La vita nella guerra fredda – Novaya Zemlya

novaya zemlya
La curiosità è l’unica cosa che non mi è mai mancata. Le prime volte che andavo in Russia, per esempio, mi chiedevo spesso cosa diavolo c’era a Novaya Zemlya.
Questo grosso ‘isolone’ (circa 90.000 Kmq, con il punto rosso in figura), il cui nome (Но́вая Земля́) significa “nuova terra” (l’ennesima “terranova”), è piazzato per la sua intera superficie oltre il Circolo Polare Artico, fra la costa della Siberia e la banchisa polare, ed è in realtà un arcipelago formato da due isole principali chiamate, con la solita grande fantasia, Се́верный (severny = settentrionale) e Южный (yuzhny = meridionale). Però le due isole sono così vicine e le coste coincidono in modo tale che è difficile considerarle separate.
Sono divise solo da una sottile linea d’acqua, una sorta di fiume marino che attraversa l’isola da parte a parte, lo stretto di Matochkin (Ма́точкин Шар), che mette in comunicazione il mare di Barents e il mare di Kara, entrambi luoghi topici durante quella guerra mai combattuta apertamente, teatri di innumerevoli operazioni ufficialmente mai esistite.
Così, quando chiedevo a qualcuno cosa diavolo c’era a Novaya Zemlya, i miei amici mi ammonivano a non fare troppe domande, aggiungendo, con un tono più o meno scherzoso, che, di questo passo, prima o poi lo avrei visto di persona, con un biglietto di sola andata.
rompighiaccioUfficialmente, all’epoca, sull’isola si trovavano soltanto due insediamenti, Krasino sull’isola meridionale, e Matočkin’šar’ su quella settentrionale, nonché il centro amministrativo di Belushya Guba, con l’annessa base aerea di Rogachevo, in cui viveva la maggior parte degli abitanti dell’isola (meno di 3000 – qui il sito della base con molte foto stupende dal punto di vista naturalistico,ma anche affascinanti per l’isolamento dei luoghi, come in questa immagine invernale di un rompighiaccio in arrivo).
In realtà, Novaya Zemlya è stata dal 1954 uno dei principali siti dei test nucleari sovietici.

Qui sono esplose circa 130 bombe nucleari, di cui 88 nell’atmosfera, 39 sottoterra e 3 sott’acqua. Qui è esplosa anche la più potente bomba atomica mai costruita, la cosiddetta Tsar Bomba, un ordigno la cui potenza è stata stimata in 57 megatoni (circa 3000 bombe di Hiroshima), ma che in origine aveva una potenza doppia (100 megatoni: 6000 bombe di Hiroshima), ridotta in fase di test per evitare un fallout radioattivo eccessivo.
È stato calcolato che se una simile bomba fosse stata lanciata su Londra avrebbe distrutto ogni cosa nel raggio di 30 km (l’intera città e i sobborghi) e incendiato tutto ciò che si fosse trovato entro 90 km dal luogo dell’esplosione.
La bomba fu sganciata il 30 ottobre 1961 alle ore 8:33 da un aereo ad alta quota nella baia di Mityushikha e fu fatta esplodere a 4000 metri dal suolo con l’ausilio di un gigantesco paracadute finalizzato a frenarne la caduta e quindi a consentire al velivolo di allontanarsi indenne.
La nube a fungo risultante dall’esplosione raggiunse un’altezza di 60 km, l’onda d’urto fece tre volte il giro del mondo (impiegando per il primo circuito 36 ore e 27 minuti) e il lampo dell’esplosione risultò visibile ad oltre 1000 km di distanza. Ci fu anche un black out delle comunicazioni radio di circa 40 minuti in tutto l’emisfero settentrionale (provate a pensarci: un black out radio di 40 minuti sull’intero emisfero).
Tuttavia, contrariamente a quanto si può pensare, fu una delle esplosioni atomiche più “pulite” in quanto trasse oltre il 97% della sua potenza dalla fusione nucleare (qui potete vedere un filmato dell’esplosione da You Tube).
Il risultato di tutti questi test è che l’isola è costellata di basi, stazioni di controllo, tunnel per le esplosioni sotterranee e altri insediamenti che oggi diventano visibili anche alle persone comuni grazie a Google Earth.
Da questa pagina di wikimapia potete accedere a tutti questi luoghi un tempo segreti, oggi ampiamente documentati.

