Messiaen – Oiseaux éxotiques
Orchestra: Royal Concertgebouw Orchestra conducted by Riccardo Chailly
Pianist: Jean-Yves Thibaudet
Score is in C and written at octave.
Messiaen – Oiseaux éxotiques
Orchestra: Royal Concertgebouw Orchestra conducted by Riccardo Chailly
Pianist: Jean-Yves Thibaudet
Score is in C and written at octave.
Per gli amanti di Philip Glass ecco una playlist di Einstein on the Beach (1976), secondo me il punto più alto della sua carriera, eseguita dallo stesso Glass e dal suo ensemble.
Lunedì 12/2 alle ore 18, Staffan Mossenmark, compositore e sound-artist svedese, farà una presentazione del suo lavoro nell’Aula Magna dell’Accademia Cignaroli in Via Montanari (vicino a piazza Cittadella).
Questo evento servirà anche per inaugurare il progetto “VERONA RISUONA” che si svolgerà nei prossimi mesi e si concluderà alla fine di aprile.
Nell’immagine: Staffan Mossenmark impegnato nella performance Wroom!, mentre dirige 100 Harley Davidson nella piazza di Copenhagen. Click qui per ingrandire.
Psappha (1975) di Iannis Xenakis eseguita da Adélaïde Ferrière.
Psappha è la versione arcaica del nome di Saffo (Sappho), poetessa dell’antichità (VII sec. ac), che inventò il principio astratto di variazione (metabole) su unità metriche (ritmiche) dette saffiche.
Nella sua prima composizione per percussioni sole, Xenakis decide di concentrarsi unicamente sul ritmo. Soltanto la cassa, infatti, è esplicitamente specificata in partitura, mentre gli altri strumenti sono indicati soltanto come diverse classi di timbri (pelli, legno, metallo, ogni zona deve essere disponibile in 3 registri).
A partire da questa organizzazione, Xenakis sovrappone diversi moduli ritmici, a strati, fino a livelli di complessità molto elevata.
Psappha è suddivisa in 5 sezioni, ognuna caratterizzata da diversi moduli di tempi, timbri e tessiture. Vi sono passaggi in cui la pulsazione continua in modo regolare, colorata da accenti timbricamente diversi. Altri in cui, per contrasto, la pulsazione apparentemente scompare e le frasi si dissolvono in gruppi di suoni di densità variabile.
Gérard Grisey – Quatre chants pour franchir le seuil per soprano e 15 strumenti (1996-1997).
Quasi una premonizione, l’ultima composizione di Grisey che morirà nel 1998.
Ho concepito i Quattro Canti per superare la soglia come una meditazione musicale sulla morte in quattro aspetti: la morte dell’angelo, la morte della civilizzazione, la morte della voce e la morte dell’umanità. I quattro movimenti sono separati da brevi interludi, polveri sonore morbide, destinati a mantenere un livello di tensione leggermente superiore al silenzio educato ma rilassato che regna nelle sale di concerto tra la fine di un movimento e l’inizio del seguente. I testi scelti appartengono a quattro civilizzazioni (cristiana, egiziana, greca, mesopotamia) ed hanno in comune un discorso frammentario sull’inevitabile della morte. La scelta della formazione è stata dettata dall’esigenza musicale di opporre alla leggerezza della voce di soprano una massa grave, pesante e tuttavia suntuosa e colorata.
I 4 canti:
Il testo della prima parte, tratto da Les Heures de la Nuit di Christian Guez-Ricord (La Sétérée, Jacques Clerc Editeur, 1992)
De qui se doit
de mourir
comme un ange
……………….
comme il se doit de mourir
comme un ange
je me dois
de mourir
moi-même
il se doit son mourir
son ange est de mourir
comme il s’est mort
comme un ange
Su Repubblica del 10 novembre 2006, in occasione della presentazione di “Brawlers, bawlers and bastards”, il nuovo triplo cd, era uscita un’intervista con Tom Waits breve, ma così bella che non riesco a resistere alla tentazione di riportarla.
Tom parla nel modo che mi è sempre piaciuto: facendo poesia (la descrizione finale della vita è grandiosa). Una cosa che riesce a pochissime persone (uno grandioso in questo era William Burroughs).
In ogni caso riconosco che la proprietà dell’intervista è di Repubblica e dell’autore, Giuseppe Videtti. Mi impegno fin d’ora a toglierla dietro semplice richiesta via mail.
Pensate però che questa vostra bella pagina ormai è finita nel dimenticatoio perché, come dicevano i Rolling Stones, “who wants yesterday’s papers?”. Così, almeno, un po’ di gente la legge di nuovo…
Ecco l’intervista. Godetevela ascoltando Bottom of the world, il brano diffuso in internet come trailer del disco.
Lei dice di scrivere canzoni che, a volte, non vogliono essere cantate.
“Incidere una canzone è come catturare un passero: devi farlo senza rischiare di ucciderlo. A volte per la fretta di trasferire una canzone su disco ti resta in mano con un pugno di piume, e il passero, cioè la canzone, è volato via”.
