Delusion of the Fury

Di Harry Partch abbiamo già parlato su queste pagine. Artista personalissimo, a cavallo fra il ‘900 storico e il contemporaneo (1901-1974), capace di ideare e costruire una propria strumentazione che non si basa sul temperamento equabile e per questo isolato, ma ciò nonostante sempre presente a sé stesso e consapevole del suo essere compositore (ricordiamo che durante la grande depressione vagava come un senzatetto e tuttavia era in grado di pubblicare un giornaletto dal titolo Bitter Music – Musica Amara), Partch ha sempre portato avanti la sua sfida all’estetica corrente, quale essa fosse.

Con la sua musica, non tonale, non atonale, ma anzi completamente esterna a questo dualismo, (sviluppando quell’atteggiamento prettamente americano che già troviamo in Ives e altri), Harry Partch raggiunge livelli di grande potenza, come in questa ultima opera del 1965-66, eseguita una sola volta mentre era ancora in vita.

Delusion of the Fury: A Ritual Of Dream And Delusion, per 25 strumenti (mai utilizzati tutti insieme), 4 cantanti e 6 attori/ballerini/mimi, accosta un dramma giapponese nel primo atto a una farsa africana nel secondo, realizzando quel concetto di teatro totale che integra musica, danza, arte scenica e rituale da sempre caro all’autore.

L’opera non ha un vero e proprio libretto, nel senso narrativo dell’opera europea. Tutta l’azione è danzata e/o mimata.
Nelle parole di Partch, il primo atto è sostanzialmente un’uscita dall’eterno ciclo di nascita e morte rappresentato dal pellegrinaggio di un guerriero in cerca di un luogo sacro in cui scontare la penitenza per un omicidio, mentre l’ucciso appare nel dramma come spettro, dapprima a rivivere e far rivivere al suo assassino il tormento dell’omicidio, trovando infine una riconciliazione con la morte nelle parole “Prega per me!”.
Il secondo atto è invece una riconciliazione con la vita che passa attraverso la disputa, nata per un equivoco, fra un hobo sordo e una vecchia che cerca il figlio perduto. Alla fine, i due vengono trascinati di fronte a un confuso giudice di pace sordo e quasi cieco che, equivocando a sua volta, li scambia per marito e moglie e intima loro di tornare a casa, mentre il coro intona all’unisono un ironico inno (“come potremmo andare avanti senza giustizia?”) e la disputa si stempera nell’assurdità della situazione.
L’opera si conclude con stessa invocazione del finale del primo atto (“Pray for me, again”), lanciata da fuori scena.

Qui il video originale

Quarti di tono

Dai quarti di tono incidentali di Van Halen, passiamo ai quarti di tono intenzionali di Charles Ives (1874–1954) con questi Three Quarter-Tone Pieces for Two Pianos del 1924 (sono gli anni in cui, in Europa, i Viennesi formalizzano le regole della dodecafonia).

È interessante e anche divertente sapere qualcosa di più sul rapporto tra Ives e la microtonalità e sul modo in cui quest’ultima viene ottenuta in questi pezzi.
Rendere microtonale un pianoforte, in effetti, è un problema. A prima vista, sembra che ci siano solo due modi: o si riaccorda interamente il pianoforte, perdendo, però, metà dell’estensione, oppure si ricorre a uno strumento appositamente costruito.
C’è, però, una terza via ed è quella utilizzata da Ives in questi pezzi: usare due pianoforti uno dei quali è accordato 1/4 di tono più alto dell’altro. Ovviamente i due strumenti devono essere uguali e i due pianisti devono essere molto accurati sia come tempo che come tocco e dinamiche perché il tutto deve suonare come un unico strumento e vi sono accordi e frasi in cui l’uno esegue note complementari all’altro.