I remember you well, in Chelsea Hotel…

chelsea hotel
…così inizia la canzone in cui Leonard Cohen ricorda la sua (breve) storia con Janis Joplin.
Ma la lista degli artisti che hanno abitato questo storico edificio al 222 West della 23ma strada è sterminata.
È il luogo in cui Dylan Thomas morì alcolizzato il 4 novembre 1953, Arthur Clarke scrisse 2001 Odissea nello Spazio, Allen Ginsberg e Gregory Corso si scambiarono idee e poesie, Sid Vicious accoltellò la sua girlfriend, Nancy Spungen, il 12 ottobre 1978 e Charles R. Jackson, autore di The Lost Weekend (portato in film da Billy Wilder: Giorni Perduti) si suicidò il 21 settembre 1968.
Ma è anche il luogo in cui vissero e scrissero persone come Mark Twain, William S. Burroughs, Arthur Miller, Gore Vidal, Tennessee Williams, Jack Kerouac, Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre, Thomas Wolfe, Patti Smith, Virgil Thomson, Dee Dee Ramone, John Cale, Édith Piaf, Joni Mitchell, Bob Dylan, Jimi Hendrix, Richard Hell (e anche il sottoscritto per circa un mese :mrgreen: ).
Ci abitò la troupe di Andy Warhol quando girava The Chelsea Girls (1966) e qui vissero, spesso pagando i conti con quadri o foto, artisti come Christo, Arman, Richard Bernstein, Ralph Gibson, Robert Mapplethorpe, Frida Kahlo, Diego Rivera, Robert Crumb, Jasper Johns, Claes Oldenburg, Vali Myers, Donald Baechler, Willem De Kooning e Henri Cartier-Bresson.
“A rest stop for Rare Individuals”, così, a buon diritto, recita il sito del Chelsea Hotel per cui, però, sembra ormai giunta la fine. La famiglia Bard (attualmente rappresentata dal 72enne Stanley e da suo figlio David) che lo amministrava con illuminata magnanimità dal 1946, rifiutandosi di cedere alla logica degli alti prezzi degli alberghi di Manhattan è stata estromessa dal consiglio di amministrazione, che ha affidato il timone dell’hotel a un team reduce dalle ristrutturazioni di tre alberghi extralusso.
Così la storia di un hotel del quale The New York Times Book Review ha scritto che

si può considerare uno dei pochi luoghi civilizzati della città, se per civiltà si intende la libertà dello spirito, la tolleranza delle diversità, la creatività e l’arte

potrebbe finire, sacrificata sull’altare del libero mercato, diventando un luogo frequentabile solo da star extralusso che di storia non ne hanno e nemmeno la fanno.
In questo caso, il Chelsea Hotel potrebbe diventare solo un territorio dello spirito, come è stato per il Beat Hotel, leggendario centro della beat generation a Parigi, che ormai non esiste più. Ora al numero 9 di rue Git-le-Coeur è situato lo sciccoso Relais-Hotel du Vieux Paris.

UFO!

kenneth arnoldIeri, 24 giugno, era il 60° anniversario del primo avvistamento UFO dell’era moderna: quello di Kenneth Arnold (a sin.), dopo il quale, nel giro di poche settimane, si scatenò una serie di centinaia di avvistamenti negli Stati Uniti, ma anche in altri stati, che culminarono, il 2 luglio 1947, nel famoso Incidente di Roswell.
In realtà tutta questa faccenda resta uno dei grandi enigmi del secolo scorso, tema di innumerevoli racconti, film, serie televisive (vedi X-Files) e sempre in dubbio fra realtà, fantasia e ipotesi di complotto (vedi la storia del Majestic-12 di cui parleremo).

