Per la fine dei tempi

messiaenOlivier Messiaen was born 98 years ago, on December 10, 1908.
The Quartet for the End of Time was written after Messiaen, then a French soldier, was captured and incarcerated in a German prisoner-of-war camp, and first performed by the composer and three fellow inmates in the unheated barracks of Stalag VIIIA on January 15, 1941, before an audience of 300 prisoners and their German guards.

Clarinette : Barnaby Robson
Violon : James Clark
Violoncelle : David Cohen
Piano : Matthew Schellhorn

Koenji Hyakkei

Koenji Hyakkei’s music sometimes is a little like Magma, but I like it.

Secondo me il video c’entra come i cavoli a merenda, ma Koenji Hyakkei (高円寺百景) a volte, come in questo pezzo, mi piacciono parecchio.
Sono un po’ (tanto) Magma (chi si ricorda i francesi di Christian Vander?), ma la complessità, il superamento del solito schema ritornello-inciso e l’energia rendono questo brano superiore alla media.

Certo che la faccenda mi ricorda un po’ Shostakovich, quando diceva che la musica (nel suo caso) russa aveva un grande futuro dietro di sé…

Line-up

Yoshida Tatsuya – drums, vocals
Sakamoto Kengo – bass & voice
Kanazawa Miyako – keyboards & voice
Yamamoto Kyoko – vocals
Komori Keiko – reeds & voice

Thunderwords of Finnegans Wake

Ci sono dieci tuoni nel Wake. Ognuno è un crittogramma o una spiegazione codificata delle conseguenze tonanti e riverberanti dei principali cambiamenti tecnologici in tutta la storia umana. Quando un uomo tribale sente un tuono, dice: “Cosa ha detto quella volta?”, con la stessa spontaneità con cui diciamo “Gesundheit” (trad. “Salute”).
[Marshall McLuhan]

Ecco i tuoni (in realtà non tutti sono veri tuoni, alcuni sono battimani, colpo di tosse, sbattere di porta…), come li ha scritti James Joyce e il primo interpretato da John Cage

Bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonnthunntrovarrhounawnskawntoohoohoordenenthurnuk

Perkodhuskurunbarggruauyagokgorlayorgromgremmitghundhurthrumathunaradidillifaititillibumullunukkunun

Klikkaklakkaklaskaklopatzklatschabattacreppycrottygraddaghsemmihsammihnouithappluddyappladdypkonpkot

Bladyughfoulmoecklenburgwhurawhorascortastrumpapornanennykocksapastippatappatupperstrippuckputtanach

Thingcrooklyexineverypasturesixdixlikencehimaroundhersthemaggerbykinkinkankanwithdownmindlookingated

Lukkedoerendunandurraskewdylooshoofermoyportertooryzooysphalnabortansporthaokansakroidverjkapakkapuk

Bothallchoractorschumminaroundgansumuminarumdrumstrumtruminahumptadumpwaultopoofoolooderamaunsturnup

Pappappapparrassannuaragheallachnatullaghmonganmacmacmacwhackfalltherdebblenonthedubblandaddydoodled

husstenhasstencaffincoffintussemtossemdamandamnacosaghcusaghhobixhatouxpeswchbechoscashlcarcarcaract

Ullhodturdenweirmudgaardgringnirurdrmolnirfenrirlukkilokkibaugimandodrrerinsurtkrinmgernrackinarockar

Tomorrow Never Knows

beatles

Erano molti anni che non vedevo queste immagini dei Beatles fotografate ed elaborate da Richard Avedon nel 1967, quando me le sono trovate davanti in un sito (che peraltro vende manifesti non musica).
Così ho pensato di invitarvi a riascoltare quella che considero una delle canzoni più sperimentali che i Beatles abbiano mai scritto. E non è A Day in the Life e nemmeno Revolution #9, ma Tomorrow Never Knows, il brano che chiude l’album Revolver del 1966.
Ci sono decine di loops che entrano ed escono di continuo. E sono loops veri, fatti tagliando e misurando il nastro. La leggenda racconta che Paul arrivò allo studio portandosi i nastri in un sacchetto di plastica e che furono caricati su una serie di registratori piazzati qui e la nello studio, tutti collegati a un mixer che permetteva di controllarli.
Qui trovate l’analisi di Alan W. Pollack.

