Veer (2012), an installation by Adam Fure and Ashley Fure
Ashley Fure, Sound and Interaction Design
Adam Fure, Architectural Design
Batting, Custom Steel Branching System, Pressure Sensors, LEDs, Speakers, Computer, and Control Software
In Veer, created with architect Adam Fure, swaths of cotton batting wrap a branching steel structure to create a soft, interior sleeve for a room. Participants navigate tunnels and alcoves, activating speakers and LEDs embedded in the material walls as they move. Sensors disaggregate the musical form into gestural components, linked to locations, that elide into dramatic phrases through movement. Sonic, visual, and proprioceptive cues align into fused, synesthetic emphases. Gradations in color and ceiling height are mapped to acoustic shifts in register, spectral density, and gestural shape. High blanched walls project soft white noise while cramped regions thick with color screech out multiphonics. In Veer, space and matter are charged with an expressive force let loose through movement.
Veer is a multimedia installation that transforms space, sound, and light into variable dimensions of an experiential field. A base of polyester batting wraps a branching steel structure creating a soft, interior sleeve comprised of tunnel-like folds. Participants bend and push through saturated matter, pulling sound and light from sensors embedded in the material walls. In Veer, space provokes movement, movement provokes sound, and engaged participants instigate an emergent perceptual form.
Veer was funded and exhibited by Akademie Schloss Solitude in Stuttgart, Germany.
The ‘320° Licht’ installation of URBANSCREEN uses the cathedral-like beauty of the Gasometer as the starting point for a fascinating game with shapes and light.
Within a radius of 320 degrees graphic patterns grow and change on the 100-metre high inside wall of the Gasometer.
The observer experiences the interplay between real and virtual space, in which the Gasometer seems to dissolve into its own, filigree structures and yet finally always reverts to its clear shape. ’320° Licht’ has been achieved with kind project support from Epson Germany.
With approx 20,000 square meters of area played upon, the installation is among the world’s largest and technically most sophisticated interior projections – interconnecting 21 powerful projectors to one projection screen.
Duration (loop): approx. 22 min.
‘320° Licht’ is part of the exhibition ‘The Appearance of Beauty’ – the variety of beauty in art that is shown inside the Gasometer. The Gasometer Oberhausen opens this exhibition from 11th April until 30th December.
Interessante idea quella del giardino verticale (chiamato anche living wall o Mur Végétal in francese). Si può incrementare drasticamente la quantità di verde senza occupare spazio al suolo.
Lo specialista e inventore di questa configurazione botanica è Patrick Blanc.
Però mi chiedo come possano lavorare i giardinieri. Serve qualche gru, o forse si calano come i lavavetri?
Questo post è la revisione di uno del 2006. Mi sembra che, essendo Myers non molto noto, sia il caso di parlarne ancora.
David Lee Myers è un compositore che si trova nella scomoda situazione di essere sconosciuto al grande pubblico perché non fa “pop” e sconosciuto agli accademici perché i suoi lavori non si inseriscono nella tradizione “colta”. Però è conosciuto dagli sperimentatori a oltranza, da quelli che non si accontentano di ri-elaborare delle idee maturate nell’ambito di una corrente, quelli un po’ scontenti e un po’ solitari che regolarmente disfano quello che hanno appena fatto per il gusto di ricominciare da capo.
Nel 1988 affermava che
True electronic music does not imitate the classical orchestra or lend well worn melodies the cloak of unexpected timbres – it exists to evoke the hitherto unknown. And it comes from circuits and wires, though I do not believe that electronic sound is “unnatural”, as some people might.
La vera musica elettronica non imita l’orchestra classica e non presta un mantello di timbri inattesi a melodie ben formate – essa esiste per evocare ciò che fino ad ora è sconosciuto. E nasce da circuiti e cavi, ciò nonostante io non credo che il suono elettronico sia così “innaturale” come qualcuno pensa.
Proprio queste considerazioni hanno condotto D. L. Myers alla pratica di una musica estrema, quasi totalmente priva di input: niente partitura, nessuna tastiera, nessun suono da elaborare, nessun sistema di sintesi propriamente detto. Una musica in cui sia i suoni che le strutture non nascono dalla pressione di un tasto o dal fatto che qualcuno mette giù un accordo, ma dall’interazione spontanea di una serie di circuiti collegati fra loro in retroazione che l’essere umano si limita a controllare.
Al massimo l’input viene utilizzato solo come sorgente di eccitazione per il circuito di feedback.
Quello che Myers faceva, già nel 1987 con apparecchiature analogiche, era feedback music.
Il feedback positivo in una catena elettroacustica è stato sperimentato, con fastidio, da chiunque abbia usato un microfono e lo abbia inavvertitamente puntato verso gli altoparlanti. In breve si produce un fischio lancinante, mentre i tecnici si lanciano verso il mixer per abbassare il volume.
Questo problema, più conosciuto come Effetto Larsen, si verifica perché il microfono capta dei suoni che vengono amplificati e inviati all’altoparlante. Se gli stessi suoni, in uscita dall’altoparlante, vengono nuovamente captati dal microfono, amplificati e ri-inviati all’altoparlante, si crea una retroazione positiva tale per cui entrano in un circolo chiuso in cui vengono continuamente amplificati fino ad innescare un segnale continuo a forte volume.
Come si può immaginare, il feedback è un po’ il terrore di tutti i tecnici del suono, ma in determinate circostanze può essere controllato e se può essere controllato, può anche diventare uno stimolo per uno sperimentatore.