Il 24 giugno del 1947, Kenneth Arnold, un ricco uomo d’affari americano, raccontò di avere visto dal proprio aereo privato, senza identificarli, nove oggetti simili a dischi volanti librarsi in formazione serrata vicino al monte Rainer, nello stato di Washington. Questo avvistamento portò all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il fenomeno UFO, dando vita all’ufologia. In realtà si trattava, probabilmente, di nove aerei ad ala volante della Northtop, vincolati al silenzio radio e radar e senza insegne militari, che venivano collaudati a quei tempi nei dintorni di Seattle, vicino a dove oggi giorno si trovano le fabbriche della Boeing.

Brevemente, dopo il suo avvistamento, Arnold atterrò a Yakima (Washington), dove fece un normale rapporto all’Amministrazione dell’Aeronautica Civile. Quando sulla via del ritorno si fermò a Pendleton, Oregon per far rifornimento, raccontò la sua storia ad un gruppo di ascoltatori curiosi fra cui vi erano anche dei giornalisti. Diversi anni più tardi Arnold disse ai giornalisti che “il loro moto era irregolare, come un piattino lanciato sull’acqua”, da cui fu coniato il termine di “flying saucer” (letteralmente “piattini volanti”). Un altro termine con cui vengono più comunemente descritti gli oggetti che Arnold vide è “dischi volanti” (o semplicemente “dischi”). Arnold sostenne di essere stato frainteso in quanto la descrizione che aveva fornito era riferita al movimento degli oggetti piuttosto che al loro aspetto.
In ogni caso la vera forma descritta da Arnold era molto complicata. Subito dopo il suo avvistamento, egli descrisse gli oggetti come sottili e piani, arrotondati nella parte anteriore ma tagliati nella parte posteriore e terminanti con due punte, più o meno come un piattino o un disco. Per esempio, in un’intervista rilasciata alla radio due giorni dopo l’avvistamento, egli li descrisse come “qualcosa come un piatto da torta che è stato tagliato a metà con una specie di un triangolo convesso nella parte posteriore”. Nella storia pubblicata lo stesso giorno, venne riportata la seguente citazione: “Avevano la forma di piattini ed erano così sottili che potevo vederli a mala pena”. Il giorno seguente nel Portland Oregon Journal, la citazione di Arnold fu “Avevano l’aspetto di mezzelune, ovali davanti e convesse dietro. … sembravano dei grandi dischi piatti”.

In seguito a questo avvistamento e ai successivi, l’aeronautica americana dette il via a un progetto di ricerca per accertare la reale natura di tali casi.
Il primo, partito alla fine del 1947 fu il cosiddetto Project Sign che, sebbene ufficialmente non arrivasse a nessuna conclusione, in base a quanto dichiarato dal capitano Ruppelt (di cui parleremo), giunse invece ad affermare che gli UFO non erano aerei di costruzione terrestre. Quando, però, questa stima arrivò al Pentagono, fu dichiarata inconsistente e il progetto venne chiuso alla fine del 1948.
Il successore di Sign fu il Project Grudge che, a quanto sembra, aveva un mandato di debunking (atteggiamento scettico al fine di arrivare a una smentita) ed effettivamente la sua conclusione riportava la maggior parte dei casi a fenomeni naturali o oggetti volanti conosciuti, sebbene un 23% rimanesse senza spiegazione.