I rapporti fra Ives e la microtonalità sono curiosi e risalgono all’infanzia in una famiglia di musicisti. Il padre, però, era anche un appassionato di bricolage. Aveva costruito una specie di arpa fra cui aveva teso 24 o più corde per sperimentare con i quarti di tono. In seguito, come racconta lo stesso Ives, aveva composto alcune canzoni in quarti di tono e cercava di convincere la famiglia a cantarle, tentativo rapidamente abbandonato per essere ripreso solo come forma di punizione.
Ciò nonostante, al piccolo Charles, alcune di queste canzoni, quelle che erano temperate e usavano i microtoni solo come note di passaggio, piacevano.

Ives ricorda anche il padre aveva l’orecchio assoluto, ma lo considerava una cosa disturbante e quasi vergognosa, affermando che “tutto è relativo; solo i pazzi e le tasse sono assoluti”. E ad un amico, diplomato al conservatorio di Boston, che gli chiedeva come mai, nonostante il suo orecchio, insistesse nel produrre dissonanze al piano, rispose “Io avrò anche l’orecchio assoluto, ma, grazie a Dio, il piano non ce l’ha”.

L’influenza del padre spiega anche l’atteggiamento di Charles Ives nei confronti della tonalità: “Non vedo perché la tonalità, come tale, debba essere eliminata, così come non vedo perché debba sempre essere presente”.
Così, mentre in Europa si preparava un conflitto ideologico atonale contro tonale, in America si assestavano i fondamenti di quell’atteggiamento neutrale che avrebbe prodotto gente come Cage, Feldman, Wolff e molti altri, estendendo la sua influenza fino al presente.

In questo brano, il primo e il terzo movimento erano stati concepiti per un unico pianoforte con due tastiere. Un ordigno del genere era stato effettivamente costruito in via sperimentale e in pratica, era costituito da due arpe, due meccaniche e due tastiere sovrapposte, incluse nello stesso box. Questi due movimenti sono basati su una serie di accordi, quasi nello stile di un inno, che all’inizio lasciano all’orecchio il tempo di assorbire le stranezze prodotte dai quarti di tono. Si nota in modo particolare nel I° mov. che presenta all’ascoltatore il materiale sonoro in modo graduale, quasi didattico. Ciò non toglie che, alle nostre orecchie educate al sistema temperato, l’insieme dia spesso l’impressione di un pianoforte scordato.
Su questo tessuto, si dispiega poi una linea cantabile che, nel III° mov., riprende e distorce una canzone popolare (America, my country ‘tis of thee), sottolineando il verso “land where my fathers died!”.
L’allegro, invece, è vigoroso e vivace, diviso ritmicamente fra i due pianoforti.

Ecco anche una tesi di Myles Skinner in inglese che discute l’utilizzo della microtonalità nella musica occidentale moderna.

Charles Ives – Three Quarter-Tone Pieces for Two Pianos (1924)
Elizabeth Dorman and Michael Smith, piano

L’uomo approssimato

Bello come il primo (le project flou), “L’homme approximatif“, nuovo lavoro di Daniel Palomo Vinuesa + collettivo serendipity.

Pseudo jazz con influenze elettroacustiche, ma Vinuesa spazia fra molti generi e crea un concept album che trae la sua ispirazione dai lati meno ovvi della scienza: l’incommensurabilità fra il raggio e la circonferenza, fra il lato e la diagonale del quadrato, grande disastro e rovina di Pitagora. Ma anche Darwin e Galileo e poi Tesla, scienziato e apprendista stregone e il caos: Poincaré.

OnClassical

Ecco una netlabel dedicata alla musica classica e per di più, fa piacere dirlo, si tratta di una iniziativa italiana.

OnClassical vende musica via internet, ma è importante far notare che, all’atto dell’acquisto, la musica non è distribuita solo in MP3, la cui qualità, nel caso della musica classica, può essere discutibile, ma anche in FLAC (compressione senza perdita, CD quality, 44.1 kHz, 16 bit) e in qualche caso, anche in Hi-Res FLAC (88 kHz, 24 bit).
Come ormai è d’uso, per ogni CD esiste una funzione di pre-ascolto.