Quando capisce che è il momento di cantare questa o quella canzone?
“Le canzoni hanno una loro gestazione, alcune hanno urgenza di essere diffuse, altre vogliono restare nell’ombra e continuare a cambiare col tempo. La canzone ha una tradizione millenaria, l’industria discografica, al contrario, ha appena cent’anni di vita. Per secoli le canzoni sono state tramandate oralmente. Nessuno può assicurarci che i brani “popolari” sono giunti a noi nel modo in cui furono scritti in origine”.
Qual è stata la prima volta che una canzone le ha attraversato la mente e le ha fatto desiderare di essere un cantautore.
“Quando mio padre mi cantava le arie messicane accompagnandosi con la chitarra. Dovevo avere 4 anni, non di più. Poi arrivò Harry Belafonte e fu amore al primo ascolto. Anch’io sono sempre stato attratto da culture “altre”, la mia musica nasce dalla lotta d’influenze inconciliabili fra loro. Mi piacciono Judy Garland e Black Flag, Frank Sinatra e Sex Pistols, mariachi, rumba, bossa nova…”.
E tango…
“Molto tango… una volta alla radio si ascoltava di tutto, quella è stata la mia scuola. Non ero io che scoprivo la musica, erano quelle canzoni che mi cercavano. Da adolescente ascoltavo il leggendario dj Wolfman Jack, fu lui a spalancarmi gli occhi sulla black music, poi finii in una scuola superiore frequentata in massima parte da neri, e allora scattò la scintilla per James Brown e tutta la musica nera. Che bei tempi, quanti talenti. Oggi l’industria è piena di bugiardi e disonesti. Cercano di convincere il primo venuto che sarà il prossimo Elvis, questo è l’inganno; poi se non vende subito lo buttano via come un barbone, anche se è un genio”.
Com’era l’industria quando lei esordì, negli anni 70?
“C’erano sciacalli e pescecani, come oggi, ma anche a personaggi naïf come me veniva offerta una chance”.
Vuol dire che aveva una dose sufficiente di creatività?
“Creatività? Sì, e molti desideri e sogni, ma ero anche giovane e stupido. E molto fragile, e a qualcuno questa mia fragilità piacque, e decise di proteggermi facendomi incidere un disco. Ma a quel punto ebbi bisogno di un manager e, come succede a tutti, fui frodato”.
A lei fu data la possibilità di continuare a incidere.
“Ognuno vive il suo tempo, io esordii in un periodo in cui l’industria cercava di fertilizzare le uova che aveva nel pollaio. Oggi iPod, Mp3 e Internet hanno atrofizzato l’interesse del pubblico, anche gli artisti hanno perso quel senso d’avventura che ci spingeva a sperimentare. Quel che mi consola è che, nonostante tutto, c’è ancora voglia di suonare dal vivo; la musica continua a essere un bisogno primario”.
Non c’è da essere pessimisti con 33 anni di carriera come la sua.
“Ogni cosa ha il suo prezzo. Fin dall’inizio sapevo che non volevo arrivare a 24 anni e odiare la musica, sapevo che c’erano meccanismi che non mi piacevano e un certo tipo di pop che non avrei mai voluto fare. La mia longevità ha a che fare con una sorta d’integrità che, ovviamente, ha richiesto dei sacrifici economici. Sa come va la storia, no? La tua foto sui giornali diventa sempre più piccola, le recensioni dei tuoi dischi sempre più brevi. Ma è ok, non ho mai pensato di diventare come Beatles e Rolling Stones”.
Che successe nel 1983, quando con Swordfishtrombones diede un taglio netto al passato?
“Mia moglie e io volevamo produrci il disco da soli, sapevamo che era un album diverso, ma tutti volevano che io rimanessi lo stesso, neanche fossi la ricetta di un soft drink. Mi trattavano come una 7Up, io invece ero alla ricerca di qualcosa che non riuscivo a trovare dentro di me. Kathleen diceva: “I tuoi dischi suonano come se avessi sul viso una maschera”, voleva che somigliassi di più a me stesso”.
Cosa la colpì di Kathleen all’inizio, la donna o l’artista?
“La donna. Se non ci fosse stato amore non saremmo ancora insieme dopo 26 anni. E mi creda, collaborare con qualcuno che ami è la cosa più bella. Noi due siamo come la ciurma di una nave, devi saper cucinare, riparare, rammendare, governare, nuotare. La nostra è una grande cucina”.
Sua moglie dice di lei che è l’uomo più testardo che abbia mai conosciuto.
“È vero, è difficile farmi cambiare idea, anche se la paternità mi ha fatto diventare più… malleabile. Il vero matrimonio indissolubile è quello con i figli (io ne ho tre, il più grande suona con la mia band), da loro non puoi divorziare. Riesco a mantenere la calma anche quando mi chiedono: “Hey pa’, puoi trovarmi un paio di biglietti per il concerto dei Red Hot Chili Peppers?””.
Come scorre la sua vita in mezzo a tutto questo silenzio?