E così si arriva alla fine del 1951, quando parecchi generali USAF, scontenti per lo stato delle ricerche, chiusero Grudge, dando il via al famosissimo Project Blue Book all’inizio del 1952 (il nome si ispirava ai libretti blu in cui venivano riportati i risultati degli esperimenti nelle università).
Il già citato capitano Ruppelt fu il primo direttore del progetto e fu lui a coniare l’acronimo UFO (unidentified flying object), più neutro e scientifico dei vari piattini volanti e simili.
Lo sforzo di Ruppelt era teso ad affrontare il problema in maniera scientifica, uniformando il modo in cui venivano stesi i rapporti, creando un questionario standard che gli avvistatori dovevano completare e schedando il tutto in forma rigorosa per rendere possibile una analisi statistica, arrivando infine a pubblicare il Project Blue Book Special Report No. 14 (1951) le cui conclusioni erano che, su 3200 casi esaminati, il 68% era spiegabile, nel 9% non c’erano sufficienti informazioni e il 22% doveva essere considerato inspiegabile.
In fondo, il risultato era simile a quello di Grudge, ma l’innovazione di Ruppelt fu di classificare anche la qualità della documentazione degli avvistamenti da eccellente a povera. Ebbene, risultò che ben il 35% dei casi con documentazione eccellente risultavano inspiegabili contro il 18% di quelli con documentazione povera, contrastando le teorie degli scettici che affermavano che l’assenza di una spiegazione era dovuta alla povertà della documentazione.

Nel 1952, dopo una serie di avvistamenti sia visivi che radar intorno all’aeroporto di Washington, la CIA creò un gruppo di scienziati guidati dal Dr. Robertson (fisico del Caltech) per indagare.
Vista l’origine, non sorprende che il gruppo arrivasse alla conclusione che il fenomeno era un falso, forse appositamente costruito per mascherare le vere minacce al sistema difensivo USA o per minare la fiducia della gente nel governo. Essi suggerirono di iniziare una vasta campagna di smentite nonché di ridicolizzare l’intera faccenda attraverso i media coinvolgendo anche compagnie cinematografiche come Walt Disney.
Nei dicembre del 1953, per esempio, fu proibito al personale militare di parlare ai media di UFO e la documentazione venne classificata. Nello stesso tempo le risorse destinate al Blue Book vennero via via ridotte e l’autonomia del gruppo limitata fino a quando, nel 1954, Ruppelt venne sostituito dal capitano Hardin con l’ordine di ridurre al minimo il numero degli avvistamenti inspiegabili. Nel 1956, infatti, gli UFO erano scesi dal 22% a meno dell’1%.
Questa situazione continuò a peggiorare con il capitano Gregory, direttore dal ’56 al ’58. I casi definiti “possibili” UFO divennero “probabili” e l’attività investigativa piombò a zero.

L’atteggiamento di basso profilo venne mantenuto anche con i successivi direttori (maggiori Friend e Quintanilla) e negli anni ’60 l’iniziativa in questo campo passò nelle mani dei media e delle organizzazioni non governative, spesso sostenute anche da personalità di spicco, come l’astronomo Allen Hyneck (che a volte, però, si lasciavano prendere la mano dalla notorietà).
L’interesse dei media, comunque, ravvivò la discussione sul problema portandola fino al Congresso e sollevando aspre critiche alla gestione dell’affare. Fortunatamente negli USA le leggi sulla declassificazione dei documenti governativi esistono e sono applicate per cui, dopo un certo tempo (circa 20 anni, ma cambia in base al livello di segretezza) le carte devono essere messe a disposizione del pubblico e i media possono così esaminarle.
Ciò nonostante, il Progetto Blue Book venne infine chiuso il 30/01/1970 e la documentazione venne trasferita alla Maxwell-Gunter Air Force Base in Alabama, un luogo “accessibile ma non troppo”.
L’atteggiamento attuale della USAF è che non esiste nessuna prova che identifichi i casi definiti inspiegabili come causati da attività extra-terrestre.

In realtà questa faccenda è un vero casino perché si incrocia anche con documenti che sembrano suggerire ipotesi di insabbiamento, come quella del Majestic-12, un comitato apparentemente creato nel 1947 dal presidente Truman allo scopo di nascondere la verità sugli UFO o quella della vera funzione dell’Area 51 o ancora l’affaire Bob Lazar.