Otto canzoni per un re pazzo

Le “Eight Songs for a Mad King” scritte da Peter Maxwell Davies nel 1969, sono ispirate alla follia senile di re Giorgio III° di Gran Bretagna e a un carillon, tuttora esistente e appartenente a Sir Stephen Runciman, che si racconta venisse usato dal re nella pretesa di insegnare a cantare agli uccelli del parco.

Si tratta in realtà di un monodramma di circa 30 minuti con libretto di Randolf Stow basato su testi dello stesso Giorgio III° (testi qui), pensato per l’attore e cantante sudafricano Roy Hart, baritono dall’enorme estensione vocale (più di 5 ottave) e proprio per questo raramente eseguita in seguito (Roy Hart, morì in un incidente poco dopo la prima).
La partitura è per flauto (+ottavino), clarinetto, violino, violoncello, pianoforte (+clavicembalo, dulcimer), percussioni (+vari fischietti, didjeridu), oltre all’attore protagonista che è l’unico a muoversi liberamente sul palcoscenico, essendo gli altri esecutori rinchiusi in grandi uccelliere.

Nel corso dell’opera, il re dialoga anche individualmente con gli altri strumenti che a volte incarnano le sue allucinazioni: p.es. il flauto diventa la Lady-in-Waiting del terzo brano, mentre il violoncello rappresenta il Tamigi nel brano no. 4 e il percussionista è il custode del re.

Un’opera innovativa nel 1969, anche dal punto di vista grafico, che a tratti incorpora musica di corte dell’epoca.

Here with the score

and here with the scenic action

Matematica e musica (01)

La trasposizione diretta della matematica in musica, di solito produce dei risultati abbastanza banali. C’è però qualche eccezione. Una è questa.

  1. Si calcolano le prime n (poniamo 100) cifre di un numero trascendente, uno di quei numeri non riducibili a frazione che hanno infinite cifre dopo la virgola, come π (pi-greco), φ (phi, la sezione aurea) o e (la base dei logaritmi naturali).
    In questo caso, usiamo la sezione aurea φ (phi). Il risultato è
    1.61803398874989484820458683436563811772030917980576
    286213544862270526046281890244970720720418939113748
  2. Si prendono le cifre così come sono, senza badare al punto decimale, cioè
    1,6,1,8,0,3,3,9,8,8,7,4,9,8,9,4,8,4,8,2,0,4,5,8,6,8,3,4,3,6,5, … etc.
    Questa sarà la nostra base per produrre altezze e durate. L’idea è che la generazione delle cifre decimali in questi numeri non è del tutto casuale. Infatti le cifre non hanno la stessa distribuzione, ma soprattutto la serie è ricca di ripetizioni, configurazioni ripetute, etc.
  3. Per ottenere le altezze, trasformiamo le nostre cifre in note con una codifica. Poniamo 1 = LA basso del piano e saliamo per semitoni. Quindi il DO più basso sarà 4 e poi, per ottave, gli altri DO saranno 16, 28, 40, 52, 64, 76, 88.
  4. Ora, riscaliamo l’intera serie, che va da 0 a 9, in modo che il minimo (0) corrisponda a 40 (C3) e il massimo (9) a 64 (C5). Otteniamo seguente serie di note:
    42,56,42,61,40,48,48,64,61,61,58,50,64,61,64,50,61,50,61,45,40, … etc
    In generale, risulta che

    • 0 = 40 = C3
    • 1 = 42 = D3
    • 2 = 45 = F3
    • 3 = 48 = G#3
    • 4 = 50 = A#3
    • 5 = 53 = C#4
    • 6 = 56 = E4
    • 7 = 58 = F#4
    • 8 = 61 = A4
    • 9 = 64 = C5

    Naturalmente avremmo potuto usare anche un altro intervallo, più o meno ampio di 2 ottave ottenendo risultati diversi.