The Beatles – Tomorrow Never Knows (1966)

Illegal Art

illegal art

L’organizzazione Illegal Art pubblica, nella sua sezione audio, un nuovo album totamente illegale in quanto i pezzi sono quasi totalmente composti di campionamenti per cui non sono stati pagati i diritti.
Aderiscono all’iniziativa gruppi più o meno noti, fra cui Public Enemy, Beastie Boys, JAMs, Elastica, Verve, Xper.Xr.
Trovate l’intero album, qui.
Io vi posto un simpatico frammento di De La Soul, “Transmitting live from Mars”, materia di scontro con i Turtles (quelli di Happy Together), ma non perdetevi They Aren’t the World dei Culturcide, cattivissima e stonatissima risposta ai We Are the World di natalizia memoria.

Berio: Six Encores for piano

I Six Encores sono sei brevi pezzi, scritti tra il ‘65 e il ‘90, e raccolti sotto questo titolo, quasi ad evidenziarne la forma breve, aforistica e solo apparentemente disimpegnata.
I primi quattro Encores sono dedicati agli elementi empedoclei: acqua, aria, terra, fuoco.
Wasserklavier, del 1965, indaga gli aspetti simbolici e le suggestioni che possono essere legate al concetto di acqua, specie in relazione con gli strati “sommersi” della memoria: di qui l’utilizzo di materiale armonico derivato dall’Impromptu op. 142 n. 1 di Schubert e dall’Intermezzo op. 117 n. 2 di Brahms. Il risultato è di toccante nostalgia, anche grazie ad un attento ed originale studio sul timbro dello strumento, di cui si rievocano alcuni tratti salienti (in particolare derivati dal pianismo di Chopin, Debussy e Skriabin) con grande maestria ed originalità.
Erdenklavier (1969) consiste in un’esplorazione degli effetti timbrici legati alla risonanza per simpatia ottenuta con giochi di note tenute e con forti contrasti dinamici. È un brano pressoché monodico,e forse anche per questo richiama atmosfere arcaiche, che possono essere associate ad una concezione archeologica dell’idea di “terra” e di ciò che sotto (o dentro) di essa si trova.
In Luftklavier (1985), l’elemento “aria” è rievocato attraverso un rapido movimento di notine in pianissimo, non troppo differentemente dal successivo Feuerklavier (ma d’altro canto anche il fuoco, come l’aria, è imprendibile e in continuo movimento). Il “colore” pianistico è iridescente e cangiante, ed assume sempre diverse sfumature in base a vari accostamenti di materiale tematico. Feuerklavier (1989) è basato su un flusso turbinoso ed incessante di biscrome, attorno al quale si addensano materiali tematici in continuo sviluppo. L’estro virtuosistico è qui espresso con grande classe ed efficacia strumentale.
Brin e Leaf (1990), che completano la raccolta degli Encores, sono brevi pagine con una poetica esplorazione delle possibilità timbriche del pianoforte: affiorano sonorità magiche o impalpabili, con evocative risonanze ottenute grazie al sapiente gioco di pedali e note tenute.
[Da “La produzione pianistica di Luciano Berio” di Roberto Prosseda]

I. Brin
II. Leaf
III. Wasserklavier
IV. Erdenklavier
V. Luftklavier
VI. Feuerklavier

Andrea Lucchesini, piano

Pop (?) music that I loved (3)

Dylan Baez
Dylan non canta, abbaia.
Con questo statement mi sono attirato le ire di parecchi dylaniani. Nessuno ha capito che il mio era un apprezzamento.
Perché mi piace Dylan quando abbaia, ve lo spiegherò con una canzone di Woody Guthrie. Quello che sulla chitarra aveva scritto “questa macchina ammazza i fascisti”.
Si intitola Deportee (Plane Wreck at Los Gatos). È stata scritta nel 1948 e parla di quando gli americani riempivano di messicani qualche aereo residuato bellico (tipicamente i vecchi bimotori dakota) e li portavano a lavorare negli USA per poi riportarli indietro. Non li volevano come immigrati, ma solo come braccianti a basso costo. E poi, ogni tanto, uno di questi aerei cadeva e allora il New York Times riportava solo i nomi del pilota e dei 3 americani che erano a bordo, perché gli altri 28 morti, lavoratori messicani, erano soltanto dei deportati.