In quanto all’opinione del sottoscritto, lasciatemi dire che mi piacerebbe tanto che questi maledetti extra-terrestri dessero una prova della loro presenza, ma che comincio a disperare, anche perché, da buon egocentrico, penso che se veramente esistessero avrebbero sicuramente cercato di mettersi in contatto con ME! 8)

NB: buona parte di questa storia è tratta da wikipedia, versioni italiana e inglese

La prima macchina musicale (forse)

colosso di memnone
L’idea di costruire una macchina in grado di riprodurre la musica è sempre esistita.
La prima macchina “musicale” di cui abbiamo notizia è la colossale statua di Memnone a Tebe, costruita intorno al 1500 AC. In realtà si tratta di due statue gemelle che rappresentano il faraone Amenhotep III (XV secolo AC) in posizione seduta, con le mani sulle ginocchia e lo sguardo rivolto a est, verso il fiume e il sole nascente. Solo una di esse, però, era sonora.
Il nome con cui sono tuttora conosciute queste statue, Colossi di Memnone, fu coniato dagli storici greci, che le associarono all’eroe mitologico.

Memnone, infatti, è un personaggio omerico: re etiope, figlio dell’Aurora e di un principe troiano, accorse in aiuto di Troia e perì sotto le sue mura per mano di Achille.
Nell’immaginazione dei visitatori di età classica, l’eroe raffigurato nella statua salutava la madre (Eos dea dell’alba) con un suono come di corde di cetra che si spezzassero. La cosa è stata spiegata con la presenza, nella quarzite in cui è intagliata la statua, di cristalli, i quali in un certo qual modo si assestavano in seguito alla differenza di temperatura, veramente notevole in quella zona, tra la notte ed il giorno. [ipotesi del prof. Barocas].
Dopo un restauro, effettuato in epoca romana per volere dell’imperatore Settimio Severo, nel 199 d.C. i suoni cessarono di essere udibili.

tratto dalla mia dispensa dedicata alla Cronologia della Tecnologia Audio e della Musica Elettroacustica.

…Amo l’immensa superficie del silenzio

If music were to assume human form and explain its essence, it may say something like this: “…I love the vast surface of silence; and it is my chief delight to break it.”

Se la musica potesse assumere forma umana e spiegare la propria essenza, direbbe qualcosa come: “…Amo l’immensa superficie del silenzio; e il mio principale piacere consiste nell’interromperla”. [trad. mia]

Carl Nielsen (1865-1931), compositore danese
from The Rest is Noise

La citazione, tratta dal blog di Alex Ross, è molto bella e poetica, ma io non la condivido. È inconsistente. Sono solo belle parole messe in fila.
Prima di tutto perché ripropone l’antica contrapposizione fra suono e silenzio, che Cage ha mostrato essere illusoria.
Finché c’è un mezzo che trasporta il suono, il silenzio, infatti, non esiste. Cage racconta la parabola della camera anecoica nella quale, chiuso in una stanza ermetica al suono, egli cominciò a sentire i suoni prodotti all’interno del proprio corpo: il basso hum della circolazione sanguigna e il beep del sistema nervoso.
Allora qualcuno ha tentato di risolvere l’impasse affermando che dove c’è vita c’è suono, ma nemmeno questo è vero. Nel deserto più deserto possibile, la sabbia si riscalda e poi si raffredda emettendo un leggerissimo sibilo e una quantità di altrettanto flebili crick. E i deserti di ghiaccio sono ancora più rumorosi.
Bisogna andare fuori da qualsiasi atmosfera per trovare il silenzio, ma qui nemmeno la musica ha spazio. Il suono e quindi il non-silenzio è la condizione perché la musica esista.
Allora la musica non emerge dal silenzio, può solo emergere dalla non musica. Quindi la musica è suono organizzato, come affermava Varèse?
Forse, ma organizzato da chi? O da cosa? Il vento che soffia fra due montagne in una valle dimenticata o il disgelo della Dvina sentito dall’alto di una collina producono della musica coerente, che trova in sé stessa la propria giustificazione e arriva a degli estremi di dolcezza e di forza con cui le nostre composizioni non possono nemmeno competere…

