Gouraud fece, a Londra, una serie di dimostrazioni della nuova invenzione di Edison: il fonografo, capace di registrare il suono su cilindri di paraffina. Dopo le demo, Gouraud registrava le reazioni dei presenti su cilindri da inviare ad Edison.

Uno dei presenti era il compositore Arthur Sullivan (1842-1900). Nel suo messaggio disse, fra l’altro:

For myself, I can only say that I am astonished and somewhat terrified at the results of this evening’s experiment — astonished at the wonderful power you have developed, and terrified at the thought that so much hideous and bad music may be put on record forever.

Trad. mia
Per quel che mi riguarda, posso solo dire di essere sbalordito, ma anche un po’ spaventato dai risultati dell’esperimento di ieri sera — sbalordito dal fantastico potere che avete sviluppato e spaventato al pensiero di quanta orrenda e cattiva musica potrà essere registrata per sempre.

Fonte: wikipedia

Com’era il vecchio west

Quando passo per qualche luogo che mi piace mi chiedo sempre come è apparso agli occhi dei primi uomini (il senso reale della domanda è com’era prima che la civiltà lo riempisse di insulse casette, strade eccetera). Pensare per esempio a come poteva apparire il lago di Garda a qualcuno che lo vedeva per la prima volta arrivando dalle montagne a nord, è sorprendente: un’immensa distesa di acqua con qualche villaggio e qualche palafitta qui è la.

Adesso il Daily Mail online pubblica una serie di foto scattate da Timothy O’Sullivan nei primi anni del 1870: sono le prime immagini di quelle terre che diverranno note come il selvaggio west (principalmente Arizona, Nevada, Utah).

Qui il link.

The wild west

These remarkable 19th century sepia-tinted pictures show the American West as you have never seen it before – as it was charted for the first time.

The photos, by Timothy O’Sullivan, are the first ever taken of the rocky and barren landscape.

At the time federal government officials were travelling across Arizona, Nevada, Utah and the rest of the west as they sought to uncover the land’s untapped natural resources.

The DailyMail online: Here is the link.

Il disastro del lago d’Aral

Ex lago di AralPensavo che queste immagini di navi da pesca abbandonate in mezzo al deserto fossero famosissime.

Era un po’ che volevo parlare del disastro ecologico del lago di Aral, o meglio ex lago di Aral. Non l’ho fatto perché ero convinto che fosse universalmente noto. Poi, conversando con un po’ di gente, mi sono reso conto che è solo vagamente noto, quindi ve lo racconto, con l’aiuto di wikipedia.

L’Aral (in russo Aralskoje More, Аральскοе мοре; in kazako Арал Теңізі) è un lago salato di origine oceanica, situato alla frontiera tra l’Uzbekistan (nel territorio della repubblica autonoma del Karakalpakstan) e il Kazakistan. Il nome deriva dal chirghiso “Aral Denghiz”, che significa “mare delle isole”, a causa delle numerose isole che erano presenti nei pressi della costa orientale. È talvolta chiamato erroneamente mare d’Aral, poiché possiede due immissari (Amu Darya e Syr Darya) ma non ha emissari che lo colleghino all’oceano; è infatti un bacino endoreico.

Un bacino endoreico è semplicemente un bacino idrografico senza emissari.

È interessante chiedersi come un bacino endoreico possa mantenersi in equilibrio, visto che l’acqua entra, ma non esce. Come mai non si espande oltre un certo limite?

La risposta è la stessa dei mari e degli oceani: l’evaporazione. È l’evaporazione a far sì che il lago possa espandersi fino a un certo punto, ma non oltre, in proporzione alla quantità di acqua che riceve.

Ma la cosa non sta ancora in piedi se non si aggiunge un altro tassello. Il bacino idrografico che alimenta il lago, infatti, può essere anche immenso. Quello del Mar Caspio, per esempio, si estende per diversi milioni di km2.

Il bilancio con l’evaporazione forma un lago di “soli” 371000 km2. Questo perché l’evaporazione aumenta esponenzialmente con la superficie del lago. Più la massa d’acqua è estesa, più l’evaporazione incide. Ad un certo punto si arriva all’equilibrio.

Questo equilibrio, tuttavia, è precario. Il clima, l’esposizione solare e le precipitazioni condizionano sia l’entità dell’evaporazione che la quantità di acqua affluente.

Di conseguenza, questi specchi d’acqua possono manifestare grosse variazioni di superficie, non solo in tempi lunghi nel corso della loro storia, ma anche su tempi dell’ordine di pochi mesi, seguendo variazioni dell’andamento meteorologico stagionale.