Questa canzone, resa famosa da Pete Seeger, esiste in moltissime versioni, tutte più o meno nello stile del country e/o western. Questa, per esempio, è di Arlo Guthrie, nello stile canonico.
La canzone viaggia. Arriva nelle mani di un quartetto d’eccezione nell’area country: Johnny Cash, Kris Kristofferson, Waylon Jennings, Willie Nelson (scusate l’interruzione brutale alla fine; il file era danneggiato) che ne danno una versione struggente e dondolante, come l’andare a cavallo.
Ai tempi di Easy Rider, poi, passa fra le dita dei Byrds e arrivano le frasettine bottleneck e le chitarre sono più libere. Tira aria di California, ma l’insieme è sempre maledettamente educato; i 3/4 ben scanditi.
La cantano anche Nancy Griffith & Lucinda Williams con contorno di amici vari: voci fra Joan Baez e Peter, Paul & Mary. Il country diventa folk, malinconico, ma gentile.
Anche Billy Bragg, pur essendo un cantautore della classe operaia (e per di più inglese) non è molto più arrabbiato. Non si sfugge alla tradizione.
Le cose cambiano un po’ con il Boss. Springsteen ha una voce leggendaria e qui si mangia ritmo e strofe, un po’ come fa con un altra canzone di Guthrie, This Land is your Land. La testimonianza di una memoria con uno stile ormai lontano dal country e anche dal folk, un modo per parlare del presente ricordando il passato.
Ma in un certo momento del 1976, Dylan la esegue ad un festival con Joan Baez. Lei cantava spesso questa canzone, con la sua bella voce impostata. Bella occasione per un duetto.
Però da subito si trova a correre disperatamente dietro a Dylan, che si accompagna malamente con la chitarra andando al 50% più veloce del normale e dal primo inciso in poi, abbaia il testo senza un attimo di respiro, annullando quasi del tutto le pause fra le strofe come solo lui e Mick Jagger sapevano fare. Ed è una corsa da brivido in cui le parole non sono più gentili, ma ti arrivano addosso come sassate, perché la rabbia è rabbia e si deve sentire.

Noi siamo morti sulle vostre colline e nei vostri deserti. Siamo morti nelle vostre valli e nelle vostre pianure. Siamo morti sotto i vostri alberi e nelle vostre foreste. Di qui e di la del fiume, siamo morti nello stesso modo.

Mi piace Bob Dylan quando abbaia…

The crops are all in and the peaches are rott’ning, The oranges piled in their creosote dumps; They’re flying ’em back to the Mexican border To pay all their money to wade back again
Goodbye to my Juan, goodbye, Rosalita, Adios mis amigos, Jesus y Maria; You won’t have your names when you ride the big airplane, All they will call you will be “deportees”
My father’s own father, he waded that river, They took all the money he made in his life; My brothers and sisters come working the fruit trees, And they rode the truck till they took down and died.
Some of us are illegal, and some are not wanted, Our work contract’s out and we have to move on; Six hundred miles to that Mexican border, They chase us like outlaws, like rustlers, like thieves.
The sky plane caught fire over Los Gatos Canyon, A fireball of lightning, and shook all our hills, Who are all these friends, all scattered like dry leaves? The radio says, “They are just deportees”
We died in your hills, we died in your deserts, We died in your valleys and died on your plains. We died ‘neath your trees and we died in your bushes, Both sides of the river, we died just the same.
Is this the best way we can grow our big orchards? Is this the best way we can grow our good fruit? To fall like dry leaves to rot on my topsoil And be called by no name except “deportees”?

Quelle strane riunioni di famiglia

band
L’altra sera mi sono ritrovato in mezzo a una di quelle strane pseudo-riunioni di famiglia in cui si parla e ci si vede via skype (potenza della tecnologia) con gente che non vedevi da 30 anni e che magari adesso sta a Londra o a Bruxelles e ha 3 figli.
La cosa buffa è sentirsi dire il classico “sei uguale!”. Sì, maledizione, non dubito di essere uguale a 30 anni fa quando mi vedi attraverso la malefica webcam di skype. Ho gli occhiali come allora e perlomeno, ho ancora tutti i capelli, io.
Ma è da vicino che dovresti guardarmi per vedere i segni delle cose fatte, delle bottiglie scolate, delle battaglie vinte e degli amori perduti (soprattutto l’ultimo, che è quello che lascia i segni più visibili).
Comunque, in omaggio a quelli che vedevo 30 anni fa e che si chiedevano perché mai mi ostinassi a fare quella strambissima musica contemporanea, quando anche quella normale mi veniva bene, ecco qui una delle pochissime registrazioni normali dell’epoca (con il suono un po’ ottuso a causa del degrado del nastro).
Fine anni ’70. Sangre y Arena.
Those were the days and that was the band →
(veramente ci sono state anche altre band altrettanto importanti per me, ma non sono rimaste registrazioni)
Il line-up di questa era

MG: basso elettrico con eco ed effetti vari, tastiere, synth e filtraggio di tutto
Margherita: voce con eco
Andrea Turco: sax
La batteria è la stramaledetta Boss da 2 lire.