Se ne è accorto perfino Bob Dylan:
Lay down your weary tune, lay down, Lay down the song you strum
And rest yourself ‘neath the strength of strings, No voice can hope to hum
The ocean wild like an organ played, The seaweed wove its strands
The crashing waves like cymbals clashed, Against the rocks and the sand

L’isola di Hashima

 

L’isola di Hashima (端島 trad. qualcosa come isola di confine o isola del bordo), chiamata anche Gunkanjima (軍艦島 trad. isola nave da guerra, a causa delle coste cementate e la forma), è una delle 500+ isolette disabitate nei pressi di Nagasaki, nella parte sud-ovest del Giappone.
Il fatto è che, invece, fino al 1974, era uno dei luoghi a più alta densità abitativa del globo. L’isola fu acquistata dalla Mitsubishi nel 1890, con l’idea di scavarvi una miniera di carbone.
Nel 1916 vennero costruiti gli alloggi per i lavoratori e la miniera venne sfruttata fino al 1974. Nel 1959 la popolazione raggiunse i 5000 abitanti circa, cioè 835 abitanti per ettaro, che equivalgono alla pazzesca densità di 83500 ab. per Km2 (1 ettaro = 0.01 Km2; per confronto, la regione italiana con la densità maggiore è la Campania: 421 ab./Km2).
Il verde era quasi completamente scomparso dall’isola, tanto che qui venne girato il film Midori Naki Shima (The Greenless Island, 1949). Un altro famoso (in Giappone) film ambientato in Gunkanjima è il recente seguito di Battle Royale: Battle Royale II, The Requiem (2003).
Negli anni ’60, poi, iniziò il declino del carbone e l’isola venne gradualmente abbandonata, fino alla sua chiusura definitiva nel 1974 (chiusura anche a qualsiasi tipo di visita perché pericolosa: io l’ho visitata a suo tempo approfittando del caos creato da una manifestazione di Greenpeace).
Stranamente, non è stata fatta nessuna riconversione. Gli edifici sono stati abbandonati all’usura del tempo e sono ormai dei ruderi spettrali che stanno assumendo un valore di archeologia industriale al punto che il governo pensa di riaprirla (una decisione era attesa per Aprile, ma non ne so niente).
Trovate delle belle foto qui.

 

Beethoven in Morse

Qualcuno ricorda il codice morse? Quella serie di beep – beep – beeeeeep (punto – punto – linea) usata nelle telecomunicazioni per 160 anni, fino al suo definitivo pensionamento negli anni ’90?
Andate a vedervi questa simpatica animazione che gioca sul mettere in morse Beethoven. Cosa, peraltro, che ha un riferimento storico perché, durante la 2a guerra mondiale, le trasmissioni della BBC dirette alla Francia occupata iniziavano con le prime 4 note della 5a perché il famoso fa-fa-fa-re era punto-punto-punto-linea che in morse era V, come victory.

OK

Da un po, ormai, gira in rete una mail del tipo “non tutti sanno che” in cui si attribuisce con certezza l’etimologia di “OK” ai bollettini della guerra di secessione, nei quali sembra si scrivesse “0K” per “zero killed”, notizia positiva che significava che, nell’ultima azione, nessuno dei nostri ci aveva rimesso la pelle.
A riprova che l’universo non è mai user-friendly, questa storia è ben lontana dall’essere una verità certa, ma è solo una fra una moltitudine di ipotesi.
Riporto quanto affermato da wikipedia.

La prima apparizione certa dell’acronimo, nella forma “o.k.”, risale al 23 marzo 1839 nel “Boston Morning Post”.