L’evaporazione, infatti, aumenta con la temperatura e diminuisce con l’umidità relativa (la cosiddetta pressione di vapore): all’aumentare della temperatura aumenta il flusso evaporante, ma via via che ci si avvicina alla saturazione, il flusso diminuisce fino a stabilizzarsi. Il vento, però, portando via l’umidità (cioè il vapore acqueo), favorisce l’evaporazione.

L’equilibrio è delicatissimo. Ciò nonostante le variazioni del lago non comportano quasi mai la sua estinzione perché al diminuire della superficie d’acqua, diminuisce anche l’evaporazione.

Contrariamente a quanto si dice, non abbiamo notizie storiche di sparizioni e riapparizioni del lago di Aral. Si sa, invece, che la sua superficie si è ridotta fino al 1880 per poi aumentare fino al 1908. Si sa anche che nell’antichità aveva un emissario che portava le sue acque fino al mar Caspio e che fungeva da via navigabile collegata alla via della seta.

Il disastro iniziò ai primi del ‘900, quando si cominciarono ad utilizzare le acque dei suoi due immissari per alimentare le coltivazioni. All’inizio, comunque, lo sfruttamento era contenuto e non si notò niente di strano, anzi il lago sembrava crescere.

Nell’immediato dopoguerra, però, l’utilizzo delle acque dell’Amu Darya e del Syr Darya fece un salto notevole: le loro acque vennero prelevate da svariati canali al fine di irrigare i neonati vasti campi di cotone delle aree circostanti.

Sin dal 1950 si poterono osservare i primi vistosi abbassamenti del livello delle acque del lago. Già nel 1952 alcuni rami della grande foce a delta dell’Amu Darya non avevano più abbastanza acqua per poter sfociare nel lago. Il piano di sfruttamento delle acque dei fiumi a scopo agricolo aveva come responsabile Grigory Voropaev. Voropaev durante una conferenza sui lavori dichiarò, a chi osservava che le conseguenze per il lago sarebbero state nefaste, che il suo scopo era proprio quello di “far morire serenamente il lago d’Aral”. Era infatti così abbondante la necessità di acqua che i pianificatori arrivarono a dichiarare che l’enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse idriche utili all’agricoltura e, testualmente, “un errore della natura” che andava corretto.

Un atteggiamento che oggi passa per folle, ma che negli anni 50/60 non lo era. Non voglio in alcun modo giustificarlo, ma solo inquadrarlo storicamente. Fino al diffondersi di una certa coscienza ecologica, la specie umana ha fatto migliaia di interventi di questo tipo (e anche oggi continua a farli) con risultati a volte buoni, a volte disastrosi, ma più spesso non ottimali, ma nemmeno così terribili.

Abbiamo deviato e interrato fiumi con effetti a volte pessimi, ma altre volte non così cattivi. Credo che meno di 1/1000 degli abitanti delle città siano consci di quanti fiumi interrati scorrano sotto i loro piedi (e quanto grandi siano) e di come siano stati deviati e rimodellati quelli esistenti. Per esempio, non so quanti moscoviti che passeggiano nel centralissimo quartiere Presnenskij sappiano che sotto i loro piedi scorre il Presnja, affluente non proprio piccolo della Moscova (in compenso, i genovesi si sono ben accorti dell’esistenza del Fereggiano).

Nella nostra storia abbiamo desertificato intere zone e bonificato paludi rendendo abitabili altri terreni, abbiamo spianato montagne, costruito isole e tagliato canali per collegare mari e oceani nonostante tonnellate di profezie avverse. Tutte queste azioni hanno cambiato il volto del pianeta, ma non decisamente in bene o in male. Hanno effetti positivi e negativi, però secondo me, nella maggior parte dei casi non ci è andata così male, prova ne sia il fatto che spesso non sappiamo nemmeno che queste cose sono state fatte.

Per esempio, sarebbe interessante sapere quanti di coloro che atterrano al Kansai International Airport (Osaka) o a Kobe, sanno che la terra su cui posano i piedi non c’era, prima che gli aeroporti venissero progettati (sono isole artificiali).

Nel caso del lago di Aral, i pianificatori ritenevano che il lago, una volta ridotto ad una grande palude acquitrinosa sarebbe stato facilmente utilizzabile per la coltivazione del riso, ma hanno sbagliato i calcoli, se mai li hanno fatti. Quello che invece è accaduto è che

Nel corso di quattro decenni la linea della costa è arretrata in alcuni punti anche di 150 km lasciando al posto del lago un deserto di sabbia salata invece del previsto acquitrino. A causa infatti della sua posizione geografica (si trova al centro dell’arido bassopiano turanico) è soggetto a una forte evaporazione che non è più compensata dalle acque degli immissari. L’impatto ambientale sulla fauna lacustre è stato devastante. Per far posto alle piantagioni, i consorzi agricoli non hanno lesinato l’uso di diserbanti e pesticidi che hanno inquinato il terreno circostante. Il vento che spira costantemente verso est/sud-est trasportando la sabbia, salata e tossica per i pesticidi, ha reso inabitabile gran parte dell’area e le malattie respiratorie e renali hanno un’incidenza altissima sulla popolazione locale. Le polveri sono arrivate fino su alcuni ghiacciai dell’Himalaya.