  5. Ora piazziamo le durate. Decidiamo che
    • 0 = semicroma
    • 1 = croma
    • 2 = semiminima
    • 3 = minima

    e riscaliamo la serie numerica come sopra, ma restringendola fra 0 e 3 senza decimali. Ne consegue che

    • 0, 1, 2 = 0 = semicroma
    • 3, 4, 5 = 1 = croma
    • 6, 7, 8 = 2 = semiminima
    • 9 = 3 = minima

    ottenendo la serie seguente: 0,2,0,2,0,1,1,3,2,2,2,1,3,2,3,1,2,1,2, … etc.
    In questo esempio usiamo sempre durate canoniche (non irregolari) per non avere difficoltà di scrittura. Niente però impedisce di usare anche durate irregolari, affrontando qualche problema di scrittura. P.es, usando anche la durata di una croma terzinata, potreste trovarvi una successione come: semiminima – croma terzinata – semiminima e voglio vedere come lo scrivete. Oddio, in tanti brani contemporanei si fa anche di peggio, ma in questo esempio stiamo sul semplice.

  6. Bene. A questo punto abbiamo una serie di altezze e una di durate di pari lunghezza. Decidiamo un metronomo e suoniamo. Ecco il risultato finale. Simpatico, nervosetto, un po’ alla Xenakis anche se meno complesso.

Al lettore attento non sarà sfuggita una particolarità. Usando la stessa serie di partenza per altezze e durate, la durata aumenta via via che le altezze si alzano. Per evitarlo, basta retrogradare una delle due serie risultanti. In questo esempio abbiamo retrogradato le durate.

Cambiando l’estensione, poi i risultati sono diversi. Qui le altezze sono riscalate fra 4 e 64 usando buona parte dell’estensione del piano e rendendolo praticamente insuonabile da un umano a questa velocità.
Ecco infine una sovrapposizione di quest’ultimo frammento (1-64) e del precedente (40-64 con durate in retrogrado)

Nocturnal

Nocturnal è uno degli ultimi brani di Edgar Varèse (1883-1965), lasciato incompiuto e terminato dal suo allievo e assistente Chou Wen-chung nel 1968 facendo, a mio avviso, un ottimo lavoro (non si avverte la mano di qualcun altro).
Ecco un estratto delle note di programma.

Nocturnal is a world of sounds remembered and imagined, conjuring up sights and moods now personal, now Dantesque, now enigmatic. Perhaps one should not read too much into a composer’s choice of words, but how, knowing Varèse’s unique career, could one resist wondering about the line, ‘I rise, I always rise after crucifixion’? What about the mocking, threatening, babbling emanations from the chorus, often directed to sound ‘as if from underground’ and ‘harsh’? Then there are the sounds remembered — the liquid beat on the wood block, the shrill whistling of the winds, the tenacious shimmering of the strings — the insistent sound of a mass of shuffling feet, the flourishes of drum beats, the sudden crashing outbursts. A phantasmagorical world? Yes, but as real as Varèse’s own life.

In completing the score … two principles were followed: (1) continuation of some of Varèse’s principal material of the original portion, following suggestions in his cryptic notes; (2) addition of new material from the few more elaborate sketches found, so as to illustrate more fully his ideas for this work and his concepts in the use of vocal sounds. All the details, whenever not specified in the sketches, are worked out according to the original portion or other sketches in which similar situations are found. The original portion ends with the words, ‘dark, dark, dark, asleep, asleep,’ sung by the soprano. This is clearly indicated in the published score. The added portion is purposely kept to the minimum length possible, just enough to include all suitable additional material and to provide structural coherence.

[Chou Wen-chung ]

 

Grand Alap: A Window in the Sky

The word alap refers to the opening passage of Raga music. In the music of India, the alap tends to display improvisational materials which relate to the music which will follow, yet it contains a deep expressivity. In the work Grand Alap, the opening passage serves as a kind of ritual offering to all surrounding spirits and is a request for permission to begin the performance. This practice has occurred in the music-making practices of cultures throughout parts of Asia for many centuries, including Cambodia. The subtitle ‘A Window in the Sky’ is a reference to the recent scientific discovery of hundreds of newly found galaxies (with the assistance of the Hubble telescope) and perhaps relates to the expository quality of the work, and its expansiveness.