A dispetto della sua diffusione universale, non vi è la benché minima concordanza sulla possibile origine della locuzione. Ecco alcune delle ipotesi più comuni:

  • potrebbe derivare dalla lingua dei Choctaw, una popolazione nativa americana, dove figurava la parola “okeh” con la stessa pronuncia e lo stesso significato
  • secondo un’altra opinione, starebbe per “Oll Korrect”, cioè “all correct” scritto deliberatamente in modo sbagliato per enfatizzarne il significato
  • in lingua Bantu “uou-key” (trascrizione fonetica) sta per “certamente sì”: l’espressione potrebbe così essere filtrata dalla lingua degli schiavi africani nell’uso americano
  • prima delle elezioni presidenziali del 1840 a New York venne fondato l’O.K. Club, un circolo di sostenitori del presidente democratico Martin Van Buren, il cui nome alludeva a “Old Kinderhook”, nomignolo del presidente dal suo luogo di nascita, Kinderhook, New York
  • durante la Guerra di secessione americana, nei bollettini dal fronte, sarebbe stata usata l’abbreviazione 0K, cioè “zero (che si può anche pronunciare “O”) killed”, “zero uccisi”
  • alcuni sostengono che OK sia semplicemente il contrario di KO, assegnandogli conseguentemente il significato opposto
  • innumerevoli sono le teorie che riconducono la locuzione all’acronimo di un nome proprio, solitamente di una persona preposta al controllo di prodotti, trattative, contratti, elenchi o simili.

Nostalgia

Secondo voi poteva Ulisse provare nostalgia di Itaca?
La risposta è decisamente no! Al massimo aveva voglia di tornare a casa.
Contrariamente alla nostra intuizione, infatti, la nostalgia è stata codificata dalla medicina, non dalla poesia.
La parola, che è una commistione del greco νόστος (ritorno) e άλγος (dolore), apparve per la prima volta nel 1688 in una dissertazione medica di Johannes Hofer, uno studente svizzero che ha coniato il termine per descrivere “il sentimento di tristezza che deriva dal desiderio di tornare alla terra natia” (Hofer suggerì altri due termini per descrivere la sindrome: nosomania and philopatridomania).
Fra i primi a vedersi diagnosticare questa nuova “malattia” furono ragazzi della Repubblica di Berna che studiavano a Basilea, domestici e servitori svizzeri che lavoravano in Francia e in Germania e soldati spostati qua e là per il paese.
Secondo Hofer, la nostalgia esauriva lo “spirito vitale”, causando nausea, perdita di appetito, danni ai polmoni, infiammazione cerebrale, arresto cardiaco, febbre alta, marasma e propensione al suicidio.

Svetlana Boym scrive

Every language now has a special word for homesickness that its speakers claim to be untranslatable–the German Heimweh, the French maladie du pays, the Spanish mal de corazón. Czechs have the word litost,which means at once sympathy, grief, remorse, and indefinable longing. The whispering sibilance of the Russian toska, made famous in the literature of exiles, evokes the claustrophobic intimacy of the crammed spaced whence one pines for the infinite. The same stifling, almost asthmatic sensation of deprivation can be found also in the shimmering sounds of the Polish tesknota, which adds a touch of moody artistry unknown to the Russians, who are enamored of the gigantic and the absolute. The Portuguese and the Brazilians have their suadade, a tender sorrow, breezy and erotic — not as melodramatic as its Slavic counterpart yet no less profound and haunting. Romanians claim that dor, sonorous and sharp like a dagger, is unknown to other nations and speaks specifically of a Romanian dolorous ache. Although each term hews to the specific rhythms of its language, all these untranslatable words are, in effect, synonyms, but synonyms that share a desire for untranslatability, a longing for uniqueness.
Svetlana Boym. ‘Paradise Misplaced.’ Harper’s. March 2001 vol 302 no. 1810