MappaAl posto delle acque del lago oggi ci sono 40 000 km2 di zona secca, di colore bianco a causa del sale sul terreno, denominati deserto del Karakum.

Cliccando questa immagine animata (guardatela per circa 30 sec.) potete apprezzare l’entità del disastro. Dal 1987 il lago si è diviso in due: la parte a nord, più piccola, è chiamata Piccolo Aral e quella a sud, ovviamente, Grande Aral. La diminuzione della superficie d’acqua ha superato il punto di non ritorno e senza interventi la totale scomparsa del lago sarebbe ormai inevitabile.

I pochi interventi sono iniziati nel 2000 con la messa in sicurezza della base militare sovietica che sorgeva su una delle isole.

Per anni una grave preoccupazione era costituita dall’installazione militare sovietica abbandonata dal 1992, i cui resti si trovano tuttora su quella che una volta era l’isola di Vozroždenie. In quella base infatti venivano condotti esperimenti di armamenti chimico-batteriologici. A causa dell’abbassamento del livello del lago, tale isola ormai era di fatto diventata parte della terraferma e facilmente raggiungibile. La presenza di fusti di antrace e di altri agenti tossici era nota e confermata sia dalle autorità ex-sovietiche, sia dalle autorità uzbeke, sia da quelle statunitensi incaricate di indagare sulla effettiva pericolosità del luogo. Tale installazione è stata bonificata definitivamente nel 2002 con uno sforzo congiunto delle autorità del Kazakistan e dell’Uzbekistan coadiuvate da consulenti statunitensi. Periodici sopralluoghi vengono via via effettuati nella zona per accertare l’eventuale persistenza di agenti tossici.

La difficoltà dell’intervento è acuita dal fatto che il territorio dell’Aral è diviso fra Kazakistan e Uzbekistan. Inoltre i suoi ex affluenti interessano anche Tagikistan, Turkmenistan, Kirghizistan ed in parte Afghanistan.

Allo stato attuale, l’unica nazione che ha intrapreso provvedimenti concreti per la situazione è il Kazakistan. In pratica, al di là di alcuni accordi formali tra loro, i governi delle altre nazioni che insistono nell’area interessata al passaggio dei due fiumi non hanno intrapreso significative azioni comuni per ripristinare l’afflusso delle acque verso il bacino del lago. Il motivo è che la coltivazione del cotone impiega ormai una quantità di lavoratori cinque volte maggiore di quella che una volta era impiegata nella pesca, che peraltro era concentrata nei soli Kazakistan ed Uzbekistan. Inoltre i terreni che le acque del lago hanno scoperto ritirandosi hanno mostrato di essere ricchissimi giacimenti di gas naturale. Nel corso del 2006 un importante accordo per lo sfruttamento del sottosuolo del lago è stato raggiunto tra il governo dell’Uzbekistan, la società russa LUKoil, la Petronas, la Uzbekneftegaz e la China National Petroleum Corporation. Un eventuale ritorno dell’acqua al livello originario sulla riva uzbeka renderebbe complicato questo genere di attività.

L’intervento kazako, finanziato dalla Banca Mondiale, si è concentrato sul Piccolo Aral e ha comunque raggiunto dei risultati notevoli. È stata costruita una diga per isolare il lago a nord dalla parte sud e ricongiunto al lago l’antico affluente Syr Darya, seppure con afflusso ridotto.

Grazie a ciò

Dal 2003 al 2008 la superficie del Piccolo Aral è passata da 2.550 km² a 3.300 km². Nello stesso periodo la profondità è passata da 30 a 42 metri. In alcuni villaggi è ripresa l’attività di pesca dopo che alcune specie di pesci erano state reintrodotte proprio per tentare di rendere la pesca nuovamente praticabile. Nel 2011, secondo le dichiarazione del presidente kazako Nursultan Nazarbayev, la quantità di pescato del Piccolo Aral è arrivata a 6000 tonnellate. Secondo gli imprenditori locali, il pescato del 2011 ammonterebbe addirittura a 18.000 tonnellate. Le acque del lago, inoltre, sono risultate abbastanza pulite da essere potabili e la salinità è tornata ai livelli simili a quelli pre-1960.