Grand Alap requires the percussionist to be male and the cellist to be female, as each of them has a vocal part which is both separate and related to their instrumental parts. Each of them is required to articulate certain phonemes as well as to sing. Some of the phonemes used are derivative of the sounds used to communicate percussion techniques in regions of South and Southeast Asia while others resemble words in a few ancient languages. A few words have meaning in the Khmer (Cambodian) language, which derives from Pali and Sanskrit: ‘Soriya’ is the sun, ‘Mekhala’ is the goddess of water, and the words ‘Mehta/Karona’ refer to the concept of greater compassion.

Grand Alap consists of countless fragments strung together like beads on a necklace in a complete circle. Some of these fragments bear distinct references to particular personae. The sections entitled ‘Entering into Trance’ and ‘In Trance’ require that the percussionist execute those fragments while in a kind of altered state, or as if thrown into an unearthly dimension. In the section entitled ‘An Angel Voice’ the cellist is to sing a musical phrase with a pure and balanced expression, as if coming from a heavenly place. ‘Rising On the Seventh Day’ symbolizes a ‘rebirth’ of the soul, which is a reference to traditional Khmer theatre, and ‘Departure of the Angel’ is the very last fragment of the work.

The vocal lines in Grand Alap have numerous functions. While at times they are an integral part of the texture and sonority, they also represent the locus of each musical personae or fragment, which are then strung together, as stated before, in a kind of necklace. Sometimes the vocalizations extend instrumental sounds or vice versa while at other times they are interlocked with instrumental sounds. The role of the voices is also often ‘broken’ and detached from the instrumental activity, allowing for instrumental sound to develop alone at certain moments. Instrumental display is continuous throughout the piece, while the voices can be said to contribute dots and dashes, or curves of expressive colors in a painting which emerge out of the canvas. Here, the surface of the canvas is represented by the ever-present instrumental sonority.

Grand Alap was commissioned by Maya Beiser and Steven Schick and made possible by the commissioning program of Meet the Composer/Reader’s Digest. This work grew out of a series of collaborative sessions between the composer and the commissioning performers.

Chinary Ung was born in 1942 in Cambodia and began studying the clarinet in Phnom Penh. He emigrated to the USA in 1964, finishing his clarinet studies and enrolling in composition at Columbia University.
Graduating in 1974, he turned back to his home country, studying Khmer musical traditions for the next decade.
Since 1995 he has taught at the University of California, San Diego.
About his music he says:

I believe that imagination, expressivity, and emotion evoke a sense of Eastern romanticism in my music that parallels some of the music-making in numerous lands of Asia. Above all, in metaphor, if the Asian aesthetic is represented by the color yellow, and the Western aesthetic is represented by the color blue, then my music is a mixture — or the color green.

Chinary Ung – Grand Alap: A Window in the Sky (1996), per violoncello e percussioni
Iva Casian-Lakos, cello, voice – John Ling, percussion, voice


My note:

C’è una interessante estetica che si va sviluppando in anni relativamente recenti: quella di coloro che hanno assorbito ed elaborato elementi culturali lontani e diversi. È qualcosa che va al di la di quello che il pop etichetta banalmente come world music. Non si tratta semplicemente di piazzare una melodia orientale su un ritmo occidentale o viceversa o ancora di suonare rock con lo shamisen.
Se ascoltate questo brano noterete come l’atmosfera oscilli continuamente fra est e ovest, con la sonorità tipicamente occidentale del violoncello, che a tratti si fa orientale con scale e pedali, le percussioni che stanno ora qui ora là e le voci che sono trattate con emissione molto orientale. È un bel mix, frutto di studio, di idee, non banale e non superficiale.
Personalmente, come atteggiamento (non come musica), mi ricorda un po’ Takemitsu quando faceva affiorare atmosfere tipicamente giapponesi da insiemi strumentali del tutto occidentali.