“Diversa ogni giorno. È come stare sulla torre di controllo di un aeroporto: momenti di noia mortale, momenti di terrore assoluto. A volte la barca è piena di pesci, a volte sei in cerca della tua fede nuziale in fondo all’oceano, a volte il vento soffia così forte che quasi ti strappa la pelle dal viso, a volte sorseggi un limonata sul bordo della piscina. Qualche volte si fa festa, altre volte c’è carestia: in mezzo il nulla. A volte, come diciamo noi americani per dire che diluvia, piovono cani e gatti, altre volte anche tori, mucche e topi. E qualche volta la mia vita galleggia su un petalo di giglio”.
Fa un certo effetto vedere insieme due leggende della musica del ‘900: Edgar Varèse (sin.) e John Cage (centro) con il percussionista Max Neuhaus (des.) in una foto ormai sgranata pubblicata sul New York Times (September 1, 1963).
Io non sono un fan della musica minimale, però questo Piano phase di Steve Reich del 1967 è importante e coinvolgente. Si tratta del primo brano totalmente strumentale in cui Reich utilizza la tecnica del phasing, fino ad allora usata solo in elettronica.
Il phasing può essere descritto semplicemente come il suonare due frasi identiche con una leggera differenza metronomica (l’una appena più veloce dell’altra). Di conseguenza le due frasi dapprima suonano all’unisono. Poi, quando la differenza è ancora molto piccola, si ha una strana percezione, come se le note si allungassero o avessero un riverbero. In seguito la differenza diventa chiaramente percepibile: la melodia si sdoppia anche come numero di note (2 note nel tempo di una). Infine la melodia ritorna in fase, ma mentre un pianista suona la prima nota, l’altro suona la seconda: abbiamo così dei bicordi al posto dell’unisono iniziale.
In questo brano il processo continua attraverso vari stadi di fase e controfase, fino a quando i due pianisti sono sfasati al punto in cui la prima nota dell’uno si sovrappone all’ultima dell’altro. Così una frasetta di 12 note genera un brano di circa 20 minuti.
Fino ad oggi, il brano era per due pianoforti e due pianisti in primo luogo perché le note sono le stesse e in secondo luogo perché, pur essendo la frase molto facile, sembrava impossibile che una persona sola potesse suonarla a due velocità di poco diverse. Invece in questa esecuzione dell’ottobre 2006, il russo Peter Aidu fa tutto da solo, creando i due flussi sonori con le due mani su due pianoforti (e candidandosi per il premio schizo – scherzi a parte, quello che fa è neurologicamte pazzesco, anche perché, mentre i due pianisti usano entrambi la destra, lui non può).
More in this Internet Archive page.
Steve Reich – Piano phase (1967) – Peter Aidu, 2 pianos
Download mp3.
Minoru Miki – Marimba Spiritual (1983/84) for marimba and three percussionsists
Marimba: Li Xiaohong
Percussion: Kong Yuci, Wu Sihan, Zhang Weilun
Disgraziani fa parte dell’onda iconoclasta del 1982, quando improvvisavamo, Zoo Zorzi ed io, sezionando e distruggendo tutte le strutture melodico/armoniche che ci capitavano sottomano.
Nella presentazione in concerto, infatti, dicevo: “il brano inizia con dei bei suoni di chitarra con arco, che io elaboro facendoli diventare via via sempre più brutti, fino a quando assomigliano solo a disturbi radio”, esternando l’intenzionalità distruttiva.
Ovviamente, nel corso di questa azione altre strutture emergevano, si formavano e scomparivano. Qualcuna riusciva anche a farsi largo ed esistere, come accade per l’arpeggio finale (vedi schema tecnico nell’immagine sotto; partite dalla bolla verde e procedete in senso orario).
I nostri pezzi, quindi, erano pieni di spettri e di presagi, fantasmi di un passato o rovine su cui costruire qualcosa.
Questa registrazione è proprio quella della prima esecuzione che si è tenuta in una galleria d’arte, intorno al 10 Giugno del 1982 (anche questo per alcuni è un presagio).
Mi dà una strana sensazione pensare che, nel 2022, Disgraziani compirà 40 anni. Ascoltandolo adesso, lo trovo melodico. Come diceva Cage, tutto, prima o poi, è destinato a diventare melodico.
Il titolo è frutto della mente bacata di Zoo :). Le nostre prove erano costituite da improvvisazioni totali, senza alcun accordo preliminare, che venivano registrate. Poi, riascoltando, lui diceva “che pacco, questo” e io dicevo “allora lo suoniamo in concerto”. La nostra misura della validità dei brani era quanto potevano essere temibili per l’ascoltatore.
Poi chiedevo “come lo intitoliamo, questo?” e quella volta Zoo rispose
Disgraziani!, quello che ci dirà la gente…
Graziani/Zorzi – Disgraziani! (1982) – Free improvised music by Mauro Graziani synth, electronic devices, loop control & Roberto ‘Zoo’ Zorzi electric guitar, devices