Bisogna puntualizzare che non si tratta di una idea di Myers. Ai tempi della musica elettronica analogica questo effetto è stato utilizzato in parecchi contesti. Anch’io ne ho fatto uso in una installazione del 1981 (si chiamava “Feedback Driver”, appunto), ma credo che negli anni ’80 l’abbiano provato un po’ tutti, con alterni risultati. I miei primi ricordi relativi a questa tecnica risalgono al lavoro di Tod Dockstader, un ricercatore e musicista americano relativamente poco noto, anche se alcune sue musiche sono finite nel Satyricon di Fellini.
Quello che distingue Myers dagli altri, però, è l’averne fatto una vera e propria poetica. Lui non sfrutta il feedback per elaborare qualcosa, non parte da algoritmi di sintesi, ma collega in retroazione una serie di dispositivi (principalmente mixer e multi-effetti) e variando i volumi sul mixer (che a questo punto diventa la sua “tastiera”) e cambiando tipo e profondità degli effetti ne trae una serie di sonorità suggestive, sempre in bilico fra il fascino di una musica che si muove in modo quasi biologico e il totale disastro delle macchine fuori controllo.
Senza dubbio, Myers è un virtuoso, ma, a differenza del virtuoso tradizionalmente inteso, lui non domina il proprio strumento. Piuttosto lo asseconda, cercando di spingerlo in una direzione. Qui la composizione consiste nel definire una rete di collegamenti fra i dispositivi e la tecnica si fa estetica.
Inoltre, come si vede in questo breve video, Myers si fa anche artista visuale elaborando una serie di tracce create dalla sua stessa musica.
Questo divertente video ha vinto un tot di premi. Non è particolarmente innovativo, se non nel metodo utilizzato per crearlo. Certo che, se è veramente in stop motion come sembra (ovvero un fotogramma alla volta, come nei vecchi cartoon), questi hanno lavorato un bel po’…
Un altro video da Possible Metrics (Renaud Hallee) di cui abbiamo già pubblicato Sonar.
Come nel precedente, immagine e suono sono strettamente collegati (si fa prima a vederlo che a descriverlo). Anche qui, comunque, la struttura dell’insieme è piuttosto elementare, basata sulla corrispondenza diretta fra evento acustico e visivo. In questo caso, però, la semplicità è un pregio perché rende il tutto immediatamente percepibile senza bisogno di cercarci dentro chissà quali analogie strutturali. Di conseguenza il video è godibile, anche se al sottoscritto un maggiore tasso di sperimentazione non dispiacerebbe.
Katarzyna Kijek e Przemysław Adamski sono animatori polacchi che inseriscono elementi di animazione in riprese vere e proprie creando un gioco di immaginazione strettamente legato al suono.
La loro tecnica è quella dell’ormai desueta stop motion in cui viene impressionato un fotogramma per volta muovendo gli oggetti animati fra uno scatto e l’altro. Dico desueta perché la stop motion, largamente in uso un tempo, è stata ormai sostituita quasi completamente dalla grafica computerizzata. Kijek e Adamski, invece, riescono ancora a trarne situazioni di grande suggestione dove la connessione con il suono è evidente e ricca.
5000 campanelli da bicicletta compongono questa installazione sonora di Ronald van der Meijs (o, forse, componevano, visto che il lavoro ha 2 anni e non sempre le installazioni durano molto).
L’idea, però, è bella. I campanelli sono sospesi su steli metallici oscillanti piantati nel terreno e possono toccarsi ad ogni alito di vento.
In questa scultura di Evan Holm dei giradischi, con relativo disco in vinile, sono leggermente sommersi e tuttavia funzionano. Dico leggermente sommersi perché il braccetto e la maggior parte del blocco che decodifica la vibrazione della puntina stanno fuori, quindi si tratta solo di qualche millimetro di acqua.
Ciò nonostante, come si può sentire nel video qui sotto, il suono è praticamente perfetto come non avrei mai immaginato. È evidente che il motore deve essere protetto dall’acqua e che la stessa non deve penetrare il blocco della puntina. La prima cosa non è complicata (qui c’è un making of in cui si vede che la parte elettrica del motore è esterna, appesa all’albero), ma la seconda mi riesce difficile immaginare come sia possibile. Dal making of non si evincono particolari accorgimenti per impedire all’acqua di penetrare nel foro da cui esce il sostegno della puntina. Evidentemente l’acqua è così poca che non ci arriva.
Tuttavia il moto che si genera nell’acqua dovrebbe interferire con l’aderenza della puntina al solco, arrivando a far levitare il braccetto. L’unica spiegazione è che quest’ultimo sia decisamente pesante e in effetti la lunghezza del braccetto depone a favore di questa ipotesi. Il tutto, comunque, non è un gioco e nemmeno uno studio sulla resa del giradischi. Ecco la nota dell’autore:
There will be a time when all tracings of human culture will dissolve back into the soil under the slow crush of the unfolding universe. The pool, black and depthless, represents loss, represents mystery and represents the collective subconscious of the human race. By placing these records underneath the dark and obscure surface of the pool, I am enacting a small moment of remorse towards this loss. In the end however this is an optimistic sculpture, for just after that moment of submergence; tone, melody and ultimately song is pulled back out of the pool, past the veil of the subconscious, out from under the crush of time, and back into a living and breathing realm. When I perform with this sculpture, I am honoring and celebrating all the musicians, all the artists that have helped to build our human culture.