Tutto questo dimostra che, una volta fatto il danno, non tutto è perduto e che politiche e investimenti mirati possono ripristinare, almeno in parte, la situazione originaria. Tuttavia l’ambiente è transnazionale e spesso una delle cose più difficili da ottenere è il consenso di tutti i paesi interessati.

Il Kazakistan, che ha nel proprio territorio il Piccolo Aral, ha aderito al programma di salvataggio, ma l’Uzbekistan, nel cui territorio giace quanto rimane del Grande Aral, no.

Le autorità dell’Uzbekistan ritengono che ormai la situazione sia talmente compromessa che l’unica soluzione sia quella di investire nel rinverdimento del deserto lasciato dal lago evaporato invece di provvedere ad un suo eventuale nuovo riempimento. Stanno avendo un discreto successo delle opere di rimboschimento di Haloxylon ammodendron, un arbusto noto anche con il nome di “albero del sale”, in grado di vivere in ambienti aridi e dalla salinità elevata. Secondo un piano curato da autorità tedesche, uzbeke e kazake, nel giro di 10 anni circa 300.000 ettari saranno rimboschiti con questo tipo di vegetazione. L’obiettivo è quello di ridurre del 60%-70% la velocità del vento al suolo durante le frequenti tempeste di sabbia in modo da ridurre sensibilmente la quantità di polveri che i venti portano nei dintorni.

Così abbiamo due strategie praticamente opposte che tendono entrambe alla riduzione del danno, ma in modi diversi. Entrambe sono maledettamente costose.

Adesso ci potrebbero stare tonnellate di commenti moralisti del tutto inutili, perciò mi asterrò dal farli. Solo in parte l’uomo è in grado di imparare dai propri errori. Più spesso la memoria è soverchiata da considerazioni contingenti o che appaiono tali.

L’unico aspetto positivo di questa storia è che, proprio in tempi recenti, sul fondo prosciugato del lago sembra siano riapparsi i resti, risalenti al XIII-XIV secolo, di un’antica città.

Qualche altra immagine della zona del disastro (click per ingrandire).

Ngram Viewer

Tanto per dimostrare la potenza di un database, anche quando viene utilizzato in modo non particolarmente raffinato, per esempio su base puramente statistica, questa è una delle più recenti creazioni di Google.

L’Ngram Viewer interroga una base dati costituita da 5.2 milioni di libri, un subset dei 15 milioni digitalizzati da Google, e quantifica le ricorrenze di una parola o una frase in un arco di tempo di 200 anni (dal 1800 al 2000).

Per esempio, il grafico qui sotto (clicca per ingrandire), presenta le ricorrenze della parola “terrorism” fra il 1800 e il 2007 mostrando che il massimo, lo 0.002%, è situato negli anni poco dopo il 2000 (ovviamente), con un altro picco nel 1980.

Si possono cercare anche frasi e più parole o frasi separate da virgole. I risultati sono in percentuale, quindi normalizzati rispetto alla quantità di libri.

Istruzioni ufficiali qui.

Caverne, megaliti e riverberi

pitture rupestriAlcuni studiosi hanno messo in luce una forte correlazione fra l’arte paleolitica (pitture rupestri, ma anche megaliti e piramidi) e particolari proprietà acustiche dei luoghi in cui è stata realizzata.

Iniziando dalle pitture rupestri, Iegor Reznikoff, dell’Università di Parigi, ha notato che i punti delle caverne in cui il suono è maggiormente riverberato, sono anche quelli in cui si trova la maggior quantità di pitture e incisioni. E quando questi punti di risonanza sono localizzati nei passaggi più stretti, in cui è più difficile dipingere, si tratta di un segnale chiaro: la qualità acustica di un luogo era molto importante per i nostri antenati già nella preistoria.

Steven Waller ha scoperto una simile correlazione fra la locazione delle sculture rupestri e particolari caratteristiche dell’eco nei luoghi prescelti.

Non abbiamo nessuna idea dei suoni che venivano prodotti in questi luoghi. Presumibilmente, la loro origine era vocale e percussiva, ma in alcuni siti sono stati rinvenuti anche flauti realizzati con ossa di animali.

Sono anche stati fatto degli studi sull’acustica delle costruzioni antiche. Aaron Watson and David Keating hanno mostrato che la camera interna dei monumenti tombali di epoca megalitica delle isole britanniche spesso risuona a frequenze da 1 a 7 Hertz. Ne consegue che un ritmo il cui metronomo è un sottomultiplo della frequenza di risonanza viene esaltato, con notevole effetto.

Altri studi (Robert Jahn and Paul Devereux) hanno scoperto risonanze nell’ambito 95 – 120 Hz, che corrisponde al registro inferiore della voce baritonale.

Tutto ciò è affascinante perché testimonia l’importanza delle qualità acustiche ambientali per i nostri lontani antenati.